Rivista "IBC" X, 2002, 3

territorio e beni architettonici-ambientali / interventi

Dalla concezione classica del paesaggio a quella romantica, dallo spazio definito, che sembra dire a chi guarda: "qui si vede questo", allo sguardo che crea il proprio spazio e arriva a immaginare un ultraspazio: come cambia la percezione dell'ambiente in pittura e in letteratura.
Nello specchio di Socrate

Gianni Celati
[narratore e docente di letteratura angloamericana presso la Facoltà di lingue dell'Università di Bologna]

"Spazialità e testo letterario" è il tema su cui, tra il febbraio e il marzo del 2002, la Scuola superiore di studi umanistici dell'Università di Bologna ha organizzato un ciclo di lezioni magistrali, con l'intervento di Alberto Arbasino, Marc Augé, Umberto Eco, Franco Farinelli, Guido Guglielmi e Gianni Celati. Grazie alla cortesia di quest'ultimo pubblichiamo un estratto di uno dei testi prodotti per l'occasione: in attesa della prossima pubblicazione del volume che raccoglierà gli atti, chi volesse leggere il testo per intero può consultare il numero di maggio della rivista elettronica "Golem l'Indispensabile" (www.enel.it/golem).

 

Da Newton in poi ci è stata consegnata l'idea dello spazio fisico come il vuoto tra i corpi, dove vigono le tre leggi del moto, con il seguito delle formule sulla gravitazione universale. Ogni estensione del reale si parifica sub specie di vuoto dove sono collocati dei punti geometrici, con distanze e moti calcolabili. Lo spazio avvolgente e pieno di cose, l'illimitato degli antichi filosofi, il luogo del divenire che tutto scompiglia e raduna secondo l'oscura armonia d'un Dio, ora è un'astratta estensione di punti geometrici fino ai confini dell'universo. In realtà lo spazio assoluto della fisica newtoniana, già prima di Newton era la concezione d'un ordine, era una filosofia e un principio descrittivo, era lo spazio trigonometrico cartesiano, era quello della geometria proiettiva, ed era la visione dello spazio pittorico nel classicismo.

Nei paesaggi d'un maestro del classicismo, Nicolas Poussin, riconosciamo quello spazio come meraviglia d'una astrazione visiva che non può essere perturbata da niente. Se in uno dei suoi quadri seguiamo le linee portanti, vediamo dei veri saggi di geometria proiettiva: un ordine di proiezioni con cui lo sguardo si distende senza sussulti, guidato in ogni possibile movimento tra le linee geometriche.

Sono paesaggi dove non esiste l'incertezza della percezione, come se non fossero stati visti attraverso gli occhi di nessun umano in particolare. È un principio d'ordine che precede qualsiasi percezione, perché è come se le inquadrasse già tutte nelle sue regole visive, presentate come un ideale di perfezione. La perfezione sarebbe quella della statuaria e dell'architettura greca, la regola dei rapporti proporzionali, la regola seguita dal demiurgo nel creare il mondo, secondo la spiegazione di Platone nel Timeo. Ed ecco il mondo incantato di Poussin, con i suoi scenari di favole antiche che rimandano al mito teologico della perfezione. Questo magistrale ordine però mostra anche qualcosa che manca, qualcosa che noi abbiamo imparato ad apprezzare nella pittura successiva: la profondità di campo. In un quadro di Poussin, dal primo piano ai piani successivi, le cose e le figure umane rimpiccioliscono; ma la visibilità è sempre la stessa; non c'è profondità di campo anche perché dovunque si mantengono le stesse tonalità di colore e tutto è nella stessa luce ideale. È uno spazio calmo e immutabile, perché non esiste quel fenomeno che colloca le diverse percezioni dal vicino al lontano, con il diverso tono affettivo che comporta il vicino e il lontano: e questo non è un dato geometrico, ma un effetto della percezione soggettiva. Tolto quello, ogni veduta è come se non fosse vista da nessuno in particolare; corrisponde cioè ad un impersonale "qui si vede questo", un'immagine del mondo visto da un Dio geometra.

 

Ancora il grande Goethe, quando viene in Italia a fare il suo grand tour, ha in mente solo esempi di spazio classico. Nel primo paesaggio italiano su cui si sofferma, nel suo Viaggio in Italia, la descrizione è un adattamento letterario del paesaggismo pittorico:

 

Da Bolzano a Trento si procede per nove miglia in una valle fertile e sempre più fertile [...]. Ora il corso dell'Adige si fa più lento, formando in vari punti un greto molto largo. La campagna lungo il fiume e su per i colli è così fitta e intrecciata di piante da far pensare che si soffochino a vicenda: spalliere di viti, mais, gelsi, meli, peri, cotogni e noci. Al di sopra del muro affiora il rigoglioso sambuco; in solidi fusti l'edera sale su per le rocce e le ricopre largamente; la lucertola guizza nelle fenditure, e tutto ciò che si muove di qua e di là riporta alla mente le più care immagini dell'arte [...].

 

Le care immagini dell'arte sono per Goethe la regola d'un "qui si vede questo". Lo spazio assoluto dell'arte è il criterio del guardare, criterio non soggettivo ma basato su un vecchio assioma: "Tutta la natura non è che arte". E questa idea si associa a quella dell'arte più perfetta, l'arte classica, di cui Goethe viene a cercare esempi in Italia, sia come statue antiche e disegni di statue, sia come paesaggi che richiamano una rappresentazione artistica già data. In quel suo primo paesaggio italiano la veduta frontale inquadra il totale d'una campagna fino all'ascesa dei colli, poi traccia i piani successivi dal vicino al lontano ("Al di sopra del muro..."); e nell'angolatura che parte dall'occhio di chi guarda per abbracciare lo spazio fino all'orizzonte, è come se tutto fosse pronto per essere descritto in quel modo. Tutto è calmo e lineare, niente appare come una sorpresa o un'incertezza che perturbi l'osservatore.

La descrizione si conclude così: "Le trecce delle donne avvolte intorno al capo, gli uomini a petto nudo o con piccole giacche indosso, i buoi che vengono spinti dal mercato verso casa, gli asinelli curvi sotto la soma, tutto ha il movimento e la vita d'un quadro di Heinrich Roos". Roos è un pittore tedesco contemporaneo di Goethe, nel quale proprio non esiste la profondità di campo. E anche lo sguardo di Goethe non conosce la profondità: non è attirato dalle cose nello spazio, ma dal quadro predisposto in cui inquadrarle; come quei disegnatori che tracciavano le linee seguendo le scansioni ortogonali su un vetro, il che permetteva di mantenere proporzioni esatte dal vicino al lontano. È la regola aurea del "qui si vede questo", che Goethe traduce in descrizione letteraria. Con questa regola è come se non ci fosse differenza tra un paesaggio che si vede e una rappresentazione già nota, ossia è come se quel paesaggio potesse essere visto e descritto solo così. Un secolo dopo Cézanne dirà che in quel modo tutti i paesaggi somigliano a quadri appesi in un museo.

 

Lo spazio classico era anche e soprattutto un modo di marcare le posizioni rispettive delle cose osservate e del soggetto che osserva: il "qui si vede questo" separa nettamente le impressioni soggettive dalle vedute oggettive. È come dire che ogni spazio è un ordine che viene prima d'ogni percezione, definito dalle cose che lo occupano e dalle distanze misurabili tra i corpi. Se tutto è definibile attraverso quest'ordine, ne risulta una visibilità uniforme, senza differenze tra il vicino e il lontano, come nei quadri di Poussin e nel paesaggio di Goethe. Il cambiamento di visibilità dal vicino al lontano non dipende solo da distanze misurabili: se vedo qualcosa attraverso un varco, o al di là d'un ostacolo, la cosa vista è come se si allontanasse nella profondità di campo; e così un cielo con nuvole sparse in prospettiva ha più profondità d'un cielo senza nuvole; e se qualcosa mi attira, diciamo il corpo di un'altra persona, è come se lo spazio fuggisse in profondità verso quel punto.

La profondità non dipende solo dal fatto che le cose si rimpiccioliscono nella lontananza, ma anche dal mio piazzamento relativo, e dal mio modo di sentire la lontananza. È un tunnel della visione in cui ci si immette, attirati da certi punti nello spazio; il che mostra una fusione tra il vedere e la cosa vista, che non può essere oggettivato, perché dipende dal mio piazzamento relativo, che non è intercambiabile con quello di nessun altro. È un effetto che disturba l'uniformità dello spazio; e come tutte le attrazioni a cui non si resiste porta disordine, anche là dove il fuori è tutto regolato da un principio d'ordine.

 

Tutto il nuovo comincia con una forte attrazione per gli effetti dei fenomeni esterni, sempre variabili, sempre in movimento: delle onde di luce e del magnetismo, dei turbini marini e delle forme delle nuvole, delle formazioni geologiche nel ventre della terra e delle trasformazioni morfologiche nelle piante. Esempi: il pensare-immaginare di Novalis sui fenomeni geologici, le fantasie di Poe sui fenomeni magnetici e di mesmerismo, le risonanze dell'ignota natura in Baudelaire, le annotazioni di Ruskin sulla luce che palpita nei quadri di Turner, ecc.

Il fenomeno è il modo di mostrarsi delle cose: è il riflesso d'uno specchio, la condensazione di vapore che forma le nuvole, lo spargimento di molecole che produce un odore, il profilo d'una espressione che riconosco, l'azzurro dei monti al mattino o il rosso del cielo di sera. Un fenomeno non è precisamente un oggetto, è l'idea che ci facciamo cogliendo le apparenze di un oggetto. Per questo Berkley insisteva che la percezione delle apparenze non corrisponde a nessuna sostanza materiale, e che si tratta solo di idee nella nostra mente. Di mezzo c'è quel faticoso problema conoscitivo sollevato da Platone: la differenza tra essere e apparire. Nella Repubblica Platone fa l'esempio dello specchio; Socrate dice: "Prendi uno specchio e volgilo in tutte le direzioni. Ecco che avrai prodotto un sole, dei corpi celesti, una terra, te stesso, e ogni sorta di animali e piante". Un allievo risponde: "Sì ma si tratta solo di apparenze, non di cose reali".

Il termine greco per dire apparenze è phainòmena, fenomeni. Quando Kant elaborerà la sua idea rivoluzionaria di spazio si aggrapperà a quel termine: fenomeni, sia nella forma greca, sia nella versione tedesca Erscheinung, apparenza, il mostrarsi delle cose. Nelle sue tesi lo spazio non è un concetto ricavato dall'esperienza: è una rappresentazione a priori che rende possibili le intuizioni sull'esterno, e raduna nel punto focale della coscienza la molteplicità di apparenze che si presentano ai sensi. La cosa che qui interessa è che tutti i termini tradizionali si spostano: ora è al centro dell'attenzione ciò che per Platone era l'illusione dell'effimero, i fenomeni, considerati il velo dell'essere, da diradare con la dialettica.

Ma neanche per Kant l'intuizione fenomenica può cogliere l'essere o il quid ultimo delle cose, che rimane per lui sconosciuto. Tutto quel che possiamo conoscere dell'esterno sono i riflessi nello specchio della nostra coscienza; ma questo fa sì che l'esistenza stessa dello spazio dipenda dalla nostra costituzione soggettiva. Ecco le sue parole decisive: "Se sopprimessimo il nostro soggetto, o anche solo la natura soggettiva dei sensi in generale, tutta la natura, tutti i rapporti degli oggetti nello spazio e nel tempo, anzi lo spazio stesso e il tempo sparirebbero: come fenomeni non possono esistere in sé ma solo in noi".

Le tesi kantiane hanno sconvolto molta gente ai loro tempi, perché turbavano l'idea di realtà assoluta, immediatamente accessibile all'esperienza; e turbano anche l'idea classicista dello spazio assoluto, che sarebbe là, indipendente dalle nostre vedute. Ma quelle tesi hanno anche prodotto enormi fermenti, tra cui novità che si notano nell'espansione delle descrizioni spaziali nei narratori. Sono novità che si notano anche in pittori che forse non avevano cognizione delle tesi kantiane, come Caspar Friedrich: ad esempio in quei suoi quadri dove ci sono figure poste a contemplare un paesaggio.

I contemplatori di Friedrich, così assorti davanti al mare o davanti a uno spettacolo della natura, sembrano portare in sé quest'idea nuova e sconvolgente: che gli spazi esterni prendano forma nel pensiero di chi li guarda, secondo come appaiono a chi li guarda, secondo lo stato d'animo di chi li guarda; e che non esisterebbero neanche come entità definite se nessuno li guardasse.

[...]

Visto come un campo fenomenico, lo spazio prende nuovi connotati; diventa il mistero del fuori di noi, da esplorare nelle sue apparenze più sfuggenti. Ad esempio le nuvole: per anni Constable torna sempre a dipingere l'evanescenza delle nuvole, a cercar di rendere la fluidità molecolare sui loro bordi. Lo stesso per Turner con la luce: le sue pennellate seguono lampi di colore in cui sfuma ogni forma definita; e le cose spuntano vaghe da intensità abbaglianti di squarci luminosi. Ruskin, in Modern Painters, anno 1846, critica i pittori classici per aver dipinto sempre uno spazio assoluto, in cui le cose vicine e lontane erano mostrate in modo egualmente dettagliato, in forma egualmente perfetta: "Se rappresentiamo gli oggetti vicini e lontani come se presentassero subito all'occhio quell'immagine distinta che noi riceviamo da ognuno di loro in natura, quando li guardiamo separatamente [...] compiamo un errore altrettanto grossolano che se avessimo mostrato un oggetto cubico simultaneamente visibile in tutti i suoi lati".

La verità originale dello spazio, dice, è resa da differenziazioni tra parti più distinte o più confuse, attraverso effetti multipli di tonalità atmosferiche, secondo il variare della luce, come succede nei quadri di Turner. Nei quadri di Turner, spiega Ruskin, "non c'è una foglia, non c'è una nuvola, su cui la luce non sia sentita come se passasse in quel momento e palpitasse sotto i nostri occhi. Là vi è il movimento, l'onda attiva, la radiazione dei fasci luminosi che dardeggiano, non la cupa luce universale che cade su un paesaggio senza vita, senza direzione, luce uguale in tutte le cose e morta su ogni cosa".

Meno appariscente che in Turner, ma più studiato, è il fenomeno della profondità di campo nei paesaggi di Constable: sono paesaggi che spesso paiono confusi, con pennellate sommarie, con vedute campagnole qualsiasi. Le cose rimpiccioliscono nel lontano, ma la visibilità diventa incerta: si formano macchie di colori, luci, ombre, in cui cose e fenomeni atmosferici si compenetrano. Lo spazio diventa una costellazione di punti imprevedibili, di irregolarità mai viste, la confusione originaria del mondo. Constable, più che mai, mostra gli effetti della profondità di visione: il legame affettivo con qualsiasi cosa verso cui lo sguardo si proietta; al punto che non c'è più nessuna differenza tra scene banali e vedute di spicco.

In una sua veduta della spiaggia di Brighton non c'è quasi niente: cielo, tre nuvole, linea trasversale della spiaggia, linea dell'orizzonte del mare, due navi e dei battelli lontani. Ma con quelle due linee che si intersecano e quelle tre nuvole nel cielo, lo spazio fugge verso una profondità imprevista, dove quello che sorprende è l'ordine sparso e si direbbe casuale delle cose, ma tutte raccolte nel tunnel della visione, in un momento particolare del giorno. Nelle descrizioni letterarie c'è solo un paragone che mi viene in mente, quello delle vedute paesaggistiche di Thomas Hardy, all'inizio di The Return of the Native, e in tutto Tess of the d'Umberville: le camminate di Tess nella campagna, lo scorcio dei poggi, una valle che si profila come un terreno striato e indistinto, ma straordinariamente aperto. Uno spazio terrestre, dove pare che ogni scorcio in cui l'occhio si infila porti con sé delle voglie di fuga.

 

Negli stessi anni in cui Ruskin cantava le lodi della nuova visione pittorica, Edgar Allan Poe, a New York, scriveva un trattato cosmologico intitolato Eureka. È un discorso strambo e appassionante, che tenta di tradurre lo spazio assoluto della fisica newtoniana in un insieme di moti molecolari, senza più distinzione tra materia e spirito. Materia e spirito sarebbero due parvenze di un'unica forma di energia, che sembra già quella degli elettroni. L'idea nasce da un paragrafo di Newton, in coda ai Principia Mathematica, dove parlava d'uno "spirito sottilissimo che pervade i corpi inerti e si annida in loro, per la cui forza le particelle dei corpi si attraggono reciprocamente".

Tenendo buona l'idea d'uno spirito sottilissimo come energia delle particelle, Poe immagina l'universo come una nube di energia, che sarebbe quella dell'attrazione gravitazionale. È un mare cosmico di moti d'attrazione, dove tutto influisce su tutto, e anche l'individualità dell'uomo non sarebbe che uno sviluppo di quelle influenze di tutto su tutto: uno sviluppo, dice, che raggiunge "un certo grado di sensitività che implica ciò che chiamiamo pensiero". Le particelle elettriche, che si aggregano e disaggregano, produrrebbero influssi che attraverso l'etere arrivano fin nell'intimo dell'uomo. E per dire come arrivano quegli influssi, Poe cita i fenomeni dell'elettricità, del magnetismo, delle onde di luce, e infine il fondamentale fenomeno della vitalità e del pensiero. Si capisce che in questo modo risolve il dissidio tra mondo oggettivo e sensibilità soggettiva.

C'è un altro suo testo, The Colloquy of Monos and Una, in cui spiega in modo più fantastico le stesse idee, con questa aggiunta: che la percezione di quei processi materico-spirituali risulta chiara in punto di morte. Perché, dice, in quel momento la sensibilità diventa insolitamente acuta, e ad esempio vista e odorato diventano "inestricabilmente confusi, un unico sentimento anormale e intenso". Sono idee che riemergono continuamente nel suoi racconti, dove l'acutizzazione anomala della sensibilità prende la forma dell'orrore.

Questo sentimento è espresso da due parole; la prima, horror, dà il senso di una minaccia mortale davanti a cui i sensi si confondono; la seconda parola, awe, indica uno smarrimento, ma anche una meraviglia davanti a qualcosa che sembra sovrannaturale. Nel racconto intitolato A Descent into the Maelström il pescatore norvegese è afferrato da un immenso vortice, fino a trovarsi al suo interno, e racconta: "Non dimenticherò mai la sensazione di orrore [horror] e sgomento [awe], e la meraviglia [admiration] con cui osservavo le cose intorno a me".

L'uomo di Poe resta inchiodato con lo sguardo su apparenze incerte e minacciose, che si presentano come l'abisso dell'ignoto. In un altro racconto (The Imp of the Perverse) si legge: "Stiamo sull'orlo d'un precipizio. Scrutiamo dentro l'abisso - diventiamo confusi e malati. Non si sa perché, ma restiamo lì". In Poe il tremendo è la visione senza vicinanza, la tortura di non poter avere contatto con la cosa vista. Il suo "abisso" è la forma più emozionale della profondità di campo, della scoperta d'una profondità in cui lo sguardo si inoltra attirato dalle cose. Ma la vertigine dell'abisso ricorre in modo così ossessivo da far pensare alla vertigine d'un desiderio: il desiderio di colmare il vuoto tra le superfici sensorie e una sostanza esterna che è come l'altro assoluto, l'altro in cui dissolversi, dentro un vortice che pare la soglia di un altro spazio, un ultraspazio, oltre quello della visione normale.

 

Baudelaire ha tradotto in francese gran parte delle opere di Poe, compreso quel trattato cosmologico, Eureka; e nei suoi scritti si sente un deposito di idee che vengono di lì, nonché da altri testi di Poe che riprendono l'idea d'un universo di materia-spirito. Inoltre si vede riapparire quello strano desiderio di fondersi con dei fenomeni, fino a intravedere un altro spazio: un ultraspazio che si presenta nella forma di un abisso e d'una vertigine. In una nota di Mon coeur mis à nu, Baudelaire scrive: "La musica ci dà l'idea del mare". E nei Fleurs du mal, in una poesia dedicata a Beethoven: "La musica spesso mi prende come un mare". Lo spazio aperto del mare e la musica avviano lo stesso moto di espansione illimitata del pensiero. Lo spazio del mare, come i suoni d'una musica, creano delle risonanze nell'individuo; per cui non si può più dire dove finisca il fenomeno esterno e dove inizi la risposta interna.

Una delle poesie più note di Baudelaire, Correspondences, parla di risonanze dell'ignota natura che arrivano all'uomo come echi d'un altro spazio. Il che fa pensare alle influenze infinite di tutto su tutto, discusse in Eureka, come influenze magnetiche a distanza. Ma poi c'è da pensare all'altro testo di Poe, che parla d'una acutizzazione della sensibilità in punto di morte, con cui diversi sensi si coagulano in un'unica percezione: "inestricabilmente confusi, in un unico sentimento anormale e intenso". È il fenomeno della sinestesia, che avrà un'importanza decisiva nella poesia moderna. Ed è il fenomeno di sensazioni multiple aggregate, che troviamo in quella poesia di Baudelaire:

 

La natura è un tempio dove vive colonne,
lasciano uscire a volte confuse parole [...]
come lunghi echi che di lontano si confondono
in una tenebrosa e profonda unità,
vasta come la notte e come il chiarore,
i profumi, i colori, i suoni si rispondono.

 

La natura non è un'immagine definita e trasparente; è uno sfondo di fenomeni incontornabili, dove c'è qualcosa però che risponde dallo spazio; echi che producono la percezione anomala della sinestesia: profumi, colori e suoni raccolti in un'unica sensazione. Si direbbe che il ruolo del poeta o artista non sia più quello del creatore, ma quello del ricettore: ricettore non solo di stimoli sensoriali, ma d'un linguaggio della natura che è la chiave di quegli stimoli. L'ultraspazio da cui giungono quegli echi non è discontinuo rispetto alla soggettività, ma ne è una sua continuazione, col tramite delle risonanze di onde sonore o altre onde che arrivano ai sensi.

 

Una delle pietre miliari nella storia della passione per lo spazio è l'inizio di Moby Dick. Qui Melville parte dal desiderio umano di espandere lo sguardo sul mare, come un bisogno di spazi verso cui lanciare l'immaginazione. Cito un brano dalla prima pagina:

 

Eccovi dunque l'insulare città dei Manhattesi, tutta cinta dalle banchine [...]: a destra o manca le strade portano verso l'acqua. La punta estrema della città è la Battery: quella nobile mole è bagnata da onde e rinfrescata dalle brezze [...]. Guardate lì le folle dei contemplatori dell'acqua. Camminate ai margini della città in un sognante pomeriggio domenicale [...]. Che cosa vedete? Piazzati come sentinelle silenziose tutt'intorno all'abitato, stanno migliaia e migliaia di mortali impietrati in sogni oceanici. Alcuni appoggiati ai pali, altri seduti sulle testate dei moli: questi spingono lo sguardo oltre le murate di navi che vengono dalla Cina, quelli aguzzano gli occhi verso l'alto, nelle attrezzature, come cercassero di spaziare ancora meglio sul mare. Ma sono tutti gente di terra, uomini rinserrati nei giorni feriali tra cannicci e intonachi, legati ai banchi, inchiodati agli scanni, ribaditi alle scrivanie. Che significa allora? [...] Che fa qui tutta questa gente?

 

Melville universalizza il bisogno immaginativo espresso dallo sguardo che spazia verso l'illimitato. Quella è fantasticazione suprema; perché? Perché è la ricerca d'un aldilà del nudo esistere. La contemplazione dell'orizzonte marino si contrappone alla vita inchiodata a scanni o scrivanie, negli spazi chiusi di lavoro, nel nudo esistere dell'utilitarismo. Ma parlando dell'attrazione universale per il mare aperto, poco dopo viene fatto l'esempio di Narciso: Narciso è attratto dall'immagine abbagliante nell'acqua e annega nel tentativo di congiungersi con lei. Quella, dice l'autore, "è l'immagine del fantasma inafferrabile della vita": come se l'acqua o l'orizzonte marino fossero lo specchio di desideri profondi che non possono corrispondere a nessun oggetto reale. Dunque l'unica verità possibile emergerebbe quando, seguendo i desideri, si resta travolti dagli elementi, dalle potenze dello spazio esterno, come il capitano Achab è travolto dalla balena bianca alla fine del libro.

Dopo aver letto questo apologo, viene da pensare che quel rigurgito di pensieri e sentimenti che l'uomo porta nel chiuso della sua interiorità non sia altro che un'attrazione spasmodica verso l'esterno, un desiderio di spazi aperti che non ha limite, e in ciò consista "il fantasma inafferrabile della vita". Ma in Melville questo non ha l'aria d'una visione tragica, col senso della delusione di non poter acchiappare l'oggetto del desiderio. All'origine di tutto c'è il movimento immaginativo dello sguardo che spazia verso l'orizzonte, e oltre l'orizzonte verso l'illimitato; ma già quello sguardo si è lasciato alle spalle una fissazione su oggetti reali; dunque non può esserci l'attesa d'una convergenza tra il desiderio e qualcosa di concreto che lo soddisfi. L'esempio di Narciso annuncia quell'impossibile convergenza tra il desiderio e il suo oggetto; ma annuncia anche una immaginazione che ha coscienza d'essere un appetito fantastico che non può trovare compensazioni concrete, e perciò è destinato a dissolversi nell'infinito.

Nel capitolo XXIII si legge: "[...] ogni pensiero profondo e serio è uno sforzo coraggioso dell'anima per tenersi la libertà aperta del suo mare, mentre i venti dal cielo e dalla terra cospirano per gettarla sulla costa insidiosa e servile. Ma la verità più alta, indicibile come Dio, è soltanto nell'assenza di terra: e allora è meglio subissarsi in quell'infinito [...]". Neanche questo "subissarsi nell'infinito" ha niente di tragico, ed è piuttosto il punto terminale del desiderio di spazi aperti. In Moby Dick Melville traduce lo spazio aperto in una mappa di rotte: rotte delle navi, rotte delle balene, rotte delle tempeste, rotte dei venti e delle correnti. Queste rotte a volte si incrociano, a volte no, ma sono come un vasto sistema inerziale. Ogni essere e ogni fenomeno segue le proprie rotte migratorie, come se fossero la direzione del suo desiderio, dentro ad una incondizionata immanenza.

Il mare fornisce l'immagine d'una apertura primordiale dello spazio, ma anche d'una profondità insondabile dei processi naturali che riempiono lo spazio. Quella profondità è insondabile perché è indicibile come Dio, perché corrisponde ad una assenza del divino. Melville chiama Dio il divino inerte, The Divine Inert, il divino assente, oppure la divina inerzia. In quanto assente, inerte, è un'alterità a cui ci si avvicina man mano che si aderisce all'inerzia e al silenzio delle cose, ed è questo che vuol dire "subissarsi nell'infinito". Questa è la cura suprema, il canto d'una sfera di vita senza più valori, dove non hanno più senso i valori sociali che separano gli uomini per classi, razze, religioni.

Sull'aperto mare, dice Melville, si fa rotta verso una "dignità democratica che si irradia su tutta la ciurma di Dio". Questa democrazia creaturale non si richiama a nessuna dottrina religiosa, neanche alla dottrina dell'eguaglianza naturale di tutti gli uomini, ed ha solo un sostegno: l'esposizione ai grandi spazi nell'incondizionata vicenda dei fenomeni, come una via dello spirito. È un cammino all'aperto che sarà quello di altri vaganti come Melville, appassionati dello spazio, portatori di nuove visioni d'immanenza, da Rimbaud, a Nietzsche, a Dino Campana,...

 

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