Rivista "IBC" XI, 2003, 4
musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali / immagini, mostre e rassegne
Il paesaggio ha costituito un oggetto privilegiato per la fotografia fin dai suoi albori, fin dai primi points de vue realizzati da Niépce dalla finestra della sua casa di Gras. Nella visione, descrizione o interpretazione di spazi rurali o urbani, naturali o storici, i fotografi hanno costruito e affinato tecniche e poetiche. A "L'idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi" la Galleria civica di Modena ha dedicato una bella mostra aperta dal 23 novembre 2003 al 25 gennaio 2004 nell'ambito dell'appuntamento annuale di "Modena per la fotografia" (tutte le immagini si ritrovano nel catalogo edito da Silvana Editoriale). Considerata la fortuna che la fotografia di paesaggio ha avuto in Italia e la ricchezza dei suoi esiti, il compito di realizzare un'esposizione significativa senza essere enciclopedica era arduo. I curatori Filippo Maggia e Gabriella Roganti hanno scelto di scandire il percorso in tre diverse sezioni.
La prima sezione, ospitata nella Galleria civica e dedicata alla storia del rapporto tra fotografia e paesaggio, si apre con una serie di immagini di esponenti della cosiddetta "Scuola Romana di fotografia", che intorno alla metà dell'Ottocento riproducono, nei modi pionieristici della nuovissima pratica fotografica, le visioni tipiche della tradizione del Grand Tour: le rovine, i monumenti, i panorami della città eterna. Non a caso alcuni di questi fotografi sono stranieri come James Robertson e Robert Macpherson, che si affiancano agli italiani Giacomo Caneva e Tommaso Cuccioni. La fotografia segue le orme codificate della pittura e il paesaggio, trattato come una "veduta" classicamente composta, sembra essere il prodotto di un autore universale.
Ma le differenze (nelle poetiche e nelle soluzioni tecniche adottate) non tardano ad emergere. Se il nobile tedesco Wilhem Von Gloeden utilizza il paesaggio come sfondo teatrale per scene fintopastorali che glorificano corpi nudi di giovani efebi, il viaggiatore Vittorio Sella realizza immagini di luoghi esotici (Marocco, Algeria) sorprendentemente spoglie di esotismo. Giuseppe Primoli, nobile romano e cronista per diletto, descrive invece il paesaggio urbano e rurale per frammenti e particolari, ricomponendoli poi in sequenze che ristabiliscono un senso e una visione complessiva. La fotografia legittima la soggettività dello sguardo, ma è altrettanto pronta ad utilizzi pratici. È il caso della fotografia aerea impegnata a rilevare, nell'apparente rarefazione di un paesaggio visto dall'alto, le linee contrapposte dei fronti di guerra.
Il Novecento consegna ai fotografi un paesaggio in trasformazione. L'Italia monumentale/rurale cede il passo all'Italia delle città, simbolo tangibile della modernità. È esemplarmente la Torino anni Trenta di Mario Gabinio, pulsante di luci al neon, strade, cantieri. All'intento documentario e alle necessità della committenza si accompagna una volontà espressiva che sottolinea e ricerca i valori formali: così le fotografie industriali scattate negli anni Quaranta da Bruno Stefani per il Touring Club ci rimandano un'immagine dell'Italia ormai lontana dal modello tradizionale e sono, nello stesso tempo, fortemente pensate e costruite in termini di inquadratura e composizione.
Al periodo tra il secondo dopoguerra e gli anni Novanta, e ai suoi maestri riconosciuti, è dedicata la seconda sezione della mostra (alla Palazzina dei Giardini) curata da Giovanna Calvenzi, con immagini, tra gli altri, di Paolo Monti, Franco Fontana, Mario Giacomelli, Luigi Ghirri, Mimmo Iodice, Gabriele Basilico. La tensione tra fotografia come documento e fotografia come espressione artistica è qui sempre più evidente. Così succede che il paesaggio sia nello stesso tempo indagato con attenzione e usato come repertorio di forme e possibilità espressive.
È quanto avviene alla Venezia anni Cinquanta di Monti, che nella perfezione del bianco e nero è nello stesso tempo realistica e puro gioco di forme, o alle case di montagna di Fontana, i cui intonaci squillanti si trasformano in superfici di pura risonanza emotiva. Coniugare descrizione e invenzione: un equilibrio possibile, fonte di continuo fascino per la sua solo apparente facilità, è esemplificato dal lavoro fotografico di Luigi Ghirri, ma si rivela anche nelle immagini drammaticamente intense di Mimmo Iodice.
Il paesaggio e le sue mutazioni (compreso il suo inesorabile imbruttirsi) sono ancora al centro della ricerca fotografica: che sia il paesaggio industriale e postindustriale di Gabriele Basilico, con le sue metropoli tutte uguali perché il fotografo esercita la sua sapienza non sui monumenti ma sulle periferie, che siano i luoghi/interstizi marginali e senza storia di Guido Guidi o gli spazi ingombri di corpi umani di Massimo Vitale.
Il rapporto con il paesaggio inteso come spazio dotato di senso/storia/fisionomia riconoscibili o comunicabili risulta invece molto più problematico nel lavoro dei fotografi più recenti: tra questi Francesco Zunchetti, Francesca Rivetti, Daniele De Lonti, Luca Andreoni, Antonio Fortugno. Le loro opere costituiscono la terza sezione della mostra e sono esposte all'aperto, fuori dagli spazi museali e istituzionali.
Per questi fotografi, il paesaggio è ormai, e con molta maggiore urgenza che nel passato, un altrove lontano oppure "una metafora del reale che discende da una visione personale". L'accento è posto in modo quasi esclusivo sulla percezione soggettiva, sulla proiezione di stati d'animo. La possibilità di conoscere/dialogare con un luogo è un'operazione difficile, che avviene in circostanze particolari e si direbbe quasi frutto di un'illuminazione. Un paesaggio indecifrabile si sottrae peraltro a qualsiasi tentativo di modificazione.
La frattura che i fotografi delle ultime generazioni mettono in scena e spettacolarizzano in immagini di grande formato si traduce anche nell'esasperata sproporzione della figura umana rappresentata. Così ad esempio gli uomini e le donne fotografati da Francesco Zucchetti sono enormi e fagocitano quasi tutto lo spazio che li circonda; all'inverso Francesca Rivelli ritrae figure umane microscopiche che stanno ai margini dell'inquadratura: il paesaggio è divenuto uno spazio vuoto, "delicato e fragile".
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