Rivista "IBC" XII, 2004, 1

biblioteche e archivi / immagini, restauri

La Biblioteca comunale di Imola conserva da centosessanta anni un raro esemplare, recentemente restaurato, dei primi esperimenti fotografici condotti da Louis Daguerre. Tutto ebbe inizio a Parigi in un giorno del 1840...
Ali di argento

Silvia Mirri
[Biblioteca comunale di Imola]
Riccardo Vlahov
[IBC]

Imola, 1843: un dono prezioso dalla Francia

Vecchia di oltre due secoli di storia, la Biblioteca comunale di Imola è un istituto dalla fisionomia bibliografica complessa: oltre 450.000 le opere conservate, tra le quali molte sono le collezioni di rilievo pervenute in dono, specchio e frutto degli intrecci con l'ambiente culturale cittadino. In questa complessità anche un solo documento può assumere rilevanza notevole e attivare importanti percorsi di lavoro e di ricerca.

? il caso del dagherrotipo (l'unico posseduto tra i 35.000 documenti fotografici conservati) che fu donato alla Biblioteca nel 1843 dall'imolese Anna Fanti, figlia dell'allora bibliotecario Nicola Fanti. Esso rappresenta una scenografia composta da gessi e statue, unitamente a un ritratto litografico di Louis Jacques Mandé Daguerre, ed è realizzato in "lastra intera", di mm 160x210 circa. Anna Fanti, che lavorò a Parigi come cantante lirica, ne venne in possesso probabilmente nel 1840, come suggerisce la sua scritta sul retro della lastra. Insieme al dagherrotipo donò la seconda edizione del famoso manuale di Daguerre, Historique et description des procédés daguerréotype et du Diorama, Paris, Alphonse Giroux et C.ie éditeurs, 1839, illustrante il procedimento dagherrotipico. Questo dagherrotipo è il primo documento fotografico entrato a fare parte delle raccolte imolesi ed è assolutamente unico per rarità e pregio.

Nel carteggio amministrativo dell'Archivio storico del Comune di Imola si conserva ancora la lettera con la quale Anna Fanti trasmise il dono alla Biblioteca. Così scriveva la Fanti nel 1843 a Giovanni Codronchi Argeli, Gonfaloniere di Imola: "[...] Possedendo io dunque uno tra i primi sperimenti eseguiti in Parigi l'anno 1839 sotto la direzione dell'Autore ho creduto fare di questo un dono alla Patria Biblioteca sul riflesso che tramite belle opere in essa esistenti possa meritare di avere luogo [...]". Non si conosce con precisione come Anna Fanti, che fu anche valente pittrice, venne in possesso del prezioso documento, forse il regalo di un ammiratore o un acquisto.

Il 1843 è un anno cruciale per la Biblioteca, infatti nel novembre di quell'anno Giovanni Codronchi aveva donato la sua pregevolissima e ampia collezioni di autori imolesi. Il suo dono, annunciato con ampio clamore retorico durante una cerimonia pubblica di premiazione dei più meritevoli giovani imolesi, fu preso ad esempio da molti concittadini. Forse anche Nicola Fanti, nominato bibliotecario, volle, tramite sua figlia, contribuire ad arricchire l'istituzione cittadina. La biblioteca poteva essere non solo il luogo della conservazione del passato, ma anche della trasmissione del sapere e dell'ingegno umano alle generazioni future. Questo primo prototipo tecnologico, "sebene non sia in oggi più cosa rara", poteva dunque trovare un luogo opportuno di conservazione nella biblioteca pubblica.

La presenza in biblioteca di un oggetto di così grande valore è passata per molto tempo inosservata: il dagherrotipo, custodito in un'elegante scatola ricoperta in carta verde marmorizzata, con un dorso e un'iscrizione dorata, dall'esterno appare visivamente simile a un libro. Al momento dell'ingresso in biblioteca questo "libro" composto da una sola immagine fu collocato nel punto in cui l'architettura classificatoria del tempo riteneva fosse il luogo più idoneo alla sua conservazione e cioè negli scaffali delle belle arti, in una stanzetta attigua all'Aula Magna, in mezzo ad altri libri composti prevalentemente da immagini. L'originalità dell'oggetto scoraggiò forse i bibliotecari di allora dal redigere una scheda di catalogo.

Da un patrimonio che, a metà Ottocento, si stimava in quindicimila opere le collezioni si accrebbero fino a raggiungere le dimensioni attuali e all'inizio del Novecento la Biblioteca si dotò di nuovi e più funzionali locali. In mancanza di informazioni catalografiche, per riscoprire il pezzo si è dovuto attendere che, durante un diretto riscontro a magazzino, la scatola fosse aperta per valutarne il contenuto. A questo punto è iniziato un lavoro di approfondimento sulla natura dell'oggetto e sulle modalità con le quali pervenne in biblioteca. Sono inoltre stati rintracciati gli eredi della donatrice presso i quali, si è scoperto, era sempre rimasta viva di generazione in generazione la memoria di questo dono.

Dal punto di vista conservativo il dagherrotipo presentava inoltre alcuni problemi, in particolare un parziale distacco del nastro in carta che sigillava la lastra. Per evitare che l'aria, entrando, potesse ossidare l'argento, si è ritenuto opportuno realizzare un intervento conservativo, affidato alla restauratrice Giulia Cucinella Briant, esperta nel trattamento di materiali fotografici. Il nastro originale è stato prima staccato, conservandone anche le più piccole parti e risarcendo le parti staccate, e poi riposizionato nella maniera originale. Inoltre, poiché il vetro che ricopre la lastra era molto opaco si è operata una pulizia, restituendo all'immagine la piena leggibilità e conservando il vetro originale. Data la complessità delle riprese fotografiche, è stata richiesta la collaborazione di Riccardo Vlahov (dell'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna - IBC) per documentare tutte le fasi dell'intervento: allo stesso Vlahov, nella seconda parte di questo articolo, è affidato il compito di descrivere dal punto di vista tecnico le caratteristiche della dagherrotipia.

Il lavoro si è inoltre rivelato una occasione utile per analizzare più a fondo il documento: sono stati registrati infatti tutti i dati utili per futuri raffronti ma soprattutto sono stati scoperti la firma e il tampone originale dell'autore del pezzo, ovvero Alphonse Giroux. Questa sicura attribuzione a Giroux, che lavorava in stretto sodalizio commerciale con Daguerre avendone ricevuto l'esclusiva per la commercializzazione degli apparecchi fotografici, prova che il pezzo uscì dagli atelier di produzione del celebre inventore. La storia degli studi intorno a questo esemplare è recentissima: nel catalogo della mostra "L'Italia d'argento. Storia del dagherrotipo in Italia" (Firenze, Alinari, 2003), realizzata dall'Istituto nazionale per la grafica e da Alinari a cura di Maria Francesca Bonetti e Monica Maffioli, è stata diffusa una prima informazione sul pezzo da parte di Laura Gasparini, che ne ha redatto la scheda descrittiva.

Il 30 novembre 2003, a conclusione dell'intervento di restauro è stato realizzato un incontro pubblico in biblioteca con Giuseppina Benassati (Soprintendenza per i beni librari e documentari dell'IBC), Giulia Cucinella e Riccardo Vlahov. In questa occasione è stato sottolineato come il pezzo possa sollecitare molteplici spunti di ricerca. Tra gli altri: la precoce attenzione del mondo del teatro alla immagine fotografica (Anna Fanti, cantante lirica, conosceva bene Rossini, cultore del ritratto fotografico) e il legame tra fotografia e biblioteca come "archivio delle memorie". Inoltre ulteriori spunti di ricerca riguardano gli aspetti commerciali della diffusione della dagherrotipia, che Giroux curò così bene, i canali di diffusione della scoperta in Italia e l'eco che essa ebbe nella cultura e nella stampa. Interessante anche l'iconografia della natura morta, che mostra elementi tipici della cultura accademica del tempo e il raffronto con altri dagherrotipi che uscirono dagli atelier di Daguerre, in cui è facile identificare gli oggetti utilizzati nella scenografia dell'esemplare imolese o trarre somiglianze. Infine meritevole di studio è l'originale confezione in carta che fu data al dagherrotipo, per la quale l'identificazione della filigrana utilizzata potrà fornire elementi di datazione e localizzazione.

L'interesse degli studi intorno a questi argomenti oggi è molto alto: è dell'anno appena passato la mostra "Le daguerréotype français. Un Objet photographique" (catalogo Editions de la Réunion des Musées nationaux, 2003), allestita a Parigi, Museo d'Orsay, e successivamente a New York, Metropolitan Museum ("The Dawn of Photography: French Daguerreotypes, 1839-1855", catalogo su CD-ROM, The Metropolitan Museum of Art - Yale University Press, 2003). Un censimento internazionale dei rari esemplari di questo genere ancora conservati presso istituzioni pubbliche e private è forse un obiettivo vicino.

[S. M.]

 

Dagherrotipi, i dinosauri della fotografia

La fotografia ha radici lontane nel tempo, che risalgono a ben prima dell'epoca della sua invenzione. L'esigenza di rendere il disegno e la pittura sempre più fedeli alla realtà da ritrarre venne soddisfatta mediante l'impiego di un apparato ottico, la "camera obscura"; rimaneva però ancora insoddisfatto il desiderio di ottenere immagini direttamente dalla natura senza l'intervento della mano dell'uomo. Occorreva perfezionare la sostanza fotosensibile, già nota agli alchimisti (che la definirono "Luna cornea") per poterla utilizzare a questo scopo. L'evoluzione scientifica nel campo della chimica determinò finalmente, tra la fine del Settecento e gli inizi dell'Ottocento, le condizioni necessarie a consentire l'invenzione della fotografia.

Tra i primi procedimenti fotografici che ebbero grande diffusione e suscitarono interesse e meraviglia, spicca per notorietà e per la spettacolarità dell'immagine il dagherrotipo, che appariva come uno specchio sul quale fosse rimasta impressa un'immagine, tanto da meritare la definizione di "specchio dotato di memoria". Questo procedimento fotografico, messo a punto da Louis Jacques Mandé Daguerre fin dal 1837, fu presentato ufficialmente a Parigi, dal fisico Arago, all'Accademia delle Scienze riunita in seduta plenaria il 19 agosto del 1839.

Raramente presente nelle nostre collezioni pubbliche, il dagherrotipo è un'immagine fotografica "unica" (non era possibile produrne copie multiple), dall'aspetto argenteo, incorniciata e protetta da un vetro; lo si potrebbe definire più propriamente un'immagine-oggetto, per l'inscindibilità degli elementi strutturali, protettivi e decorativi. Il supporto fisico che trattiene le particelle di amalgama di mercurio e argento che costituiscono l'immagine è una lastra di rame argentata, mentre la sostanza fotosensiblie utilizzata è lo ioduro d'argento.

Le complesse fasi per la preparazione e la sensibilizzazione iniziavano con l'argentatura della lastra di rame mediante un procedimento meccanico oppure elettrochimico (bagno galvanico), alla quale seguiva un'accurata lucidatura della superficie. Dall'accuratezza della preparazione dipendeva la qualità e la definizione dell'immagine. L'operazione successiva consisteva nella sensibilizzazione, mediante l'esposizione della superficie d'argento ai vapori di iodio in un apposito contenitore chiuso, all'interno del quale veniva fatto sublimare lo iodio. La sublimazione consiste nel passaggio diretto dallo stato solido a quello gassoso di alcuni elementi chimici, come appunto lo iodio. La reazione chimica tra lo iodio e l'argento produceva un sottile strato di ioduro d'argento, fotosensibile, uniformemente distribuito sull'intera superficie della lastra.

Gli apparecchi utilizzati per le prime riprese fotografiche erano basati sulla struttura tipica della "camera obscura" utilizzata originariamente per il disegno, realizzati in legno, provvisti di un obiettivo fissato sulla parte anteriore e dotati di semplici congegni meccanici per la messa a fuoco. La parte opposta all'obiettivo accoglieva uno chassis nel quale veniva collocata, protetta dalla luce, la lastra sensibilizzata; esso veniva posizionato sul medesimo piano focale del vetro smerigliato necessario a visualizzare e inquadrare l'immagine proiettata dall'obiettivo. I primi apparecchi forniti a Daguerre da Alphonse Giroux erano dotati di ottiche con lenti di Chevalier (ottico parigino) che avevano una lunghezza focale di mm 406 ed un'apertura massima di f/16; la lunghezza focale era direttamente rapportata alle dimensioni (cioè al formato) della lastra utilizzata.

Seguiva quindi la fase dell'esposizione. Occorrerà a questo punto far notare che la lastra sensibilizzata del dagherrotipo era in verità assai poco sensibile, soprattutto in rapporto alle emulsioni fotografiche attuali; pertanto non si poteva "scattare" una fotografia con tempi di esposizione rapidi, ma si dovevano eseguire "lunghe pose" della durata di parecchi minuti. Di conseguenza l'apparecchio fotografico doveva essere saldamente fissato su di un treppiede e il soggetto ritratto doveva rimanere perfettamente immobile per l'intera durata dell'esposizione della lastra. A causa dell'eccessivo tempo di posa era pressoché impossibile, nei primi tempi di diffusione del procedimento dagherrotipico, eseguire ritratti. Successivamente (dalla fine del 1840), la progettazione di obiettivi molto più luminosi (fino a f/3,6) in combinazione con un procedimento che aumentava la sensibilità della lastra mediante l'impiego di "acceleratori" (vapori di bromo o bromo e cloro) consentì di ridurre il tempo di posa e quindi di realizzare buoni ritratti.

Dopo l'esposizione l'immagine non era visibile: era pertanto definita "immagine latente". Lo "sviluppo" o "rivelazione" dell'immagine avveniva in un contenitore chiuso, mediante esposizione della lastra ai vapori di mercurio che si ottenevano riscaldandolo a 75°C. Dopo lo sviluppo occorreva rendere insensibili alla luce, neutralizzandole o ancor meglio eliminandole, le particelle di ioduro d'argento non impressionate durante l'esposizione. Nei primi tempi si utilizzava una soluzione salina satura per neutralizzare tale sostanza, successivamente, in seguito alla scoperta di Herschel, si impiegò una soluzione acquosa di tiosolfato di sodio, il cosiddetto "bagno di fissaggio", ancor oggi utilizzato nel trattamento dei materiali fotografici contemporanei, bagno che sciogliendo le sostanze fotosensibili non esposte ne consentiva la completa rimozione. Dopo il fissaggio, la lastra veniva lavata in acqua per eliminare le sostanze messe in soluzione dal fissaggio, e infine asciugata.

L'immagine era costituita da argento metallico (lucido) sul quale risaltava l'amalgama di argento e mercurio, apparendo positiva o negativa a seconda dell'angolo di incidenza della luce. La natura assai delicata della superficie della lastra, efficacemente paragonata da Arago all'ala di una farfalla, conferiva all'immagine una preoccupante precarietà, sia dal punto di vista fisico, che da quello chimico. Si rese quindi indispensabile proteggere le immagini mediante un vetro e un passe-partout che lo separava dalla lastra, sigillando il tutto per evitare contaminazioni e ossidazioni. Inizialmente le cornici erano le medesime utilizzate per le miniature pittoriche, poi si differenziarono in vario modo, come ad esempio gli astucci detti "Union Case", i passe-partout in vetro dipinto e addirittura i gioielli nei quali venivano incastonati i dagherrotipi di formato minimo.

Per una migliore resa ed un'ulteriore protezione dell'immagine il francese Fizeau mise a punto la procedura del viraggio al cloruro d'oro, che conferiva una migliore brillantezza e vivacità all'immagine e la rendeva maggiormente stabile. Ma tra il 1850 e gli inizi del 1860 la diffusione di procedimenti più pratici e vantaggiosi, dotati di maggiore sensibilità, e soprattutto basati sul più conveniente e concorrenziale "sistema negativo-positivo", che consentiva la produzione di molteplici copie della medesima immagine, comportò inesorabilmente l'obsolescenza e l'estinzione del dagherrotipo.

[R. V.]

 

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