Rivista "IBC" XIII, 2005, 1

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L. De Nardis, Romagna popolare. Scritti folklorici. 1923-1960, a cura di E. Baldini e G. Bellosi, Imola (Bologna), Editrice La Mandragora, 2003; G. Bacocco (G. Bagnaresi), Antiche orazioni popolari romagnole, a cura di G. Bellosi e C. Ghirardini, Imola (Bologna), Editrice La Mandragora, 2004.
Nella miniera della "Piê"

Vittorio Ferorelli
[IBC]

Riprendendo il filo della collana "Tradizioni popolari e dialetti di Romagna" (di cui si dava una prima notizia nel n. 4/2002 di "IBC") presentiamo qui gli ultimi due volumi pubblicati dall'Associazione "Istituto Friedrich Schürr" di Santo Stefano (Ravenna) con i tipi dell'Editrice imolese La Mandragora e con il contributo della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna.

Nel 2003 Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi hanno riproposto per la prima volta in volume gli scritti sulla Romagna popolare di Luciano De Nardis, apparsi dal 1923 al 1960 ne "La Piê" e in altri periodici. Alla "Piê" - la storica rivista di illustrazione romagnola fondata nel 1919 da Antonio Beltramelli, Aldo Spallicci e Francesco Balilla Pratella - Luciano De Nardis (nom de plume di Livio Carloni) partecipò assiduamente sin dal primo numero, e ad essa affidò la maggior parte della sua produzione. "Andava per un suo lavoro di controllore dei danni della grandine per conto d'una società d'assicurazioni" - ricorda Spallicci - "ed ascoltava con un orecchio le lagnanze a tinte colorite del contadino e con l'altra i commenti della arzdora".

Raccolse così una grande quantità di spigolature sui temi più svariati della vita popolare: le tradizioni legate al ciclo annuale (le usanze di fine e inizio d'anno, la Madonna del Fuoco, il gioco quaresimale del foraverd, l'uovo e il gallo dell'Ascensione), i personaggi e gli animali mitici (e' mazapegul, al fêld, le streghe, i folletti, ...), le favole, l'interpretazione dei fenomeni naturali e dei segni di disgrazia, le donne che "segnano i mali". La scrittura di De Nardis è più poetica che tassonomica: il suo linguaggio evoca e coinvolge, piuttosto che analizzare asetticamente. Borbottassero pure gli scienziati del folklore, diceva Paolo Toschi (che pure era uno dei più grandi): la mole e la genuinità del materiale raccolto da De Nardis erano ciò che soprattutto contava.

Nel gruppo di folkloristi a cui "La Piê" offriva la possibilità di dare alle stampe materiali e studi altrimenti destinati all'inedito c'era anche Giovanni Bagnaresi, che a sua volta amava firmarsi "Bacocco" riprendendo il soprannome con cui lo conoscevano a Castel Bolognese (Gianita d'Bacoch). Alla sua raccolta di antiche orazioni popolari romagnole è dedicato l'ultimo volume dato alle stampe nella collana della "Schürr", curato nel 2004 da Giuseppe Bellosi e Cristina Ghirardini. Nel 1960 il figlio di Bagnaresi, Giacomo, donò alla Biblioteca comunale castellana una raccolta di manoscritti e di dattiloscritti del padre, altri sono tuttora conservati dal nipote Gian Battista Borzatta. Il volume trae la sua materia da entrambi i fondi, pubblicandone anche alcuni inediti insieme a una selezione dei testi comparsi ne "La Piê" tra il 1926 e il 1951.

Dopo averli ascoltati dalla voce diretta dei suoi vari informatori di paese (annotati ciascuno col proprio soprannome: la Rosa d'Berta, la Anena d'Busanott, Pasquêl dla Canova, ...), Bagnaresi trascrisse e collazionò fiabe, leggende, indovinelli, proverbi, modi dire e canti, e tra questi ultimi una grande quantità di canti narrativi religiosi, le cosiddette "orazioni": preghiere vere e proprie, ma anche testi relativi alla Maternità di Maria, alla Natività, alla Passione, alle vite dei santi, a leggende moraleggianti e allo stato delle anime dopo la morte. Una miniera a cielo aperto per gli antropologi e per i linguisti, come pure per gli studiosi della poesia italiana: in questi canti, eseguiti dai contadini nelle veglie invernali, dalle donne impegnate al telaio, ma anche dai mendicanti-rapsodi in cerca di elemosina, si possono indagare le tracce di una tradizione che risale fino al Duecento.

Lo stupore che doveva provare Bagnaresi ascoltando questa lingua arcaica, mista di italiano e dialetto, intessuta di oscurità dal sapore magico, oggi rimane intatto. Come di fronte all'orazione di Lursifel, Lucifero, "certo avanzo di vecchio mistero, che si conservò per utilità dei poveri [...]. Me li ricordo anch'io nella mia giovinezza questi rapsodi, che, dopo avere salmodiato piano in coro la cantilena, finivano col dire: 'Gesò, Mareia, dem e mi truclen, cha vega veia [Gesù, Maria, datemi il mio tozzo di pane, affinché vada via]'".

 

L. De Nardis, Romagna popolare. Scritti folklorici. 1923-1960, a cura di E. Baldini e G. Bellosi, Imola (Bologna), Editrice La Mandragora, 2003, 323 p., _ 15,00;

G. Bacocco (G. Bagnaresi), Antiche orazioni popolari romagnole, a cura di G. Bellosi e C. Ghirardini, Imola (Bologna), Editrice La Mandragora, 2004, 271 p., _ 15,00.

 

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