Rivista "IBC" XII, 2004, 1

linguaggi, pubblicazioni

S. Delfiore, Al cafà d'levènt, Faenza, Mobydick, 2003.
Il caffè di levante

Isabella Fabbri
[IBC]

Il dialetto non è ormai più la lingua della cultura popolare o lo strumento incisivo e sapido della comunicazione privata, familiare o intragenerazionale. Assediato da linguaggi più potenti e onnivori, primo fra tutti quello televisivo che straripa ormai nella nostra vita quotidiana, il dialetto, per sopravvivere e per non perdersi, sceglie sempre più spesso la difficile scommessa della poesia, riuscendo a trasformarsi, nei suoi esiti migliori, in uno strumento espressivo inaspettatamente duttile e ricco. Questa sorta di rinascita o di emancipazione da canoni logorati tocca anche al dialetto bolognese, per merito di alcuni poeti che hanno cominciato a usarlo come loro lingua d'elezione. Non sono tanti in realtà - la scuola romagnola, forte di una tradizione ormai consolidata, è molto più ricca di voci - ma sicuramente significativi. È il caso di Stefano Delfiore, che ha esordito come poeta in dialetto bolognese nel 1996 con la raccolta Iusveidkaiam per le edizioni FuoriThema, e che torna ora con una seconda raccolta dal titolo Al cafà d'levént (Il caffè di levante), edita dalla faentina Mobydick nella collana "Lenuvole".

Se la prima raccolta riproponeva, tradotte nei suoni scabri del dialetto di casa, le quartine giocose e inneggianti al vino e ai piaceri della vita del poeta persiano Omar al-Khayyàm, questa seconda, premio "Navile 2003", abbandona decisamente il registro carnevalesco e dissacrante di cui spesso il dialetto si fa buon interprete, per misurarsi con situazioni, emozioni e figure più umbratili e malinconiche. Le poesie del "Caffè di levante" raccontano la perdita di una persona cara, la sua permanenza nel ricordo, l'angoscia dell'abbandono, la polvere e il rumore della vita quotidiana, la serenità che nasce da un amore corrisposto. E il dialetto, o per meglio dire il dialetto di Stefano Delfiore, con quei suoni che sembrano schiocchi di dita o di frusta, con quelle parole ruvide e disarmoniche, si rivela improvvisamente una lingua felice per dire senza enfasi, per disegnare sottilmente un'emozione senza farla dilagare, per rimodulare l'espressione sempiterna del dolore in cadenze inedite.


S. Delfiore, Al cafà d'levènt, Faenza, Mobydick, 2003, 52 p., _ 8,00.

 

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