Rivista "IBC" XI, 2003, 4
territorio e beni architettonici-ambientali / interventi
Il testo che segue è tratto da: Paolo Zermani, Identità dell'architettura. Parte seconda, Roma, Officina Edizioni, 2002 (pp. VII-XII, XXII-XXIII). Ringraziamo per la cortesia l'autore e l'editore.
Paesaggio è parola di valore mutato che il secolo appena concluso ha contribuito a limare, a erodere, infine a calpestare, fino ad alterarne completamente il significato. Non esiste più un ultimo orizzonte in senso leopardiano, inteso come confine estremo che l'occhio consente di vedere, ma solo un ultimo orizzonte da intendersi come giunto dopo il penultimo in senso temporale, al quale ne succederà rapidamente un altro e poi un altro ancora, con sconvolgente rapacità, fino a restringere sempre più la prospettiva che l'occhio può osservare.
Il secolo trascorso ha, insomma, soprattutto sottratto spazio e affida al nuovo secolo il dilemma consistente nel fatto che questo spazio, dello sguardo dell'uomo, sta riducendosi. Il cielo è visibile per frammenti e anche la terra, come una colossale lottizzazione dello spazio, ci consente di esercitare il punto di vista solo attraverso cannocchiali obbligatori.
Se Klee, cent'anni fa, aveva il problema di dare ordine al movimento, quel movimento incombente che avrebbe rappresentato la frenesia del secolo appena nato, ora la nostra responsabilità è dare ordine ai frammenti che ci sono stati lasciati, perché abbiano ancora un significato o ne assumano uno nuovo.
Tutto ha inizio con Friedrich: attraversando la prima metà dell'Ottocento, egli ha forse un presentimento del fatto che i rapporti tra distanze cominciano a mutare. Personaggi, uomini e donne, quasi sempre di spalle, osservano la vicenda del paesaggio come se il quadro fosse una camera dentro cui fissa l'immagine, potendone variare la scelta di percezione. Già due quadri del 1808 ritraggono La finestra destra e La finestra sinistra dello studio dell'artista e il paesaggio filtrato dal serramento a croce. In questo caso lo studio è camera. Una di queste finestre compare quale fuoco rischiarante del ritratto di Caspar David Friedrich nel suo atelier dipinto da George F. Kesting nel 1812. La finestra, rigorosamente scomposta dalla croce, offre alla vista quattro riquadri di cielo. Lo studio è nudo, a parte il cavalletto e una seggiola, l'artista è in piedi con la sua tavolozza. Quel cielo scomposto in quattro settori è l'Infinito, cioè il Divino, ciò a cui, unicamente, deve tendere la rappresentazione del paesaggio. Secondo la relazione con questo Infinito, un Infinito perseguito nel paesaggio, ma costruito attraverso l'interiorità, Friedrich comincia la distruzione di tutto quanto è inutile, per porsi il problema della scala delle cose. Sente che qualcosa sta mutando: egli richiama silenziosamente all'ordine.
"Si combatte una guerra eterna contro il tempo, giacché laddove nel mondo qualcosa di nuovo cerca di assumere forma, per quanto sia vero e bello viene contrastato dal vecchio, dall'esistenza e solo con la lotta e la contesa può farsi spazio e affermarsi, finchè non subirà l'assalto di un qualcosa di più nuovo e dovrà cedere. Tuttavia non ogni rimozione di quanto prima esisteva, per opera di ciò che esiste attualmente, va considerata un progresso nella conoscenza". Ma nessuna concessione serve a Friedrich per ritornare indietro: non vorrà mai adeguarsi alla moda del tempo e vedere Roma, né l'Italia, temendo di togliere tensione al proprio lavoro.
Lo sguardo dall'interno ricompare nella Donna alla finestra che osserva dallo studio del pittore, posto nella penombra, la luce del cielo e il corso dell'Elba e Dresda, ma più generalmente le figure di spalle, a volte piccolissime, indicano la presenza di un terzo osservatore, analogamente all'occhio del fotografo che si serve del filtro fotografico per adeguare la scala di percezione. La differenza di Friedrich è in questo guardare fotograficamente o, se si vuole, teatralmente, figure che si muovono come strumenti dell'osservatore e servono proprio a definire la scala della percezione, ove la natura è immodificabile ed è solo attraverso di essa che si può raggiungere, nella temporanea finezza dell'opera d'arte, l'Infinito. Friedrich sfrutta la scala mentre la adotta: ogni cosa, anche la più piccola, concorre alla rappresentazione del Divino. Egli è cosciente dell'ineliminabile cadenza del tempo e delle trasformazioni, ma cerca, in una nuova completezza, un orizzonte atrettanto coerente del già stato. Le trasformazioni non lo intaccano come non lo intacca il passato.
"Sto di nuovo lavorando a un grande dipinto, il più grande che abbia mai eseguito [...] esso raffigura l'interno di una chiesa in rovina, e come modello ho utilizzato lo splendido Duomo di Meissen [...]. Dalle imponenti rovine di cui è popolato lo spazio interno si ergono possenti pilastri e delicate, esili colonne, che in parte sostengono ancora la volta a tutto sesto. È svanito il tempo della magnificenza dell'edificio sacro e dei suoi ministri, e dall'insieme in rovina è come sorta un'altra epoca e un'altra necessità di chiarezza e di verità. Tra le rovine sono cresciuti alti, esili abeti".
Il paesaggio, come rappresentazione dell'Infinito interiore, inserisce dentro il quadro la conoscenza del paesaggio tragico, ma è, almeno temporaneamente, un ordine. L'uomo sul mare di nuvole del 1818, che Friedrich dipinge sempre di schiena, intento a scrutare, dal davanzale di una catena montuosa europea, il paesaggio avvolto nella nebbia, segnato solo da alcune cime innevate, osserva ancora gli elementi di un persistente ordine interno, ove le vette rappresentano gli ancoraggi della fede e tra esse la più alta, il Rosemberg sul fondo, l'autorità divina.
La ricerca di un ordine limitato che possa dirsi Infinito trova momentaneamente sintesi. La tela-camera torna continuamente per Friedrich e particolarmente negli ultimi anni della sua vita, in cui un paesaggio dipinto mostra un foro al posto della luna, che serve per traguardare la luna vera. Il problema della distanza è centrale: le sue figure non sono parte del paesaggio, ma semplicemente lo osservano. Spesso le figure di spalle coprono addirittura il punto di fuga della prospettiva, e comunque l'artificio prospettico viene trasgredito. Il primo piano e la nebulosità delle zone che dovrebbero risultare più nitide danno luogo a una sfuocatura, tale quale si ottiene azionando a rovescio la messa a fuoco di un apparecchio fotografico o tale comunque all'azione di un artificio, di una interferenza, di un processo esterno. Anche ove risultino distese e terse, le vedute non sono tuttavia per nulla pacificate. Sembra esistere una doppia specularità, tra chi osserva e chi è osservato e il punto di fuga potrebbe dirsi anche ribaltato, come se il paesaggio guardasse la figura, a sua volta contemplata da un terzo osservatore.
Certo l'orizzonte è spesso sbarrato o intercluso. La tela-camera inquadra frammenti che vengono assemblati con un montaggio di tipo cinematografico: un fondale, un ramo, una figura, sovrapposti in un tempo ove le distanze sono entrate in crisi. Tragedia, teatro, deformazione ottica mettono in scena la vicenda di un'infinità non raggiungibile, ancorché inseguita all'interno di un sistema chiuso. Friedrich come noi, prima di noi, sa che non può raggiungere l'Infinito nel finito, ma lo cerca incessantemente. Fino a "chiudere gli occhi".
I suoi straordinari paesaggi ci chiedono in realtà di non vedere nulla, perché sanciscono il punto di non ritorno dalla conoscenza dell'Infinito, dello straordinario naturale e della sua assolutezza, rispetto alla quale l'uomo ordinatore entra per la prima volta in crisi.
[...]
Nel film di Bernardo Bertolucci Prima della rivoluzione, del 1962, Fabrizio e Gina visitano la Rocca di Fontanellato. La mano di Fabrizio guida Gina nel buio del piccolo locale nel torrino a ovest sulla cinta muraria: "La camera ottica! È un gioco di specchi. È magica, ma vera! Però è magica".
Sul bianco schermo orizzontale, in un lenzuolo illuminato da un raggio di sole, compare l'immagine di Fabrizio, nel frattempo uscito sulla piazza posta nella facciata anteriore, oltre il fossato. "Che bello, lo ruberei questo trucco che mi fa parlare con te, quando non ci sei. Dov'è che sei?".
Attraverso un complesso effetto prismatico il sofisticato meccanismo, realizzato nell'Ottocento, anticipando il principio della tele-camera, consente di trasportare le immagini oltre gli ostacoli che impedirebbero l'osservazione diretta, per ribaltare la realtà a distanza.
Nel mistero della camera e delle sue rappresentazioni allegoriche può essere riassunta la sostanza architettonica che il ventesimo secolo ci ha trasmesso: la disperata necessità di un punto di vista da cui comprendere la vera distanza delle cose.
Possiamo forse costruire l'architettura raccogliendo le istanze di nuovi microcosmi, camere sottratte al tempo che si possono abitare come interni con vista, da cui osservare le mutazioni della scala?
Per Friedrich si è parlato di scala dello spirito.
Proprio L'infinito leopardiano ci tratteggia un paesaggio preciso, delimitato, in cui la siepe costituisce il rivelatore del proprio superamento. Questo inviluppo è molto prossimo all'idea di centro come nuovo inizio, in cui Leopardi evoca anche un positivo naufragio. Camera con vista o gorgo? Si guardi Pompei, nulla più di un'isola, di un tiepido centro, che galleggia in un nuovo magma. Brodskij, riferendosi alla Mappa del nuovo mondo di Walcott ("Noi perduti / Trovati solo / In opuscoli turistici / Dietro ardenti binocoli"), ci ricorda che ogni uomo è un'isola.
Lo spazio architettonico apparirebbe ora interno, sempre più interno.
L'infinito di Friedrich è un infinito negato all'uomo.
La rappresentazione prospettica ha cercato per secoli di circoscrivere l'infinito nella costruzione meccanica del disegno. Friedrich ha dichiarato lo stato di crisi. Nella sua disperata ricerca egli ha voluto togliere progressivamente ogni oggetto dal proprio studio d'artista, affinché non interferisse con il paesaggio, soltanto filtrato dalla finestra. Per noi non è sufficiente. Dobbiamo cercare, nello spazio circoscritto da un ultimo orizzonte che muta in continuazione, un rapporto possibile, l'estremo raccordo, con la struttura delle cose, con ciò che del paesaggio è pronto a salvarsi, a riconoscersi quale misura.
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