Rivista "IBC" X, 2002, 3

interventi, storie e personaggi

Reggio Emilia ha promosso un ciclo di iniziative di studio e divulgazione su Silvio D'Arzo, poeta, narratore e saggista tra i più fini della nostra letteratura novecentesca, a cinquant'anni dalla sua morte. Abbiamo chiesto a due italianisti di tratteggiarne un profilo.
Ritorno a casa D'Arzo

Alberto Bertoni
[docente di storia della letteratura italiana moderna presso il Dipartimento di italianistica dell'Università di Bologna]
Jonathan Sisco
[insegnante di italiano e latino]

Nel 1952, a soli trentadue anni, moriva Silvio D'Arzo. Da gennaio ad ottobre del 2002 Reggio Emilia lo ha ricordato con un programma che ha visto all'opera l'Assessorato alla cultura e al sapere del Comune, la Biblioteca "Panizzi", l'Istituto superiore "D'Arzo" di Montecchio Emilia e il Consorzio "I Teatri". Tra le iniziative: una mostra documentaria, un sito internet, spettacoli teatrali, laboratori di lettura, visite ai luoghi dell'Appennino legati allo scrittore e una giornata di studio (realizzata con la collaborazione dell'IBC).

Negli interventi che seguono si può leggere un profilo di questo autore, ripreso da due angolature diverse: nel primo, intitolato Un enigma scritto in chiaro, Jonathan Sisco traccia un quadro critico e biografico; nel secondo, Una generazione per Silvio D'Arzo, Alberto Bertoni rievoca in chiave autobiografica la scoperta di un poeta.

 

Un enigma scritto in chiaro

 

Silvio D'Arzo, al secolo Ezio Comparoni, nato a Reggio Emilia nel 1920, ivi morto nel '52, è oggi un autore di cui si parla sebbene la sua notorietà sia piuttosto affidata a una tradizione orale che alle dotte carte dei critici. Temperamento di solitario, il D'Arzo visse sempre a Reggio con la madre e non se n'allontanò che rare volte, per visitare Firenze e Roma. A quindici anni, nel '35, pubblicò un primo libro Maschere e più tardi, nel '48, un racconto, All'insegna del buon corsiero. Conoscitore della lingua inglese, nel dopoguerra dette a riviste saggi su Conrad, Stevenson, James, Kipling e Maupassant.

 

Così, all'altezza del 1954, Eugenio Montale compendiava D'Arzo sul "Corriere della sera", in una tempestiva recensione alla prima edizione in volume del capolavoro dello scrittore, il racconto Casa d'altri, uscito originariamente postumo nel 1952 sulla rivista "Botteghe oscure". Certo, a distanza di mezzo secolo noi possiamo aggiungere molte notizie alla biografia sintetica ritagliata da Montale, documentare nei fatti quel "temperamento di solitario" e integrare le poche opere in vita con i numerosi scritti stampati postumi. Oggi, nel cinquantesimo anniversario della morte, la fama di Silvio D'Arzo non è più affidata al passaparola incuriosito di una cerchia di lettori colti. A suo modo, anzi, egli è stato scelto dalle generazioni successive, in particolare da quella dei nati fra anni Quaranta e Cinquanta, come un caposcuola, un ispiratore novecentesco di quel particolare genere letterario che è il racconto, sia nelle sue forme brevi, di cadenza novellistica, sia in quelle più distese del cosiddetto romanzo breve.

Un altro reggiano, Pier Vittorio Tondelli, è stato senza dubbio il principale mediatore dell'opera darziana verso i letterati di fine Novecento. Già a inizio anni Ottanta, D'Arzo compare, citato accanto a Delfini, nel libro di Tondelli che ebbe maggiore impatto sui lettori, Altri libertini, per tornare poi ripetutamente, come modello meditato e autorevole, nelle pagine saggistiche di Un week end postmoderno e dell'Abbandono. Ma il magnetismo stilistico di D'Arzo, il suo narrare "profondo e inafferrabile", parlando dei personaggi come se fossero "fantasmi" in "esilio", stupiti all'improvviso di "scoprirsi umani", come egli stesso imparò da Joseph Conrad ed Henry James, attrasse in quegli anni molti dei protagonisti della nostra narrativa. Ne fu un attento lettore il Celati dei Narratori delle pianure, e con lui scrittori come Claudio Piersanti, che, in esplicito omaggio, intitolava il suo primo romanzo Casa di nessuno, e poi narratori emiliani come Guido Conti o il Daniele Benati di Silenzio in Emilia, i cui protagonisti morti-vivi sembrano incarnare il sogno darziano di un personaggio narrativo specchio dell'uomo vivo, ma solo come "suo contrario", essendo "gemello a nessuno".

Lungo l'arco di questo nuovo orizzonte ricettivo, si sono progressivamente colmate le lacune del suo ritratto. Sappiamo della sua nascita di figlio illegittimo, non riconosciuto dal padre, e della sua convivenza protratta e sofferta con la madre; sappiamo che fra il 1937 e il '41, studente fuorisede di Lettere (laurea in glottologia, anche per esigenze di sveltezza), nella Bologna che cominciava ad assimilare il magistero di Roberto Longhi, egli non entrò nei gruppi di giovani intellettuali che fra Bertolucci, Bassani e poi Pasolini, Leonetti e Roversi, animavano l'Università. Sappiamo invece del suo gusto radicato per lo scambio intellettuale con gli amici della provincia reggiana, dove insegnava alle scuole superiori, con il "gruppo dei dodici", riunito in piazza del Monte o davanti al Teatro municipale, e si sa perfino di una sua avventura militare di prigionia e fuga per non dire dei mesi drammatici della lotta alla malattia (un linfoma).

Ma soprattutto oggi possiamo leggere per intero le opere dello scrittore. Oltre a Casa d'altri e all'Insegna del Buon corsiero (che narra la morte del funambolo F. presso un'osteria paesana, in un Settecento immaginario e onirico, di inquietudine tragicomica) sono stati recuperati sia i primi, introvabili, libri adolescenziali, come le poesie di Luci e penombre, sia un gruppo di romanzi inediti, per lo più incompiuti, risalenti ai primi anni Quaranta, Essi pensano ad altro, Un ragazzo d'altri tempi, L'uomo che camminava per le strade, in cui si rievoca, trasfigurata dal leggero filtro allegorico di una commedia angosciante, l'esperienza prima dello studente e poi dell'insegnante e del lettore di provincia.

Anche le carte private del narratore sono state pubblicate: le lettere alla fidanzata, Ada Gorini, unico suo amore conosciuto, e quelle, non meno intime, al critico Emilio Cecchi (ed entrambi questi epistolari, di là dal loro contenuto informativo, costituiscono la testimonianza viva di una psicologia straordinariamente contraddittoria, che sottolinea ossessivamente, nel privato, il lato volgare della gioia, la faccia illecita e pericolosa della felicità). A completare la bibliografia vanno infine citati i tre libri per ragazzi Penny Whirton e sua madre, Il pinguino senza frac e Tobby in prigione, che costituiscono il luogo in cui trovò più libera espressione il senso darziano per il meraviglioso, per il fiabesco dei talesdi scuola inglese.

Il moltiplicarsi delle notizie e dei testi disponibili, tuttavia - ed è un tratto che va riferito come caratteristica interna al lavoro dello scrittore - non ha modificato nel profondo la situazione di lettura. L'interessamento dei critici, con il suo recente apogeo anche editoriale, non ha davvero bucato quel muro di discrezione e di vaghezza, quel gioco di estraneità e apprensione che l'autore coltivò fra sé e i propri libri. Anche oggi chi prenda contatto con i racconti di D'Arzo può leggerli come se fossero stati scritti da uno straniero, da uno sconosciuto che porta un bagaglio di esperienze mutevoli, vissute o sentite chissà dove. È questo il risultato principale della difesa ossessiva della propria vita privata messa in pratica da Ezio Comparoni, che oltre a D'Arzo creò anche altri eteronimi come Sandro Nedi, Andrea Colli, Andrew Mackenzie, giungendo al punto di farsi crescere i baffi per mascherare il proprio volto se fotografato nei panni di romanziere.

Non a caso, più di un lettore, con giusta sensibilità umana, ha indicato in Silvio D'Arzo un nostro originale Fernando Pessoa, un particolare tipo di scrittore, cioè, a più facce, che sembra nascondere dentro di sé una quantità inaspettata di mondi, quasi disponesse di un nucleo inventivo a sorpresa, dissimulato, che mentre mostra una sua faccia precisa lascia anche intuire l'ombra di un poliedro, di una personalità creativa che si rivela sempre diversa da come era apparsa a prima vista. Come per Pessoa, insomma, chiuso per trent'anni in un ufficio di corrispondenza commerciale, parlare dei fatti della vita di D'Arzo significa ignorare quasi del tutto l'opera di D'Arzo. Il parallelo risulta certo improprio sul piano stringente delle scelte letterarie, ma è vero che la figura del grande portoghese (ma al tipo potremmo aggiungere Kafka) getta una luce rivelatrice sulla vita di D'Arzo, sulla sua esperienza profonda di "uomo di lettere", e permette di cogliervi una misura esistenziale più ampia di quella che si vorrebbe riservata a un solitario genius loci, a un genio minore della provincia emiliana.

Il rapporto con i luoghi della periferia reggiana, però, e soprattutto con gli altipiani di un Appennino dai colori spesso metafisici, funzionano nell'opera dello scrittore come un vero e proprio basso continuo. Tanto che il problema della sopravvivenza, anzi della possibilità di esistere come esseri umani in quel nulla assoluto di erbe e bestie è al centro di Casa d'altri, quel racconto lungo tanto perfetto e meditato, notava ancora Montale, da riuscire a oltrepassare "le colonne d'Ercole dell'inesprimibile". La storia è quella di Zelinda Icci, contadina introversa ma lucida abbastanza da guardare se stessa, che si presenta all'improvviso al prete locale. La donna chiede con vergogna una licenza, "il permesso di finire un po' prima", di suicidarsi senza peccare.

Le implicazioni della parola gioiello - piccolezza preziosa, delicatezza non soggetta alla fragilità, limpidezza che non esclude l'impenetrabile - ne rendono legittimo l'uso in questa sede. Sono ottanta pagine a stampa (oggi leggibili in ben due diverse edizioni critiche, pubblicate una dall'editore Aragno, l'altra da Diabasis) dove il tragico si mescola col buffonesco creando una dinamica inesorabile di principi elementari, un gioco profondo di archetipi comuni (la terra, il divino, il rito della festa, il tempo ciclico, la sfera animale, la natura inanimata) che nel loro mostrarsi sembrano spogliarsi definitivamente di qualsiasi collocazione sociale o civile, per disegnare invece la mappa essenziale di una scarna antropologia metafisica.

Ma se Casa d'altri è alla lettera un gioiello letterario, anche il resto dell'opera di D'Arzo tende a un tipo particolare di perfezione. In tutto D'Arzo, infatti, c'è uno sforzo consapevole, un impegno nel dire, ma, cosa rara nella nostra tradizione, tutto tende verso la categoria stilistica della leggibilità, verso quella condizione, non a caso fondamentale nella ricerca dei moderni narratori anglosassoni, che in inglese si chiama readebleness, virtù di ogni stile scrupoloso ma capace di rendere invisibile la difficoltà elaborativa. Questa leggibilità continua è anche un'ipotesi di indagine umana, come se il senso del tragico e dell'oscuro, dell'esistenza grigia, potesse rivelarsi solo attraverso uno sguardo lucido e una dizione limpida ma tremendamente sfumata, parcellizzata tra forze contrastanti. Nei racconti di D'Arzo la parola piana della lingua comune, o quella sfuggente del monologo con sé stessi, brilla come un dono enigmatico.

 

Una generazione per Silvio D'Arzo

Non volteggia alcuna microbica elichina, nel mio DNA, che mi induca ad amare i preti, le vecchie o le capre. Eppure, ad anni Ottanta appena cominciati, Umberto Di Raimo, un amico fidato mi persuase - con un'insistenza per lui inusitata - a leggere Casa d'altri del per me allora sconosciuto scrittore reggiano Silvio D'Arzo, nell'edizione Einaudi del 1980. Anche se affrontata in souplesse, è una lettura che impegna al massimo un mezzo pomeriggio, un dopocena. Io, subito dopo averla compiuta, ho avuto due impressioni contrapposte: la prima di conferma della passione anacronistica di quell'amico e dell'anacronismo ancor più radicale che incarnava quel testo ibrido, sospeso tra ritmo poetico (fondato sul decasillabo), concinnitas propria del racconto e vocazione - comprensiva di ritualità e di catarsi tragica - all'"opera mondo": vocazione cui di solito è più conforme una longue durèe romanzesca. Poi, anche, quel racconto lungo / romanzo breve che pure mi era molto "piaciuto" (il verbo - in tempi di strutturalismo diffuso - era passibile di crocianesimo strisciante e solo fra amici, a tarda ora, era qualche volta consentito) mi pareva un anacronismo perché riusciva a tradurre in alta prassi espressiva un principio teorico dichiarato a priori dal suo autore: quello per il quale, nella vita come sulla pagina, la via della Cronaca non era meno rischiosa di quella dell'Arcadia.

Così, per noi che avevamo allora appena un po' meno di trent'anni, eravamo reduci da un decennio a dominante ideologica (gli anni Settanta) e ci saremmo (o ci avrebbero?) immersi di lì a poco negli orribili anni Ottanta del reaganismo (e in Italia del craxismo, con le appendici di cui siamo vittime anche oggi), delle tivù private e della disco dance, una simile pretesa di interrogare con fede e disincanto la realtà profonda dell'esistere - quale quella incantevolmente trasmessa da Casa d'altri - era una sorta di panacea, di balsamo benefico: anche se per me non fu facile coglierne "in presa diretta" l'attualità assoluta. Una volta di più, sarebbe toccato a Pier Vittorio Tondelli, testimone/interprete acuto e coinvolto della nostra generazione di nati fra gli inizi e la metà degli anni Cinquanta, di concludere proprio nel nome di Silvio D'Arzo (d'altra parte, come lui, morto a poco più di trent'anni) il testamento spirituale di Un weekend postmoderno, il suo romanzo "critico" e terminale uscito nel 1990. La nostra, d'altra parte, è - anche oggi che si avvia a girare la boa del mezzo secolo di età - una generazione in eterno sospesa, un po' mai davvero cresciuta e sempre incapace di farsi riconoscere adulta, insieme dai suoi padri e dai suoi figli. A pensarci, anche il movimento più eclatante, sul piano sociale, musicale e del costume, cui essa ha dato vita quando aveva vent'anni, il punk, è movimento di rottura e di fantasmagoria masochistica applicata a un corpo da proporre deformato e violato sulla scena della vita quotidiana: e No future, Nessun futuro, è stato a lungo lo slogan che ha rappresentato più compiutamente la sua visione del mondo.

Eppure, l'altro sentimento che affiorò alla mia coscienza dopo aver letto la prima volta Casa d'altri fu di radicale empatia, perché il libro - al di là dei suoi protagonisti e del suo scenario tutto periferico di crinale d'Appennino - tentava di indagare il senso ultimo dell'appartenenza al genere umano, della sopportabilità del dolore nell'esistenza terrena e dell'ingiustizia della storia: temi proposti da D'Arzo a partire da una specola religiosa, ma in realtà tutti aperti anche a una riflessione integralmente laica. E non è più oggi tanto importante che anch'io, nel mio piccolissimo, stessi proprio allora finendo di sperimentare quella dialogicità spinta all'estremo tra due individui (giovani, va da sé, invece che vecchi) di sesso diverso, senza che potesse darsi il compimento di un vincolo amoroso, che qualche volta è un'esperienza più durevole ed estrema dell'amore "normalmente" realizzato. A ciò si aggiunge il riconoscimento definitivo della malinconia non come semplice stato d'animo, ma come necessario atteggiamento conoscitivo, come metodo, nei termini di allora.

Va da sé che sono stato io a passare a quel mio Tu bolognese Casa d'altri e a toccare con lei un piccolo apogeo dialogico. Esisteva però un'altra dominante, entro il capolavoro di D'Arzo, che allora non ero proprio stato in grado di riconoscere e di valorizzare: la qualità assieme simbolica e metafisica del paesaggio. Per un problema di genetico mal d'auto, non avevo mai amato i tortuosi tragitti appenninici. E li avevo percorsi il minimo possibile: fino all'assurdo che nel 1981 avevo già girato le Ande peruviane in lungo e in largo, varcato quota Cinquemila, ma non ero mai stato a Sestola né a Pievepelago! Alle mie tensioni e pulsioni metropolitane (Bologna quasi tutti i giorni, Milano spesso, Parigi ogni volta che trovavo la scusa buona) rimanevano estranei calanchi e crinali, non parliamo dei torrenti sassosi e dei pascoli. Quell'assenza radicale, dal capolavoro di D'Arzo, di sviluppo cronologico, di città, di modernariato e quel radicamento del suo plot nella vecchiaia continuavano a impedirmi il compimento dell'immedesimazione: un capolavoro, certo, ma non equiparabile ai libri da capezzale di Gadda, di Svevo, di Montale, di Sereni (Bassani era un amore molto privato e all'epoca rimosso).

Non è casuale, allora, che proprio il 1981 sia stato anche l'anno di uscita del mio primo libretto di poesie, L'esatto tempo, tanto tributario dello spirito dell'epoca che il mio naturale panorama modenese, frammisto di via Emilia, Bassa e montagna veniva in quella sede denegato o bypassato, a dirla con uno degli orribili anglismi che oggi sono in voga: e insistevo invece a inventare una Venezia sospesa tra sogno e merce, un'Irlanda joyciana in cui mai avevo messo piede, una Cuba castro-guevarista comme il faut. Di Modena e dei suoi immediati dintorni, niente o quasi; di vita dalla quale il linguaggio e le sue astrazioni critiche ogni tanto fossero capaci di ritrarsi, meno ancora. Certo, così non andava: e quella poesia mi parve quasi subito fallimentare, tanto mi risuonava autoreferenziale, chiusa in sé, indisponibile a ogni reale apertura comunicativa.

Al contrario, sarei dovuto partire da una verità di luoghi non meno che di esperienze davvero sedimentate nell'albero genealogico (che è sempre a diramazione anche geografica e non solo storica), entro un movimento territoriale che non si limitasse all'esotico o al turistico, ma si estendesse all'esistenziale e al memoriale (in chiave conoscitiva, naturalmente, invece che nostalgica). In una parola, dovevo imparare una poesia capace di rappresentare le dimensioni della fuga, dell'esilio, del nomadismo, radicate in noi nati e cresciuti nelle "piccole città bastardi posti" dell'Emilia. E sono state prima la lettura - grazie a un convegno di studi svoltosi nell'83 - di Antonio Delfini; poi l'amicizia con Pier Vittorio Tondelli a farmi tornare ai miei veri paesaggi e quindi a comprendere meglio anche lo sfondo di Casa d'altri, protagonista autentico del racconto - con le sue compenetrazioni e metamorfosi del basso e dell'alto, del petroso e dell'acquatico - non meno del prete, della lavandaia e delle capre.

Ma questo, come primo omaggio a D'Arzo, sarebbe stato già sufficiente, non avessi scoperto, ancora molti anni dopo, che il prete di Casa d'altri non ha nome proprio, ma viene riconosciuto quale "Doctor Ironicus" che si è trasformato in Falstaff: lo stesso destino di coloro che a vent'anni, magri spesso come chiodi, si sono tuffati in grandi dibattiti esistenziali e a cinquanta non sanno più distinguere bene - nei loro corpi pingui, esplosi - tra scepsi tragiche ed eccessi tollerati di Carnevale... Forse, così, verso una provincia-mondo.

 

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