Rivista "IBC" XII, 2004, 3
Dossier: Carattere Europa
musei e beni culturali, biblioteche e archivi, dossier /
Se il discorso, com'è ovvio in questa sede, deve tenere nel debito conto la situazione delle biblioteche italiane, non può esimersi, fin dall'inizio, dal precisare che qualsiasi conclusione generale sarebbe istituzionalmente invalidata se volesse riferirsi all'universo delle biblioteche d'Italia: tanto proteiforme ne è la fisionomia, tanto varie ne sono le necessità. Il nostro tema sembrerebbe dunque bloccato in partenza; come uscire dall'impasse?
Non certo focalizzandosi su casi particolari, che possono essere anche molto interessanti, ma non recano contributo che a sé stessi. Forse, un po' paradossalmente, al pericolo di generalizzazioni cieche si può sfuggire riducendosi ad alcune considerazioni che più generali non si può, fino a sfiorare il rischio (ma è sempre un rischio?) dell'astrattezza.
Si è molto insistito sulla contrapposizione biblioteca pubblica / biblioteca storica e sugli inconvenienti che la coesistenza della coppia in un unico istituto comporta. Credo d'aver partecipato anch'io a quest'insistenza, tanto tempo fa. Se è così, me ne pento, e sono ansioso d'una ritrattazione. Gli inconvenienti ci sono, eccome, ma sono tutti inconvenienti d'ordine pratico, e dipendono da questioni organizzative e gestionali; nessuno degli inconvenienti è d'ordine teorico, che sarebbero decisivi - questi ultimi - in un discorso, come ho detto, quasi astratto. Penso ora che nessun provvedimento sarebbe più nefando che spezzare in due, per così dire, le biblioteche: da una parte i fondi storici, dall'altra i fondi "da biblioteca pubblica", in vista di un diverso modo di gestirle. Ritengo che la cosa sia fortunatamente impossibile. Esistono biblioteche solo "storiche" e biblioteche solo "pubbliche": queste lasciamole stare. Ma pensare che nell'altro caso, il caso della compresenza dei due elementi, ci si trovi di fronte a un'ibridazione (in tutt'altro senso da quello che s'intende ora, un po' ingenuamente, con l'espressione "biblioteca ibrida") è da respingere immediatamente. Non si tratta di qualità del patrimonio, prezioso in un caso, ordinario nell'altro. Che sia prezioso o ordinario lo diciamo noi e finché non supereremo giudizî di questo tipo non arriveremo a una gestione unitaria. La distinzione si pratica sul fondamento di un'idea sbagliata, che attecchisce ovunque. L'annullamento della distinzione dipende da noi, dalla concezione che ci facciamo di libro e poi di documento (su qualsiasi supporto) e poi, soprattutto, di documento primario. Leggiamo insieme un passo del bel libro di Tanselle, Letteratura e manufatti [G. T. Tanselle, Literature and artifacts, Charlottesville, The Bibliographical society of the University of Virginia, 1998, p. 132; traduzione di L. Crocetti, ndr]:
Certi bibliografi, nonostante abbiano scelto di spendere un'importante parte della vita a registrare i particolari fisici dei libri, condividono col grosso della specie umana la confusione su come funzionino i libri, su dove le formulazioni verbali (o musicali o coreografiche) risiedano realmente. Questa confusione è raffigurata dalla scena che si vede in molte biblioteche di ricerca, dove in una parte dell'edificio i libri fragili vengono microfilmati e gli originali scartati, mentre da un'altra parte, di solito chiamata dipartimento dei "rari" o dei "fondi speciali", i libri vengono sistemati con gran cura, per fragili che siano, nello sforzo di conservarli. Di queste attività la prima sottintende che le riproduzioni fotografiche dei testi equivalgano agli originali, e quindi ignora la funzione che le testimonianze fisiche hanno nella lettura; la raccolta di materiali nelle sale dei "rari", d'altra parte, sembra suggerire l'importanza della testimonianza manifattuale. Le due attività si fondano su premesse contraddittorie, e la professione bibliotecaria non ha avuto miglior successo del pubblico dei lettori nell'elaborare un criterio che le racchiuda entrambe in modo coerente.
Un criterio che le racchiuda entrambe in modo coerente. Questo dev'essere il
nostro obbiettivo, e non basta parlare di servizio: nel presupposto, peraltro
non certissimo, che la biblioteca moderna sia già dominata dal concetto di
servizio, e la storica no (passatemi, per brevità, questa terminologia,
moderna/storica, così approssimativa). Sicuramente le attività di tutt'e due
devono essere all'insegna del servizio: ma un servizio unico. Dov'è che le
due attività di cui parla Tanselle sono sbagliate? Nessuna delle due è
sbagliata di per sé: è utile, ovviamente, procurarsi le riproduzioni dei
testi, per infierire il meno possibile sulle copie possedute; è utile cercare
di conservare nel modo migliore possibile gli originali, perché durino nel
tempo.
L'errore dei "moderni" sta nel credere che quelle riproduzioni possano sostituire gli originali tout court. (Sia detto di passata, non credo che qui in Italia si siano perpetrati nella stessa misura i delitti così frequentemente commessi, stando a Tanselle [e, notate, da biblioteche come la Library of Congress o la New York Public Library!]: delitti di scarto, di distruzione. Da questo punto di vista stiamo probabilmente meglio dei ricchi Stati Uniti). È quindi un errore nell'intenzione (e nelle conseguenze, se portano a uno scarto), più che nell'atto in sé. Dall'altra parte, l'errore degli "storici" sta piuttosto nel ritenere di vivere in un'isola: salvati i prodotti indigeni dell'isola, si è a posto.
E invece, se si deve conquistare una "cultura di servizio", come oggi abominevolmente si dice, tanto da costringere il titolo di questa comunicazione a ospitare quest'espressione, non si tratta di acquisire, da parte degli "storici", qualcosa dai loro colleghi del reparto "moderno" (per esempio, la disponibilità, personale e del materiale): si tratta del contrario. C'è una parola che va pronunziata con pudore, ma che talvolta è necessaria: la parola missione. Se una missione c'è per i bibliotecarî di biblioteche storiche o della parte storica d'una biblioteca, non è certo quella d'imitare i colleghi della biblioteca moderna; ma di portare a grado a grado questi su una diversa posizione: una posizione comune su che cos'è un documento, che cosa significa, che cosa si deve farne. Il rifiuto dell'isola, ma non per entrare in un continente amorfo, dai contorni non delineati: per allargarla, l'isola, fino a dimensioni tali che d'isola non si possa più parlare.
E in che cosa consisterà la cultura di servizio dei bibliotecarî dei rari e dei fondi speciali? Molto spesso il cambiamento non si realizza facendo cose diverse da quelle che si sono sempre fatte, ma continuando a farle con coscienza diversa. Conservare, descrivere, catalogare, indicizzare seguiteranno a essere il nocciolo del mestiere; la cura del patrimonio non dipenderà dall'eccezionalità dei suoi pezzi componenti, ma dal semplice loro essere insostituibili, com'è di tutti i documenti; il bibliotecario sarà il primo studioso dei documenti che custodisce, perché il loro studio da lui condotto sarà il miglior servizio agli studiosi esterni, spianerà loro la strada. Ho sentito parlare, a questo proposito, di problemi deontologici: il bibliotecario che pubblica il catalogo di un fondo ha forse lavorato per sé, ha forse usato il suo ufficio come trampolino personale? Ricordiamoci che tutti i grandi del nostro passato, il nostro passato non sospetto, li ricordiamo soprattutto per i lavori che hanno pubblicato, al servizio delle necessità del pubblico. Cade qui l'osservazione inevitabile che, se un cambiamento di fatto (ma non di diritto) sta avvenendo (e deve sempre più avvenire), è quello del ricorso pieno alla tecnologia, con le possibilità smisurate che ci offre. Tecnologia che prima d'ogni altra cosa permette la cooperazione, estesa fin dove vogliamo, tra biblioteche. La costituzione d'indici e cataloghi partecipati, formati da registrazioni elettroniche, sempre provvisorie e in progress, aggiornabili in seguito a nuove indagini, ne sono l'esempio migliore. Ma molto sembra ancora inventabile. Collazionare sistematicamente tutte le copie possibili di uno stampato è, per l'edizione di scritti moderni, un'operazione indispensabile. Collazionare sistematicamente la copia posseduta da una biblioteca (o le copie) con le copie d'altre, registrandone le differenze, immettendo la relativa registrazione in rete e così risparmiando tempo e fatica agli studiosi (il servizio!), non mi sembra ancora un'attività diffusa (naturalmente posso sbagliarmi). Ma l'importante è che il lavoro, nella biblioteca storica, sia sempre ricerca e risultato di ricerca, secondo il detto di Armando Petrucci che desidero citare più estesamente [A. Petrucci, Medioevo da leggere. Guida allo studio delle testimonianze scritte del Medioevo italiano, Torino, Einaudi, 1992, p. 207, ndr]:
"Conservare per la scienza" e non più soltanto "per il Principe" pose e pone ai conservatori ulteriori problemi di ordinamento, di identificazione, di descrizione del materiale loro affidato, che erano assai minori nel passato, per la natura occasionale, rara, ingenua (oserei dire) e comunque esterna della domanda; pressanti oggi, perché la domanda è frequente, consapevole, mirata e dunque bisognosa di supporti ordinativi e conoscitivi per la ricerca, che gli utenti potenziali chiedono ai conservatori con insistenza, a volte con arroganza, quasi che fosse inevitabilmente necessario che tutto lo scibile scritto dovesse essere ordinato e catalogato ai fini della ricerca in modo preventivo e non (come pure sembrerebbe ragionevole) durante e come risultato della ricerca, delle ricerche di ognuno e di tutti.
Un atteggiamento e una forma mentis difficili da mantenere, perché i
bibliotecarî non potranno ancora godere, e chissà per quanto tempo, del
consenso diffuso dell'opinione comune, dell'opinione di parecchi colleghi e
perfino di parte degli studiosi (ma negli ultimi anni si sono fatti notevoli
progressi anche in Italia). La crux non riguarda i codici venerandi, o
gli incunaboli: Conor Fahy ci ha ricordato (Saggi di bibliografia testuale)
come perfino un'attenta e intelligente studiosa, Franca Brambilla Ageno,
affermasse che le copie di un'edizione a stampa moderna sono, l'una rispetto
all'altra, codices descripti. Eppure veniva dopo Santorre Debenedetti (Orlando
furioso) e Michele Barbi (I promessi sposi)!
Va ricercata l'unità. Che non è necessariamente unità fisica, e che poi non è soltanto l'unità all'interno di una biblioteca che si presuppone dotata di due anime, fenomeno già dubbio in natura; ma è l'unità all'interno dell'intero mondo bibliotecario. I moderni si studiano come gli antichi, le cinquecentine come i libri elettronici, i metodi subiscono solo aggiustamenti passando da un periodo storico all'altro. Come sempre accade nel nostro mondo bibliotecario, quando c'è da riformare qualcosa, ciò che va riformato non è un regolamento o una legge o una consuetudine: va riformato un modo di vedere che appartiene ancora a troppi di noi: vedere nelle biblioteche storiche solo una delle tante specie di museo e nelle biblioteche pubbliche solo un mercato d'informazioni non potrà essere ancora a lungo il fondamento del nostro lavoro. Se le biblioteche reggeranno il confronto con gli strumenti moderni e continueranno a esercitare le loro funzioni sarà proprio per questo, perché saranno riuscite a rappresentare l'unità e la continuità storica della cultura.
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