Rivista "IBC" XII, 2004, 2

linguaggi, pubblicazioni

S. D'Arzo, Opere, a cura di S. Costanzi, E. Orlandini, A. Sebastiani, Parma, Monte Università Parma - MUP Editore, 2003.
Cronache darziane

Jonathan Sisco
[insegnante di italiano]

"Come tutte le cose del mondo, anche questo libro ha una specie di storia. Forse la prima ragione per cui ogni cosa ha diritto sempre ad un po' di rispetto è proprio quella di avere una storia. Naturalmente io non chiedo rispetto: non credo di dover domandare qualcosa per me. A ciascuno il suo, e così sia: e questo è tutto". Ecco uno degli esempi più straordinari e sinceri dell'altruismo di D'Arzo, del profondo sentimento morale che qualifica la sua scrittura. D'improvviso, in uno spazio neutro di cui si parla senza alcuna reticenza, usando la più semplice fraseologia orale ("come tutte le cose del mondo", "a ciascuno il suo"), e introducendo addirittura la sentenza che conclude le preghiere ("e così sia"), si intuisce un mondo parallelo, il senso di una dignità ferita, di un orrore seducente e feriale.

È un'etica del rispetto, spiegherebbe oggi un osservatore sapiente come Richard Sennet, dove ogni cosa percepita, ogni uomo visto, diventa una presenza piena e seria, che vale, anche se la sua storia viene taciuta o magari dimenticata. Ma l'effetto drammatico di queste battute è accentuato anche dalla loro natura quasi testamentaria. Scritte fra 1948 e 1951, sono pronunciate da una voce anonima, quella del narratore del romanzo incompiuto Nostro lunedì di ignoto del XX secolo, che è anche l'ultimo traslato autobiografico dello scrittore reggiano Ezio Comparoni (alias Silvio D'Arzo), scomparso trentaduenne nel gennaio 1952. Come rivela questo volume di Opere, che propone "la totalità dei testi narrativi, critici e poetici del corpus darziano allo stato attuale degli studi e delle conoscenze", una vita così breve e solitaria non impedì a D'Arzo di scrivere forse più di quanto i suoi stessi lettori non tendano a percepire.

L'architettura per generi e cronologia dell'edizione, che si avvale della cura filologica di tre giovani darzisti di vaglia (Stefano Costanzi, Emanuela Orlandini, Alberto Sebastiani), contiene sei romanzi, diciotto racconti, quattordici saggi, venticinque poesie e quattro libri per ragazzi, costruendo così per lo scrittore reggiano un piccolo monumento memorabile - fortemente voluto da Guido Conti e dalla sua officina parmense - in cui si fa tesoro della dedizione e del riguardo riservato all'esperienza di D'Arzo dai suoi amici-custodi, menti limpide come Giannino Degani e conterranei fraterni come Canzio Dasoli. E via via che i romanzi si sommano ai racconti, da Essi pensano ad altro a Un minuto così, l'arcipelago dei fatti provinciali narrati da D'Arzo scopre il suo volto più sincero, quello di una società residuale, territorio di un'epica ironica ed elementare, e per questo stringata e dolente, abbandonata com'è all'onore di sé stessa e della sua coscienza discreta. Per i personaggi di D'Arzo si può ripetere a buon diritto quello che Walter Benjamin ha scritto una volta a proposito degli eroi sventati, vagabondi e fanciulleschi nella letteratura tedesca, cioè che le loro presenze eccentriche e chimeriche sono "figure provenienti dalla notte", dove essa è più nera e più folta, illuminata solo dai deboli lampioni della speranza.

Ha allora ragione Alberto Bertoni, nell'introduzione che apre il volume, quando coglie in D'Arzo uno "stoicismo popolare" che lo rende un testimone particolarmente lucido della storia europea di metà anni Quaranta, di quell'"agonia troppo prolungata" che predisponeva "all'ingenerosità e all'impazienza". In questo quadro occupano certo un posto eminente la dignità della morte e il senso di un'umanità smarrita raffigurati in Casa d'altri, il testo darziano che più perdura come un classico, anzi come un enigma pregnante, nella nostra narrativa novecentesca. Ma in questo volume di Opere si trovano molte altre pagine in cui la quintessenza metafisica della scrittura di D'Arzo mostra di avere anche una radice più sobria e precisa, definita, per esempio, dal suo modo di mettere in scena il pudore dei contadini e degli umili nei confronti del linguaggio o il sorriso scettico di dissimulazione che in periferia sostituisce la commozione, fino a inglobare anche il lettore nel vivaio di una comunità collaterale.

Nei suoi passaggi migliori, insomma, la scrittura di D'Arzo sembra cominciare dove finiscono le fiabe, dove cioè non è più il prodigioso o il terribile a fingersi ordinario, ma è l'umanità più sobria e naturale a presentarsi come qualcosa a cui si stenta a credere. "Strane da fare quasi paura, sono solo le cose assolutamente normali", precisa il narratore. Non a caso lo spirito che anima racconti come Fine di Mirco, Una storia Così e L'aria della sera, ma anche romanzi come Un ragazzo d'altri tempi, ricorda il lavoro svolto da Paul Auster con i suoi "true tales", racconti raccolti nel microcosmo umano prismatico e franto di Manhattan, e poi riscritti nella loro forma migliore con l'innocenza di un trainingartefatto. In fondo anche questa sensibilità per la maestria stilistica rientra nell'ossessione prosodica di cui parla Fabrizio Frasnedi nel secondo saggio introduttivo del volume, quella cioè per i metri pari come il decasillabo e per le variazioni toniche del settenario, con il corollario retorico del paragone (un'altra figura di sdoppiamento).

In D'Arzo, cioè, come volevano già le note sulla tecnica romanzesca di R. L. Stevenson, l'ipnosi del lettore si realizza attraverso la ricerca di "un ritmo della frase", di una voce piena di echi allusivi e misteriosi, che fa da contrappunto alla sequela degli eroi e delle avventure. Lo mostra bene l'epoché improvvisa del buio, anzi della "nozione" di notte, che interrompe la coreografia reggiana di L'uomo che camminava per le strade, suggerendo al professor Carlo Stresa un pensiero tanto candido che oggi si direbbe ispirato a Raymond Carver: "Stresa appoggiato alla finestra, non riusciva a comprendere che bisogno egli avesse di dormire, di chiudere gli occhi come tutti gli altri: la notte per lui non doveva avere senso. Guardò giù nella Piazza dell'Ossario, nitida e calma sotto il chiarore lunare. La luna però non si scorgeva nel cielo: la si intuiva, piuttosto, lontana, dietro qualche brandello di nube. Lo prese ora uno strano pensiero. Potevano i ciechi sognare?". Dire che questa nullità è un peso, la distrazione perseveranza, è una delle virtù profonde di queste opere di D'Arzo.

 

S. D'Arzo, Opere, a cura di S. Costanzi, E. Orlandini, A. Sebastiani, introduzioni di A. Bertoni e F. Frasnedi, Parma, Monte Università Parma - MUP Editore, 2003, _ 37,00.

 

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