Rivista "IBC" XIII, 2005, 3

Dossier: Destinazione Cina - Proposte italiane per la riqualificazione urbana

corrispondenze, progetti e realizzazioni

Pu Yi non abita più qui: appunti di viaggio e di lavoro in Cina

Piero Orlandi
[responsabile per la Regione Emilia-Romagna del progetto "Asia Urbs Chn5-06" per la riqualificazione urbana a Tianjin]

"La Cina", scrive Simon Leys, "è la più antica civiltà vivente del nostro pianeta".1 Altre infatti sono altrettanto antiche, ma sono cessate da tempo. Si potrebbe credere che da questo primato discenda una riverenza particolarmente accentuata dei cinesi per il passato e la memoria storica. In realtà sembra vero il contrario. "Una certa indifferenza e una curiosa negligenza" sono infatti i tratti caratteristici del loro rapporto verso la propria storia, o meglio verso le testimonianze materiali di essa. L'atteggiamento dei cinesi nei confronti del passato è il titolo di un saggio di Leys che può aiutarci a rispondere a molte delle domande che di norma il viaggiatore porta con sé al ritorno da quel paese, soprattutto se ha posto la sua attenzione sulle città, l'architettura, il paesaggio.

Il continuo e travolgente sviluppo economico cinese degli ultimi anni ha causato trasformazioni urbane rilevantissime, e il visitatore è colpito da una immagine urbana che pare il risultato evidente di un progetto che in larga misura prescinde da un rapporto di equilibrio con le preesistenze urbanistiche, architettoniche e sociali. Il mondo occidentale vede negli effetti perversi dello sviluppo cinese un danno grave per il patrimonio culturale dell'umanità intera. Vittorio Gregotti, uno degli architetti italiani più attivi in Cina, scrive della "competizione sgangherata" continuamente in atto nelle megalopoli tra l'uno e l'altro edificio in costruzione, a Pechino soprattutto, che "copre con il suo costruito circa 17.000 kmq, quasi come la dimensione dell'intero Belgio", e arriva a chiedersi se "è possibile che l'architettura divenga il più efficace ritratto (senza alcuna sublimazione) degli aspetti meno amabili della convivenza sociale".2

Alcuni progetti si pongono l'obiettivo di invertire questa tendenza, tra cui quelli descritti in queste pagine, uno dei quali in via di elaborazione da parte della Regione Emilia-Romagna con il sostegno della Commissione europea (europa.eu.int/comm/europeaid/projects/asia-urbs/china.htm). È un obiettivo certo opportuno, anche se non è da sottovalutare che gli sforzi profusi potrebbero anche finire per scontrarsi con la resistenza dei cinesi, piuttosto che riuscire a correggere le linee di tendenza del loro operare. E ce ne spiega le ragioni lo stesso Leys, quando parla dei "fenomeni paralleli di preservazione spirituale e di distruzione materiale rilevabili nel corso di tutta la storia della Cina". Mentre in Europa, nonostante le distruzioni belliche, i secoli hanno lasciato le loro testimonianze nei monumenti dell'architettura e dell'arte, in Cina quello che colpisce è, all'opposto, la "monumentale assenza del passato", nel senso delle sue testimonianze materiali. Leys ipotizza addirittura che la tabula rasa, le distruzioni periodiche a cui i cinesi hanno assoggettato i loro monumenti (le ultime in epoca maoista), siano in stretta relazione con l'inesauribile genio creativo della loro civiltà. "Un'eccessiva abbondanza di ricordi rischia di trasformarsi in una forma di inibizione", dice ancora Leys, e conclude: "La civiltà cinese non ha voluto che la sua storia dimorasse negli edifici", ricordando invece la venerazione per la calligrafia, i bronzi, le epigrafi, la pittura.

Queste osservazioni servono come premessa per quel che segue - il racconto dell'esperienza fatta in Cina dal 2001 a oggi per sviluppare un progetto del programma europeo "Asia Urbs" finalizzato alla riqualificazione urbana di una parte dell'ex concessione francese nella città di Tianjin (si veda in proposito il sito: tjre.org)3 - e anche per gli altri testi raccolti in questo dossier: quelli di Michele Zanelli e di Pippo Ciorra, che sono punti di vista sullo stesso lavoro, quello di Elisabetta G. Mapelli e Alberto Sansi su un altro progetto "Asia Urbs" per la conservazione degli hutong a Beijing (Pechino), quello di Augusto Cagnardi sulla esperienza condotta dallo studio di progettazione architettonica Gregotti Associati International nello sviluppo di alcuni progetti in Cina.

In un paese che per alcuni anni ha goduto di un ritmo di crescita prossimo al dieci per cento annuo, Tianjin è oggi la terza città per dimensione demografica. L'espansione edilizia produce annualmente circa dieci milioni di metri quadrati di nuove costruzioni. Le infrastrutture marciano di pari passo: si stanno potenziando i collegamenti con Pechino con la realizzazione di una expressway veloce, il corso del fiume Hai He fino al mare è oggetto di un vasto programma di sviluppo, nel nuovo porto di Tanggu si sta creando una zona franca e un'area industriale e tecnologica fra le più importanti della Cina. Nel 2003 si sono celebrati i seicento anni dalla fondazione della città, e, anche per la spinta data dal governo nazionale, da qualche tempo si è iniziato a guardare con un interesse diverso e più consapevole il patrimonio architettonico storico di marca europea originato dalle ex concessioni, che fino a non molti anni fa era considerato il fastidioso retaggio di un'epoca coloniale, il lascito dell'imperialismo dell'Occidente, più da cancellare che da preservare. La zona europea è stata dichiarata di interesse nazionale già nel 1986, ma fino al 2004, quando è iniziata la nostra collaborazione con le autorità urbanistiche locali, gli edifici classificati di interesse storico nella ex concessione francese erano solo una sessantina.

Nel 2002, uno scrittore di Tianjin di nome Hang Ying ha promosso la creazione del Modern Tianjin and World Museum,4 che possiede tra l'altro materiali, in larga misura fotografie, riguardanti le relazioni tra la Cina e i paesi esteri e la storia dello sviluppo dell'imperialismo occidentale a Tianjin (www.discovertianjin.org). Ne esce una storia della città nel Novecento, che riassumo brevemente. A metà del XIX secolo, dopo la sconfitta nella prima guerra dell'oppio, la Cina fu costretta da parte delle potenze occidentali vittoriose a sottostare ad alcuni accordi. In particolare, francesi, inglesi e americani si insediarono a circa tre chilometri a sud della città vecchia - estesa per un chilometro quadrato e mezzo, con quattro porte e due strade principali perpendicolari tra loro - e occuparono aree servite da porti fluviali sullo Hai He, da tempo via di comunicazione del commercio di pesce e sale. È questa la prima fase di costruzione delle concessioni e della città di stile europeo. Alla fine dell'Ottocento prende avvio una seconda fase di insediamento straniero, con l'arrivo di tedeschi, russi, giapponesi.

La concessione italiana nasce il 7 luglio 1902 con una estensione di circa 42 ettari; quella francese, negli stessi anni, si estende su 171 ettari, quella inglese su 368 (è la maggiore, e finirà per inglobare quella americana), quella tedesca su 254. Anche il Giappone ne ha una, di 124 ettari, e Tianjin diventa così il maggior centro del commercio giapponese nel Nord della Cina. L'insieme delle concessioni misura 1.399 ettari, mentre la città vecchia cinese ne misurava 176, otto volte di meno. Tutte le concessioni si affacciano sul fiume, che è la principale via di accesso a Pechino di persone e merci, e costituisce lo strumento strategico per controllare la vita economica locale, traendone i massimi vantaggi. Le ricchezze che affluiscono dall'esercizio delle concessioni consentono ai diversi stati di dare impulso a una poderosa attività edilizia: consolati, caserme, chiese, uffici governativi, alberghi, ville, locali per il divertimento; ma anche porti, banche, magazzini, fabbricati industriali, infrastrutture a rete, ferrovie, strade, ponti.

Con la vittoria sulla Germania nella prima guerra mondiale, la Cina si riappropria dei terreni in concessione ai tedeschi; nel 1917, dopo la rivoluzione, la Russia cede i propri diritti sulle aree urbane di Tianjin alla Cina, che nel 1931 si riappropria della concessione belga. Nel 1937 Tianjin cade nelle mani dei giapponesi, salvo le concessioni italiana, francese e inglese. I giapponesi spostano colossali investimenti su Tianjin, per farne il maggior porto del nord della Cina. Dal 1945, infine, con la sconfitta giapponese nel secondo conflitto mondiale, la Cina riprende in breve la sovranità su tutte le concessioni.

Luigi Barzini ci offre una vigorosa descrizione dell'arrivo di una nave al porto di Taku nel 1900, e poi del viaggio a Tien-Tsin, il nome con cui allora si designava Tianjin. Barzini, orvietano, giornalista del "Corriere della Sera" e più tardi senatore del Regno, giunge a bordo della "Vettor Pisani" nell'agosto di quell'anno, durante la rivolta dei Boxer, e scrive: "La terra a Taku non appare che all'ultimo momento. Nessuna montagna sull'orizzonte. Il mare a poco a poco si cambia in spiaggia per gradazioni. L'acqua è unita alla terra dal fango. Le onde sono grigie nel mezzo della rada, dove eravamo ancorati, a dieci miglia dalla riva; poi diventano gialle, poi rossicce, poi color tonaca di frate. La terra che viene dopo, piatta, a qualche palmo dal livello del mare, è dello stesso colore".5 Ecco il villaggio di Taku: "Le case sono di fango, piccole, povere. Sembra un villaggio di castori piuttosto che di uomini. Non si scorge un abitante. La popolazione è fuggita in massa. Sulle case sventola la bandiera americana". Barzini prende il treno:


Si arriva a Tien-Tsin. Per tutto è un movimento di truppe in mezzo alle macerie. Montagne di vettovagliamenti aspettano di essere trasportate al nord. La stazione è demolita. Non una casa è in piedi. Gli alberi sono troncati e tagliuzzati dall'uragano di piombo che si è scatenato per otto giorni sopra la città. Si cammina sui rottami. Lontano si vedono le torri a metà crollate della città cinese, dietro alle quali rosseggia un tramonto di fuoco. Lungo il Pei-ho si levano i monti di sale - il sale è una delle più grandi industrie del paese - che servirono da barricate ai russi per la difesa della città. Al di là del fiume si levano le fronti dei palazzi della concessione francese. Sembrano intatti, ma, guardando bene, si scorge il cielo attraverso le finestre. Anche quei palazzi sono morti; quei muri dalle chiare tinte allegre non sono che cadaveri di case, finzioni di vita, quinte di teatro. Tutto è desolazione, miseria. Tien-tsin, la popolosa città, la più fiorente metropoli del nord della Cina non esiste più. Le vie ingombre di macerie sono deserte. Non si vede un cinese. Soltanto qualche povero infelice, spinto dalla fame, si avvicina ai "diavoli bianchi", agitando una bandierina inglese o giapponese. Per ogni dove si sente l'odore di morte. Il ponte sul Pei-ho, di fronte alla concessione francese, è distrutto. Si traversa sopra a delle tavole che mal si reggono. L'acqua putrida di cadaveri scorre vorticosa, trascinando carogne di animali e di "boxers", che passano ancora gonfi e lividi, con le mani ischeletrite a fior d'acqua. Non si sente che il passaggio di soldati, il rumore dei carriaggi, il grido dei comandi. Passano dei russi nelle loro casacche bianche e con gli alti stivali caratteristici, passano piccoli giapponesi esatti come marionette, passano degli indiani splendidi, dalla pelle dorata, il profilo perfetto, la barba nera e i denti candidi, passano americani dinoccolati che sembrano boeri con la faccia lavata.


Ecco dunque una delle tante immagini di distruzione di una città cinese, e anzi proprio della zona di Tianjin dove lavoriamo ora; e che ancora, nel 1976, sarà rasa al suolo da un devastante terremoto. Quindici anni dopo, nel novembre 2001, ho accompagnato in Cina una delegazione composta da alcuni frati del convento benedettino di Santo Stefano di Bologna. Don Sergio Livi, il priore del convento, aveva commissionato un filmato sulla storia e sui restauri del complesso stefaniano, restauri che la Regione per un decennio aveva finanziato, con i fondi della Legge regionale 6 del 1989. Il filmato partecipava alla fase finale di un premio internazionale per prodotti della comunicazione multimediale, e l'iniziativa si svolgeva a Pechino. Partecipai a una presentazione pubblica del filmato all'Istituto italiano di cultura, alla presenza dell'ambasciatore e del responsabile dell'Istituto, il professor Mario Sabattini, il quale mi parlò più volte, con insistenza, della necessità che le istituzioni pubbliche italiane attive nel campo dell'urbanistica e dei beni culturali si prendessero a cuore la sorte dell'ex concessione italiana di Tianjin, e più in generale delle ex concessioni europee.

Di quel viaggio ricordo la sensazione di noia, quasi di fastidio che mi venne dall'architettura antica cinese, e perfino dalla visita della Città Proibita, o di altri monumenti cinesi come il Tempio del Cielo a Pechino, o il Palazzo d'Estate. Riflettendoci sopra, non senza un certo senso di colpa, mi venne poi in mente che forse il disagio veniva dalla sostanziale persistenza delle forme architettoniche attraverso i secoli, dovuta alle continue ricostruzioni di strutture facilmente deperibili per i materiali usati, legno soprattutto. È un fenomeno estraneo alla nostra cultura europea, che al contrario affianca in una affascinante stratificazione di stili i resti delle diverse epoche.

Tra le impressioni di quel viaggio: la quantità dei riparatori di biciclette sui marciapiedi, con i loro carrettini per gli attrezzi, e per terra la bacinella piena d'acqua che serve per trovare il foro nella camera d'aria. E certi cantieri con le impalcature in legno, dove piccoli operai con il casco giallo alle dodici in punto transitavano con una scodella in mano di riso bollito e un'altra di verdure bollite: oggi guadagnano trecento dollari al mese, ma dieci anni fa guadagnavano dieci volte meno. Ho anche ritrovato la frutta caramellata che si ordina nei ristoranti cinesi di Bologna, ma oltre alle pere, alle mele e alle banane c'era anche la patata. E facendo la mia lunga fila per visitare la tomba di Mao ho visto la gente che acquistava i mazzolini di fiori finti che alla fine della giornata vengono recuperati e rivenduti il giorno dopo dagli addetti.

Nel luglio del 2002, raccogliendo il suggerimento del professor Sabattini, sono stato per la prima volta a Tianjin con alcuni colleghi della società "Ecuba", con la quale volevamo verificare la fattibilità di un progetto urbanistico su un'area delle ex concessioni europee da presentare per il finanziamento a carico di un programma europeo dedicato appunto allo scambio di esperienze e di pratiche tra città e regioni europee e cinesi. In luglio il canto notturno delle cicale è assordante, e c'è una nebbia di caldo che lascia appena vedere le sagome dei grattacieli, tra cui il Golden Emperor e la torre dell'acquedotto con la sua antenna di oltre quattrocento metri. Nelle stradine ai margini della zona inglese ci sono montagne di rifiuti organici, soprattutto cocomeri. Una sera ci offrono la cena in un posto incredibile: una sala lunga almeno cento metri, con enormi lampadari di cristallo e un ballatoio superiore che immette alle salette riservate. Acquari e terrari dove stanno i pesci e i rettili che possono essere ordinati per la cena. Anziché avere il menu scritto al tavolo è possibile girare per interminabili scaffalature dove sono messi in mostra i piatti della cucina locale, sotto un velo di pellicola trasparente. Al centro della sala c'è uno schermo su cui scorrono le immagini di un episodio della serie televisiva di Mr. Bean.

Durante il giorno le cicliste pedalano coperte da cappellini a larghe falde, indossando guanti lunghi fino al gomito e tenendo l'ombrello parasole con la sinistra. Le auto non danno la precedenza a destra, il primo che riesce a raggiungere il centro dell'incrocio ha vinto. Tutti suonano il clacson, più che a Napoli, direi. Al pranzo con le autorità del distretto mi presento con i regali ufficiali. Gagliardetti, distintivi, CD musicali di opere verdiane: queste le cose che mi hanno dato all'Ufficio relazioni internazionali della Regione. Adesso il problema per me è decidere le gerarchie e dare i doni per conseguenza. A Susan, l'interprete, regalo la stampa che ho personalmente portato da Bologna, la riproduzione di una veduta dell'Ottocento di Antonio Basoli, con la via Riva di Reno.

Sono curioso di trovare nella città di oggi tracce della storia di ieri, spinto dal ricordo delle immagini viste ne L'ultimo imperatore, il film che Bernardo Bertolucci girò nel 1987, un melodramma epico e viscontiano che infine ci mostra Pu Yi al termine dei suoi giorni, schiacciato dalla storia e ridotto a coltivare crisantemi. Si può girare per Tianjin cercando tracce dell'ultimo imperatore, ma non credo si trovi nulla di più che un suo grammofono, in una bacheca del bellissimo e decadente Hotel Astor, una costruzione in stile coloniale con un ristorante, il Marco Polo, la cui immagine è congelata agli anni Trenta, e che dunque potrebbe essersi fissata negli occhi di Pu Yi.

L'ultimo imperatore della dinastia Ching nacque nel febbraio 1906, salì al trono nel 1908, fu deposto nel 1911 e nel 1924 fu cacciato dalla Città Proibita dai soldati dell'esercito nazionale. La sua vita per alcuni anni si intreccia con la città di Tianjin. Lasciata la Città Proibita, Pu Yi visse per tre mesi nella legazione giapponese a Pechino, poi il 23 febbraio 1925 giunse in treno a Tianjin, dove restò per quasi sette anni. Dapprima visse nella legazione giapponese, al Giardino Chang, poi nel luglio 1929 si trasferì nel Giardino Tranquillo. Il 20 novembre 1931 uscì nottetempo dal portale principale del giardino in auto, nascondendosi nel bagagliaio. Giunto in un ristorante giapponese, indossò mantello e cappello dell'esercito giapponese e raggiunse un molo sul fiume, nella concessione britannica. Salì su una motovedetta e con questa, forzando un posto di blocco, raggiunse Taku. Qui si imbarcò sul mercantile giapponese "Awaji Maru" e raggiunse la Manciuria. Traggo queste notizie dalla sua autobiografia, pubblicata a Pechino nel 1974, sette anni dopo la sua morte.6

Ritorno nel marzo del 2004, quando la Commissione europea ha comunicato che il nostro progetto è passato. Mr. Qin, vicedirettore dell'Urban Planning and Design Institute (UPDI), l'agenzia per l'urbanistica del Comune di Tianjin, ci parla della sua città: oltre settecento chilometri quadrati di estensione all'interno di quasi undicimila di territorio amministrato dall'autorità metropolitana speciale, oltre nove milioni di abitanti, nel complesso la terza conurbazione della Cina. Tra il 1860 e il 1945 vi ebbero sede le concessioni inglese, francese, russa, italiana, tedesca, belga, giapponese, austriaca, americana; le principali erano la francese a nord e l'inglese a sud. In quella francese fu aperto il primo ufficio postale di tutta la Cina. La città è dunque un campionario di quella che viene definita la classical western architecture.

A Tianjin fino a pochi anni fa non avevano considerato che questa fosse una risorsa. Ma dopo l'esempio di Shanghai e del suo Bund, il famoso lungofiume con gli edifici degli anni Trenta, anche a Tianjin si è cominciato a pensare diversamente. Hanno censito 62 edifici di interesse storico, sono appena agli albori delle politiche di conservazione. Ma non hanno problemi sullo sviluppo urbano: negli ultimi tre-cinque anni viaggiano al ritmo di dieci miliardi di dollari di investimenti pubblici all'anno, principalmente della municipalità e soprattutto impiegati nello sviluppo dell'area fluviale verso la foce del mare. Hanno costituito società di scopo pubbliche al cento per cento, e danno i terreni in concessione a società investitrici private, cinesi o straniere, per 50-70 anni. Ci porteranno a vedere Tanggu, la nuova zona portuale con duecentomila addetti, una zona industriale di 33 kmq e una residenziale di 8, che sta sorgendo sul Mar della Cina.

Il pranzo è in mensa, verso mezzogiorno, e alle due si riprende, ma il pomeriggio finisce presto, non più tardi delle cinque. La cena di lavoro è in un ristorante con menu mongolo, soliti discorsi ufficiali di saluto, apprezzamento e ringraziamento, reciproci. Finiamo un quarto d'ora dopo le otto, e i congedi sono rapidissimi: loro si alzano e vanno verso la porta, noi ci alziamo e transitando di lì per uscire riceviamo veloci strette di mano e sorrisi sbrigativi. La serata non può certo finire così. Torniamo in albergo, ma nessuno pensa di andare a letto. Ci mettiamo nella hall, seduti nelle poltrone del bar, a discutere un po' del progetto e delle strategie, soprattutto dei modi per uscire il più in fretta possibile dall'impasse delle questioni formali preliminari, a cui loro sembrano così intimamente affezionati.

Quando abbiamo finito di discutere è ancora presto, un gruppetto di noi prende un taxi per andare "in centro". È una locuzione che qui significa poco, e se anche significasse non è comunque comunicabile. I tassisti non sanno l'inglese, noi non sappiamo il cinese, non abbiamo un biglietto con su scritta la nostra destinazione, e non c'è dubbio che sappiano leggere una carta, tanto meno se è scritta in inglese. Alla fine il taxi ci porta chissà dove - noi abbiamo indicato al tassista la sagoma degli edifici alti del centro, lui ha finalmente annuito. A un certo punto riusciamo a ritrovare la "Jiefang Beilu", la strada più bella e monumentale della città, che parte dal ponte di ferro francese e arriva allo Hyatt Hotel e che è una immagine puramente europea: banche, consolati, uffici pubblici, e la facciata dell'Hotel Astor, il vecchio e cadente hotel coloniale dove due anni fa ho firmato la lettera di intenti con le autorità locali.

Il mattino dopo hanno cambiato la composizione floreale sul tavolo da riunioni. Hanno una grande cura in questo. Facciamo altri discorsi di metodo, ricordando l'interesse anche politico della Regione Emilia-Romagna a sviluppare i contatti con il mercato cinese; dichiariamo tutta la nostra meraviglia per lo sviluppo urbano, per i grandi mezzi economici, tecnici e organizzativi che loro sono in grado di mettere in campo. Esprimiamo tutto l'apprezzamento per le loro capacità di lavoro, e per l'entusiasmo che si percepisce; in entrambe le cose riconosciamo un po' il nostro background, ma dobbiamo risalire al nostro periodo di boom, quello degli anni Sessanta.

Bisogna dare le cose - biglietti da visita e passaporto, per esempio - con due mani, per gentilezza, per distinzione, per riguardo. Ma bisogna anche rompere con le schermaglie verbali e cominciare a fare domande precise. Per esempio, che ci forniscano la loro legge statale sulla conservazione e tutela dei monumenti, che pare sia di recente emanazione. Abbiamo bisogno di foto aeree per iniziare a studiare il tessuto urbano, e di catasti o carte storiche, per applicare le metodologie della conservazione integrata. La scelta intanto è caduta, dopo un paio di sopralluoghi, su una parte dell'ex concessione francese, visto che in quella italiana stanno già lavorando la Regione Lombardia e lo Studio Gregotti di Milano.

L'area-pilota prescelta per il nostro progetto misura circa 15 ettari, e ha come centro l'incrocio tra due strade che attraversano il fiume con due ponti, uno dei quali, a nord, è un vecchio ponte di ferro apribile. Da subito si evidenzia come il problema non è solo quello della conservazione fisica ma anche sociale. Si propone di studiare soluzioni compatibili con la permanenza della popolazione in loco, per esempio realizzando nuovi alloggi in zone scarsamente edificate o interessate da edifici di scarso pregio che possono essere demoliti e ricostruiti con volumetrie maggiori. È inutile nascondersi però che uno degli obiettivi del progetto, ovvero costruire metodologie replicabili in altre realtà, è certamente arduo da raggiungere.

Ci sono in Cina molti casi come quello degli hutong (i vicoli storici) di Pechino, che sono l'esempio più evidente del difficile grado di integrazione tra conservazione fisica e conservazione sociale: la popolazione oggi residente in questi quartieri ad altissima densità ma a un solo piano non può esservi rialloggiata dopo gli interventi conservativi, per il semplice motivo che gli standard abitativi non lo consentono; non resta che spostare alcuni abitanti altrove, oppure densificare di più il quartiere, trasformando in modo radicale le tipologie edilizie esistenti; entrambe soluzioni dolorose, per l'uno o l'altro aspetto, architettonico e sociale. È questo un problema che va affrontato volta per volta, là dove si intende intervenire; e dunque non può esistere in verità un progetto replicabile astrattamente e acriticamente. Va detto che il caso di Tianjin è molto diverso da quello di Pechino: sono molti, qui, i casi di tipologie di scarso o nullo interesse che possono essere demolite e sostituite con architettura di nuovo impianto, senza compromettere l'immagine della città storica, già largamente manomessa nel secondo dopoguerra e soprattutto duramente colpita dal terremoto del 1976.

Nel luglio 2004 siamo di nuovo in Cina. Nella sua relazione seminariale Giampiero Cuppini parla dei restauri della Tianjin bolognese, ovvero la cittadella universitaria, che in effetti è degli anni Venti o Trenta. Io illustro i temi e i problemi che abbiamo affrontato con lo sviluppo del progetto in questi primi tre mesi: l'analisi morfologica, la viabilità, il tema del lungofiume come elemento di qualità del progetto, una nostra ipotesi di ampliamento degli edifici da mantenere, qualche studio preliminare elaborato da Pippo Ciorra sui due isolati dove dobbiamo sviluppare il piano particolareggiato, l'ipotesi di interrare i parcheggi, i problemi legati all'analisi storica. Sono stato a Aix en Provence, agli Archives d'Outremer, ma non ho trovato che due carte geografiche della zona di Tianjin e della viabilità tra Tianjin e Pechino, sulla base di rilievi francesi dei primi anni del Novecento. Troppo poco per le nostre necessità, ma bisogna andare avanti lo stesso.

Una sera al ristorante ci troviamo in difficoltà. Il menu non è tradotto in inglese e con noi non c'è nessuno dei nostri colleghi cinesi dell'ufficio che abbiamo costituito, Wan Dao Song o Wan Li, il suo figlio ingegnere. Proviamo a indicare a caso sei o sette piatti diversi sul menu, col dito, pensando che per un semplice calcolo di probabilità dovremmo vedere arrivare un po' di carne, un po' di pesce, un po' di verdure, e quello che non piace a uno piacerà all'altro. Ma loro non portano nulla, restano inerti scuotendo la testa o guardandosi incerti tra loro. Non so perché. Mi viene da pensare che forse temono che alla fine non pagheremo i cibi, se non ci sono piaciuti, e vogliono che ordiniamo consapevolmente. Non resta che telefonare a Wan Li, che non risponde, poi a Wan Dao Song, e gli chiediamo se possiamo passargli la cameriera. Accetta, e ordina per noi. Anche questi sono piccoli problemi di ordinaria quotidianità cinese...

C'è da organizzare il programma della visita cinese di settembre in Spagna e Italia, c'è da aiutare Lucia Giraldi ad ambientarsi nella casa che le hanno trovato in affitto a Tianjin, dove resterà per i prossimi cinque mesi, fino a fine 2004, per costituire il nostro punto di appoggio tecnico qui. Lavorerà in ufficio con i due Wan, e farà rilievi, fotografie, pungolerà l'UPDI perché ci fornisca i materiali di base per lo sviluppo del progetto. Poi Lucia farà la tesi in progettazione architettonica sulla ex concessione francese, con Pippo Ciorra, alla Facoltà di architettura di Ascoli Piceno.

Finalmente, il 22 luglio, il nostro interlocutore, Mr. Qin, invece di limitarsi ad ascoltare - come spesso succede - parla. E ho notato che quando parlano, i cinesi dicono cose pesanti, dirette, senza troppe circonvoluzioni. Dice: "Non vogliamo che quello che avviene nel nostro progetto-pilota sia come una pianta nella serra, vogliamo che queste piante crescano anche altrove". È un po' la scommessa del nostro lavoro, e ci pare un complimento verso di noi, o almeno un atto di fiducia. Dice di esser rimasto molto colpito dal progetto di riconversione della scuola di Fano che Cuppini ha presentato. Dalla integrazione tra nuovo e antico che vi si coglie. Pensa che la nostra zona possa anche avere vocazioni turistiche (la presenza del fiume, degli edifici storici), per un turismo interno. Prendiamo nota, e basiamo il nostro lavoro futuro su queste indicazioni, poche ma buone, decise.

Nel pomeriggio incontriamo i rappresentanti della "HEDO", una società mista che lavora per la valorizzazione della zona della ex concessione italiana. Le prime idee su questa zona sono state sviluppate a partire dal '97: oggi già parecchie migliaia di persone sono state trasferite altrove, gli edifici sono stati resi liberi per il restauro o la demolizione, le strade sono in gran parte cumuli di terra e nelle voragini stanno facendo le nuove fognature e tutti gli impianti a rete. Ci sono molti edifici degradati dal terremoto del '76, e da quelli vogliono cominciare. Sono 18 isolati, 36 ettari. C'è stato un concorso di architettura, a cui ha partecipato anche uno studio italiano. Domani il sindaco di Tianjin e l'ambasciatore d'Italia Gabriele Menegatti discuteranno di come procedere, velocemente; pare ci sia in città qualcuno dello Studio Gregotti, ma non ci incontriamo. Incontriamo invece Menegatti. Ci invita a far presto. Si lamenta perché non lo avevamo informato, cerco di recuperare fiducia dicendo - è vero - che avevamo parlato con l'ambasciatore precedente, e soprattutto con il responsabile dell'Istituto italiano di cultura, il professor Sabattini. Annuisce, ma non commenta.

Prima di tornare in Cina l'ultima volta, nel marzo del 2005, ho cercato qualche risposta ai miei interrogativi sull'estetica della città e dell'architettura cinese e l'ho trovata in un libro bellissimo, scritto da un famoso filosofo.7 Li Zehou dice che l'architettura cinese ha due caratteristiche fondamentali: è orizzontale ed è dedicata all'uomo:


[...] fin dalle sue prime origini, l'arte architettonica cinese si è incentrata non su singoli edifici indipendenti, ma su vasti complessi di parti connesse e coordinate, diffuse su un'area ampia. L'architettura cinese si focalizza sulla composizione organica delle parti in un complesso orizzontale, armonioso e coerente. [...] La tomba del primo imperatore si può ben accostare alle piramidi egiziane per bellezza e potenza, in entrambi i casi si tratta di tombe, ma la differenza fondamentale è che la tomba Qin è un sistema assai complicato di parti intricate e connesse fra loro che si estendono orizzontalmente, anziché una struttura indipendente, dalla forma semplice e rastremata, che si erge in senso verticale.


E l'altra osservazione consiste nel fatto che mentre molti degli edifici più importanti e rappresentativi della cultura occidentale sono dedicati a esseri soprannaturali e destinati al loro culto, i principali palazzi cinesi sono costruiti per imperatori e re, ovvero per esseri umani. "Gli edifici non sono luoghi da visitare una volta alla settimana per purificarsi l'anima, ma sono da rivisitare costantemente, o da usare come dimora". Non danno l'impressione di "un vasto spazio cupo e cavernoso" come molti dei principali edifici religiosi dell'occidente; al contrario, il carattere dell'architettura cinese è "una mobile bellezza che si dispiega nel tempo". Se pensiamo ai padiglioni nei giardini cinesi, per esempio, l'impressione è di gioia, luce, acqua, verde, insomma un rapporto con la natura ottenuto attraverso una vera e propria lenta immersione totale: "[...] i complessi cinesi, con le loro ampie dimensioni orizzontali, consentono ai visitatori di passeggiare a loro piacere attraverso un'ininterrotta serie di sale varie e intricate, di logge, padiglioni e terrazze, in cui si compendiano il benessere e il comfort della vita [...] lo spazio è trasformato in tempo, in quanto ci si può muovere al suo interno a proprio agio, sulla misura del proprio passo."

Altra differenza con l'occidente, continua Li Zehou, è la ferma razionalità dell'architettura cinese, e di questa razionalità la simmetria è la principale evidenza: solennità, ordine, regolarità. Viene da domandarsi se nella città cinese di oggi questi sono ancora i valori dominanti. A prima vista la risposta sarebbe no. Il disordine e il contrasto li hanno sostituiti. Certo non sembra che i criteri che gli urbanisti e gli architetti cinesi perseguono oggi si richiamino a quelli usati per gli edifici antichi, dove "l'ordinata composizione, le serpeggianti diramazioni e la concatenazione delle parti sortiscono un evidente effetto di grandiosità e di potenza". La grandiosità e la potenza restano, anche se con un diverso sapore: la grandiosità si confonde con lo spreco, la potenza con l'ostentazione.8 Eppure, a mio parere, l'effetto complessivo è di una forza irresistibile. Tra le immagini che meglio sanno renderla, questa forza, con la sua deriva possibile di angosciosa brutalità, ci sono quelle scattate dal fotografo emiliano Olivo Barbieri per un reportage degli anni Novanta. E il titolo scelto, "verità virtuali",9 suona ancora perfetto.

 

Note

(1) Simon Leys è lo pseudonimo del sinologo e storico dell'arte Pierre Rickmans. Il testo da cui sono tratte le citazioni è: S. Leys, L'umore, l'onore, l'orrore. Saggi sulla Cina, Roma, Editrice Irradiazioni, 2004, pp. 13-41.

(2) V. Gregotti, La cieca furia architettonica dell'Asia, "la Repubblica", 19 luglio 2005.

(3) "Urban Revitalisation in the Former European Concession Areas in Tianjin (China)": il progetto è curato dalla Regione Emilia-Romagna con la partnership dell'Institut Català d'Energia di Barcellona e del Municipal Tianjin Bureau of Planning and Land Resources. Il responsabile del progetto è lo scrivente, con la collaborazione di Michele Zanelli, Franca Gasperoni, Sauro Mezzetti, Lodovico Gherardi, Lucia Giraldi, Irene Luppi, la consulenza di Giampiero Cuppini, Pippo Ciorra e Roberto D'Agostino e della società "Ecuba" di Bologna (Andrea Claser, Carlo Venturi, Marcello Antinucci, Duccio Pierazzi, Maria Grazia Mazza, Eleonora Tricomi, Ugo Bonfreschi, Giorgia Bincoletto; www.ecuba.it/progetti).

(4) Il museo ha sede a Tianjin, 314 HeBei Road, Heping District, ed è il primo costituito da un'organizzazione non governativa in Cina, la Historical and Cultural Preservation Association.

(5) Le citazione sono tratte da: L. Barzini, Nell'Estremo Oriente, Sesto San Giovanni (Milano), Casa editrice Madella, 1915.

(6) L'autobiografia di Pu Yi è stata tradotta in italiano nel 1987 con il titolo Sono stato imperatore, ed è pubblicata da Bompiani.

(7) Li Zehou, La via della bellezza. Per una storia della cultura estetica cinese, Torino, Einaudi, 2004.

(8) Quanto allo spreco, nel 2003 la Cina ha consumato la metà del cemento, un terzo dell'acciaio, un quarto del rame e un quinto dell'alluminio prodotti al mondo (H. Maass, Cina blackout, "D la Repubblica delle Donne", 18 settembre 2004, p. 44).

(9) Olivo Barbieri. Virtual truths, a cura di P. Tognon, Cinisello Balsamo (Milano), Silvana Editoriale, 2001 (una selezione delle fotografie è visibile sul sito: www.virtualgallery.fotomodo.com).

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