Rivista "IBC" IX, 2001, 2

territorio e beni architettonici-ambientali / linguaggi, mostre e rassegne, pubblicazioni

Le parole dell'acqua

Fabio Foresti
[docente di Dialettologia all'Università di Bologna]

Il 6 maggio nel capoluogo della nostra regione si è conclusa la mostra "Bologna e l'invenzione delle acque", organizzata dall'IBC nelle sedi espositive della Biblioteca Universitaria e dell'ex chiesa di San Mattia, nell'ambito di "Bologna 2000, città europea della cultura". Pubblichiamo un estratto del catalogo realizzato per l'occasione con il contributo della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, ringraziando l'autore e la casa editrice Compositori.


A Bologna le varietà linguistiche legate alle acque - come a tante altre dimensioni dell'organizzazione sociale ed economica e della cultura materiale - sono almeno quattro, ricorrenti dal Medioevo al Novecento tanto nella documentazione d'archivio e a stampa, quanto negli usi orali dei parlanti della comunità.1

Da quando, nei primi decenni del Duecento, il Comune attuò stabilmente la canalizzazione verso la città del fiume Reno e del torrente Savena, fino alla regressione delle funzioni del sistema idraulico artificiale compiutasi tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del secolo XX, le terminologie relative ai canali, alle loro diramazioni e ai manufatti, al lavoro degli opifici basato sulla fonte energetica dell'acqua, ai diversi mestieri che la impiegavano, alle attività del porto e della navigazione, da una parte, le stesse denominazioni di molte strade, riferite in modo diretto o mediato alle acque, dall'altra, si presentano a livello scritto, fino al primo Cinquecento, in latino e in volgare, che in un diverso registro caratterizza la comunicazione orale, successivamente in italiano, comprendente pure la sua varietà locale, mentre il dialetto domina il livello parlato.

Queste varietà linguistiche, alle quali si dovrebbero affiancare anche quelle gergali in uso anticamente in alcuni mestieri, stabiliscono rapporti articolati e si influenzano reciprocamente, soprattutto nella direzione oralità-scrittura, mostrando per un lungo arco cronologico tratti di forte continuità.

Così, per esempio, il condotto per derivare e distribuire le acque dei canali è attestato nelle fonti, in latino medievale come clavica o claviga, nel volgare chiavega, nell'italiano locale chiavica o chiaviga, nel dialetto ciavga; il mulino da seta è definito rispettivamente filatorium, filatoglio, filatoio, filatói; il muretto o parapetto lungo le rive dei canali viene designato con murellus, murello, morello, murèl; la specie di chiusura di legno avvolto in stoppa per sigillare le imboccature dei condotti si ritrova come choconus, cucone, cocone, cucàn. In queste forme, oltre al variare dell'aspetto grafico e fonetico corrispondente, si deve rilevare anche che il significato (per esempio quello di chiavica) o il tipo lessicale (per esempio cocone) sono di ambito bolognese ma non dell'italiano comune. [...]


Il torrente Aposa (latino medievale Apoxa o Aposa, volgare Avosa o Veza, italiano Avesa, dialettale Avsa), un idronimo di etimo indoeuropeo attestato in varie zone dell'Italia settentrionale, della Francia, Germania e della penisola balcanica,2 è l'unico corso d'acqua naturale che attraversa il centro della città di Bologna, rappresentando il confine orientale della città romana. Pur di modestissima portata, il torrente svolge un ruolo importante nel corso del tempo e ad esso ricorre la cultura umanistica per assicurare anche a Bologna proprie origini mitiche circa le modalità e i protagonisti della fondazione: secondo il racconto quattrocentesco di Girolamo Albertucci Borselli,3 ripreso poi dallo storico Leandro Alberti, il valoroso Fero giunge sulle rive di un corso d'acqua, cui dà il proprio nome la moglie Aposa, costruendo il primo nucleo del futuro insediamento.

Un alone di leggenda e di tragico mistero (Aposa muore in quelle acque), che nella Bologna carducciana - alla ricerca della sua identità medievale e della gloria del primo Studio europeo - Alfonso Rubbiani ripropone nel 1889, riferendo l'antichissima previsione di un agrimensore etrusco: "Aposa allagherà Bologna".4

Il piccolo rio arreca davvero di frequente "gran danno" alla città con periodici straripamenti e inondazioni, quando "cresce e si fa grossa" a causa di "straordinari pluviali" (pluvièl, "acquazzoni"), portando via steccati, ponti di legno e paratoie, allagando cantine, sgretolando le sue rive nonostante la costruzione di cavedoni (cavdón), cioè sbarramenti di vario materiale realizzati trasversalmente all'alveo per disciplinare le acque. Allo stesso tempo, però, l'Aposa porta benefici innegabili, dal momento che le acque del suo corso originario, quello orientale, servono dapprima a conciatori, cartolari e tintori, quindi ai lavatoi e all'irrigazione delle aree ortive nella città, mentre il ramo scavato nell'alto Medioevo a occidente (seguendo via Tagliapietre, via Val d'Aposa, piazza Galileo e, ancora, le vie Venezian, Galliera e Avesella) provvede allo smaltimento delle acque reflue e delle immondizie.

Bologna diventa tuttavia una grande città europea soltanto intervenendo sugli equilibri ecologici del territorio e creando un sistema idraulico artificiale a partire dai due corsi d'acqua tra cui si trova: il Savena (Savna) a oriente e il Reno (Réin, Ragn) a occidente, deviati dentro la città grazie alla costruzione di due chiuse (cius) e costeggiati di lavorieri in legname, pannelli trasversali alla corrente per difendere le sponde dall'erosione. Da questo sistema, dal controllo esercitato sulle acque, viene a dipendere per lunghi secoli una parte consistente dell'assetto socioeconomico e dell'organizzazione della comunità.

Il canale (canèl) di Reno, che entra nel contesto urbano sotto a un battifredo, attraverso una grata di ferro (grada) di cui - all'interno dell'edificio - si conserva ancora il congegno di sollevamento (paratura), scorre come quello di Savena nel suo alveo (lèt), dove possono formarsi dossi (ammassi di sabbia, ghiaia e materiali vari), i quali rallentano il corso delle acque: quando si determina interrimento occorre intervenire, escavare e spurgare, cioè ripulire a fondo. Parimenti si provvede a proteggere e consolidare le ripe, gli argini (èrzen) del canale con agocchie (agòc'), pali di legno piantati nel suo alveo, i quali - uniti e allineati insieme - formano le palificate, palizzate di solito congiunte a veminate, intrecci di rami di piante (confronta il dialettale vémmna, "vermena"). Nel loro insieme queste erano sostenute da contane (derivato dal latino contus, "pertica", di cui la voce dell'italiano bolognese è l'unica continuatrice attestata), specie di contrafforti che a loro volta poggiavano su terafitoli, legni longitudinali "piantati sino sul fondo" dell'alveo.

Un funzionario specifico, il battifango, era addetto alla manutenzione degli argini, che avevano scarpe, ovvero pareti inclinate e opere di difesa in muratura, rinforzate da banchette, muretti costruiti al loro piede e da coronelle (curunèl), argini semicircolari posti a protezione di altri in procinto di rompersi. Le sponde (rivèl) del canale, lungo le quali sono piantate fioppe (fiòp, "pioppi"), per non farle dirupare o franare (a queste in acqua corrispondono per funzione le già viste palificate), vengono dotate di morelli o parapetti con il bordo superiore di pietre posate di taglio (rizzolo).

Si provvede progressivamente a voltare, coprire mediante la costruzione di volti ad arco, i canali che, come il torrente Aposa, corrono per la città inizialmente a cielo aperto: l'ultimo tratto del canale di Reno in via Riva Reno viene coperto nel 1957, mentre al 1840 risale il tombamento del canale di Savena in un segmento dell'attuale via Rialto, il Fiaccalcollo, dove le acque scendevano precipitosamente, come attestano l'antica denominazione, che significa "rompicollo", e il termine dell'italiano locale borione, riferito appunto a una cavità scoscesa dove si forma un gorgo, che era usato ancora nella seconda metà del XIX secolo per il luogo:5al buriàn ed Fiacalcòl (e calandrone di Fiaccalcollo era denominato il corso del canale con forte pendenza che di là proveniva, in quanto produceva un vivace gorgoglio, connesso appunto all'intensa voce della calandra, una specie di allodola); molti, ancora, erano gli stramazzi (per cui confronta il dialettale a stramàz, "in bilico"), cioè le bocche di scarico dell'acqua in eccesso dei canali, che potevano sborare, sgorgare con impeto.

Sia il toponimo (Fiaccalcollo) che la voce (borione), del resto, sono impiegati dalle fonti per un'altra zona ancora più scoscesa e ripida, nella quale il canale di Reno compie un salto di oltre dodici metri tra il punto di derivazione (poco dopo l'incrocio tra l'attuale via Marconi e via Riva Reno) e l'area portuale a ridosso delle mura, vicino a Porta Lame. Si tratta del Cavadizzo o Cavaticcio (cavadézz), nel XIII secolo già scavato, come il nome medesimo attesta, nel quale immetteva da via Polese un vicolo chiamato Fiaccalcollo6 e in cui si formava un borione originato dalla cascata dell'acqua. Di questo canale si distinguevano parti specifiche con precisi riferimenti terminologici: per esempio scaffa indicava genericamente ogni tratto di caduta del corso d'acqua, il quale a sua volta poteva essere partitamente denominato ("[...] fare l'escavatione et stirpare [stirpèr, "levare gli sterpi"] e slargare l'alveo del Cavadizzo, principiando dalla caduta d'acqua chiamata la Castellata sino alli traversi [...]").

Per gli usi lavorativi e di altro genere l'acqua viene distribuita mediante condotti, per lo più sotterranei, ma anche discoperti, con l'imboccatura posta sulle sponde dei canali che attraversano la città, formando una complessa rete idraulica di derivazione, in grado anche - mediante collettori - di recuperare e rimettere in circolo - oltre che smaltire - le acque già impiegate. La distribuzione è affidata, come si è detto, a condotti o chiaviche, mentre la funzione appena considerata a chiavicotti, pur se le fonti mostrano a volte di usare queste forme come sinonimi, affiancando spesso all'ultima la voce resoraduro (che ricorre però altre volte nell'accezione di condotto derivatore). Chiaviche (/chiavighe) e chiavicotti (/chiavigotti) sono dotati di bocche (talora busi), aperture circolari di masegna o pietra, con bironi o coconi, tappi di legno avvolti in caveccia o stoppa; nel caso si tratti di condotti principali in cui scolino altri minori sono regolati da paratoie (paradure) con pilastri di pietra, munite di molinelli o fusi, catene di ferro oppure corde per alzarli e, per manovrarle, di stanghe o chiavi metalliche infisse nei fusi (e così erano provedute anche le chiaviche dei canali fuori città).

Alla manutenzione dei condotti era addetto un chiavichino, che interveniva a startarare (eliminare la concrezione calcarea), ad espurgare nei casi fossero turati, completamente occlusi e amuniti (muné), ostruiti, oppure ad accomodare e resarcire qualora avessero sponde e volto dirupati e si trovassero rotti e sfondati perché il terreno era sgrottato (sgrutè), cioè franato.

Singoli chiavicotti e chiaviche portavano una denominazione (chiavegotto di Miola, chiavegotto della Scimmia, chiavica il Torlione, chiavica del Sentiero), così come i principali delle Vicinanze, che potremmo definire condotti consorziali: tra le tante ricordiamo la Guidotta, quella della Pioppa, la Presidonia e la Schiava. Proprio di quest'ultima chiavica riportiamo una parte del percorso descritto con toni minuti e colloquiali in una relazione dell'Assunteria d'Ornato nel 1694:


[...] passando sotto ad un certo uscio e traversando per fianco il detto claustro e poi obliquandosi verso la strada maestra di Galiera traversava sopra al chiavigotto di Galiera nel vicolo che camina dietro la chiesa di san Benedetto per il tratto di alcune pertiche [...] fu mostrato il sito dove caminava la detta chiavica [...], come anche il sito dove presentemente camina, cioè giù per detto vicolo sino alla strada maestra voltando dietro al sacrato sino alla prima casa traversando la strada, entra nell'orto [...].7


La costruzione dei condotti ha sempre rappresentato un fatto importante per la città e viene ricordata, insieme ad avvenimenti di politica e cronaca non solo cittadina, da Gaspare Nadi nel suo Diario, che giunge sino alla fine del Quattrocento: "rechordo come de l'ano 1443 fo fato uno chiavegon da san Stefane de cha de Bianchin e va lungo la casa de Gozadin, ariva in stra Maiore e va lungo insino in la chiavega di Pelacan di quel da le casse [...]"; "rechordo chome de l'ano 1498 fo fato uno chiavegon, chomenza da la crosse di santi in quelo de le done e va insino [...]".

Oltre alla manutenzione, alla vigilanza delle autorità sul "libero corso delle acque", con costanti interventi per far rimuovere manufatti abusivi quali cavedoni, rastrelli, giarate, palificate, schivardelle (piccoli pignoni, punte di argini trasversali alla corrente, per cui confronta il dialettale schivardàn,"pignone"), si sottosta ad obblighi collettivi per garantire i benefici delle acque come risorsa energetica per gli opifici e come sostanza indispensabile nei cicli di lavoro. In tempo di scarsezza e siccità d'acqua, che causa la secca dei canali, il prezioso liquido, considerato un vero e proprio bene comune, viene amministrato mediante meccanismi istituzionali e sociali di controllo e utilizzazione, che prevedevano di serrare, chiudere i condotti secondo tipologie gerarchiche di attività e scansioni temporali che restano pressoché invariate attraverso i secoli (ad esempio nel 1705 le prime chiaviche a dover interrompere il flusso dell'acqua sono quelle che alimentano "edifici da seghe, ruote da acqua, valchiere, pestatori e pistrini, mangani, macine da galla", quindi tocca ai filatogli da seta e, per ultimi, ai mulini da cereali, essenziali per garantire l'alimentazione di base).


Le acque contribuiscono anche per molti altri aspetti a ritmare la vita della città e dei suoi abitanti, che se ne servono per lavare la biancheria e gli indumenti, per annaffiare i numerosi orti, per abbeverare e detergere le bestie nei guazatori o guazzatoi (guazadùr), smaltire scarichi di varia natura e allontanare le acque di rifiuto, ripulire le strade e sgomberarle dalla neve, oltre che per spedire merci, prodotti del territorio e per viaggiare.

L'attività delle lavandaie, in particolare, viene descritta all'inizio del Seicento da Giulio Cesare Croce, il quale dedica una parte consistente della sua opera ai lavori e alle condizioni di vita (materiali e non) dei ceti popolari, ritraendoli - senza retorica o compiacimento - con un realismo che non lo accomuna pressoché a nessun altro autore, anche minore, della nostra letteratura. Vero testimone della cultura subalterna ("mentre parlo, fate conto udir esse, quando la mattina salutano l'amica e la vicina"), Croce vuole "illustrar lor'arte" e le "ciancie e il cicalare / ch'elle fan quando al Ren stanno a lavare", utilizzando ponti e scanni a la Grada (anche le fonti ottocentesche ricordano i ponti da lavandaio, specie di impalcature in cui lavoravano).8

Sul canale "i fatti tutti s'odon di Bologna, e belli e brutti" perché le lavandaie, essendo state "in queste case e in quelle", costituiscono una fonte inesauribile di pettegolezzi e chiacchiere, quasi una gazzetta per la diffusione delle notizie in città. Ma a questo aspetto l'autore, che utilizza il dialetto nell'opera per conferire ai dialoghi maggiore aderenza alla realtà, affianca altri temi meno leggeri: la distinzione tra chi si trova a lavare i panni (lavèr i pagn) tra le tante altre mansioni, essendo a servizio presso una casa padronale (l'è un viver molt dur quel d'nu altr servitur) e chi invece esercita il mestiere in proprio (- mo vo havì almanch la vostra libertà!), anche se in entrambi i casi occorre sottoporsi a turni di lavoro gravosissimi (a tgnén tirar al dì e la not s'a vlen manzar, "dobbiamo sgobbare di giorno e di notte se vogliamo mangiare"), tanto da arrivare ad allattare sul canale (- al mia tusèt, l'è un bon pez ch'an t'ho da 'l tet!); la solidarietà tra colleghe, che si aiutano svuotando il contenitore del bucato (olla), permettendo alle nuove arrivate di inserirsi nella fila di chi è già intenta a lavorare o di recuperare (pescar) con un gancio (grafi) un indumento caduto in acqua, oppure di assentarsi momentaneamente per ragioni personali, raggiungendo il porto della città (a vo fin a le nav a vder s'al fuss arrivà mia marì ch'andò a Frara, "vado fino alle navi per vedere se è arrivato mio marito, che è andato a Ferrara").

Assistiamo ancora ad accese discussioni, pure dovute agli inconvenienti causati dal traffico che scorre vicino al canale: Tirav innanz un pas con qual car, tant ch'a passà, siv sord? Olà biolch a ch'dighia o ch' balord, m'hal mo tut quant lord sti pagn e al bsogna ch'ai torna a lavar! ("Andate avanti un po' con quel carro, tanto da riuscire a passare, siete sordo? Olà bifolco, con chi parlo? Che balordo, mi ha tutto insozzato questi panni e mi tocca rilavarli!"). Si tenta, infine, di stendere (dstendr) il bucato (la bugà) per asciugarlo (sugar), nonostante il tempo volga al brutto (al s'è inturbdà), predisponendo il filo (corda) e la pertica (furcela) per tenderlo, ma il vento di tramontana (muntàn) è troppo forte e spazza via tutto, tanto che bisogna portare a casa la roba ancora bagnata e tentare almeno - tra la sera e la notte - di asciugarla un po' (impassìrla).

Nella produzione letteraria della città, nel secolo successivo, una lavandaia è la protagonista, vedova di un prem master del filatoi, di una commedia anonima, La Fleppa lavandara, pubblicata nel 1741 e riproposta in vari teatri italiani nel 1987 (con Erio Masina primo attore e Gianfranco De Bosio regista), mentre nell'Ottocento Al batòc' ("Il lavatoio") è il titolo di un "bozzetto dal vero" di Raffaele Bonzi, che enfatizza soprattutto le chiacchiere e i bisticci delle lavandaie al canale, pubblicato nel 1928 con la prefazione di Alfredo Testoni. Un tema ripreso poi nel 1970 da Franco Cristofori, che ricorda - in un testo in lingua - le lavandaie al lavoro al tempo della sua giovinezza:


Il canale, a Porta Castiglione, correva per qualche decina di metri allo scoperto: dalla chiesa della Misericordia a via Castiglione. D'estate era un rigagnolo; un'acqua torbidiccia, che si muoveva appena, e se ci si gettava un turacciolo se ne andava pian piano verso l'arcata e là sostava in giri lenti e larghi; poi spariva nel buio.

Nella spalletta bassa, tutta sbreccata, s'apriva un varco per le lavandaie: una scaletta, pochi gradini di mattone, e una banchina, pure di mattone, con i mastelli pieni di biancheria e i pezzi di sapone, gialli. Allineate lungo la spalletta, le cariole; e sulla spalletta i figli delle lavandaie a far la bada [...].

Adesso l'hanno coperto, ma non me ne dolgo: è bene che dell'adolescenza ci rimangano soltanto i ricordi, dentro, nel cuore. Lo rammento un bel canale. D'estate bellissimo.

L'Argia, che non aveva figli, mi chiedeva di accompagnarla. Mi sembra, adesso, che tutte le lavandaie cantassero. Forse è soltanto il canto di una che torna.

Ero seduto sulla spalletta, le gambe penzoloni, e il sole faceva luminello sull'acqua. La lavandaia cantava, immersa nella corrente fino al ginocchio, le gambe bianche e piene, la camicetta aperta. Quando si piegava, il sole le sfiorava i seni fatti pieni dalla positura. Tuffava il lenzuolo girando il busto con grazia e la tela si allargava sull'acqua, si gonfiava e s'immergeva poi ondeggiando.

Lei si raddrizzava, teneva il lenzuolo sollevato, tutto gocciolante, quindi lo deponeva sulla banchina e, così piegata, per l'energico muoversi delle braccia - una mano stringeva il sapone, l'altra il bruschino - il seno vibrava e il sole, che penetrava obliquo nella scollatura, creava ombre e candori [...].


Ma seguiamo la descrizione del lavoro delle lavandaie, più attenta alle pratiche tecniche, raccolta qualche anno fa da chi scrive durante un'intervista a Bruna Mazzanti, che si affida alla propria memoria di osservatrice:


Con al sòul, con l acua, con la naiv o al giaz èl i arivèven con èl cariól carghi d linzù e d tótt al rèst dla bughè. A i n éra ed tótt li etè, al scavèven al zavàt, a s'mitèven dènter una bòtt, una mèza cassatta e al tachèven a savunèr, sbruschèr e smuièr. Po carghèven un ètra volta la carióla e turnèven a ca. Cué i cumpandèven la bughè int al mastlàn e i trèven so acua buiànta e soda. I turnèven al dé dòpp a smuièr, i turnèven a cumpander incossa int al mastlàn, i cruvèven con al zindrandel, i mitèven in vatta la zander ed laggna, po i vudèven in vatta l acua buiànta. I cruvèven al mastèl con di sach parché la stéss chèlda al pió pussébil e al dé dòpp i tirèven l alsì. I lasèven sguzlèr pulìd, po dòpp i c'cumpandèven, i mitèven incossa in vatta a la cariola e èl turnèven al canèl a arsintèr. I turnèven a carghèr la caratta e andèven a ca a dstènder. L éra una vétta che se èl dòn i lavéssen da fèr al dé d incù l andarén a finìr int al canèl insàmm ai linzù!


Con il sole, la pioggia, la neve e il freddo più intenso, arrivavano con le carriole cariche di lenzuoli e di tutto il resto del bucato. Ce n'era di tutte le età, si levavano le ciabatte, si mettevano nel loro posto e incominciavano a insaponare, sbruscare e strofinare. Poi caricavano un'altra volta la carriola e tornavano a casa. Qui mettevano in un grande contenitore la roba più grossa e più sporca sotto e via via le cose più delicate, buttandovi sopra acqua bollente e soda. Il giorno dopo tornavano a strofinare e a sistemare ogni cosa, coprivano tutto con un lenzuolo di tela molto fitta dal quale non doveva passare la cenere, mettevano sopra la cenere di legna, quindi gli vuotavano sopra acqua bollente. Coprivano il contenitore con dei sacchi perché stesse il più possibile calda e il giorno dopo toglievano la liscivia, cioè l'acqua nella quale si era bollita la cenere. Lasciavano sgocciolare ben bene, poi tiravano fuori dal contenitore il bucato, mettevano tutto sulla carriola e tornavano al canale a risciacquare. Caricavano di nuovo la carriola e tornavano a casa a stendere. Era una vita che se dovessero farla le donne d'oggi finirebbero nel canale insieme ai lenzuoli!

 

Note

(1) F. Foresti, Bologna e la Romagna, in L'italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionali, a cura di F. Bruni, Torino, UTET, 1992, pp. 371-401; Id., Bologna e la Romagna, in L'italiano nelle regioni. Testi e documenti, Ibidem, 1994, pp. 383-417.

(2) F. Coco, Aposa torrente bolognese, "Emilia preromana", 1953-1955, 4, pp. 143-147.

(3) Cronica gestorum ac factorum memorabilium civitatis Bononiae edita a frate Hyeronimo de Bursellis [...], a cura di A. Sorbelli, Città di Castello, Lapi, 1926.

(4) Felsina Bononia Bologna, a cura di A. Emiliani e P.A. Cuniberti, Bologna, Alfa, 1962, p. 30.

(5) G. Ungarelli, Vocabolario del dialetto, Bologna, Zamorani e Albertazzi, 1901.

(6) M. Fanti, Le vie di Bologna. Saggio di toponomastica storica e di storia della toponomastica, Bologna, Istituto per la storia di Bologna, 20002.

(7) A. Zanotti, Il sistema delle acque a Bologna dal XIII al XIX secolo, Bologna, Editrice Compositori, 2000, p. 491.

(8) Per una tipologia dei lavatoi o batùc' nella stessa epoca, si veda Bologna d'acqua. L'energia idraulica nella storia della città, a cura di G. Pesci et alii, Bologna, Editrice Compositori, 1994.

 

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