Rivista "IBC" XI, 2003, 2
musei e beni culturali / progetti e realizzazioni
"Che cosa c'entra con Rimini?" ci si chiedeva il 29 settembre 2002 nella giornata sul futuro del Museo "Dinz Rialto", in procinto di trasferirsi dalla storica sede del Castello Malatestiano a Villa Alvarado. Finora quella giornata è stata l'unico esempio, in Italia, di una discussione trasparente, aperta alla città, sulla direzione da prendere nelle ristrutturazioni che interessano i musei italiani di "antropologia" e/o di arte "altra". E per quanto molti addetti ai lavori sentano il bisogno di confrontarsi su questi temi, spesso i responsabili delle politiche culturali delle città e dello Stato continuano ad agire per forza d'inerzia, senza rendersi conto che una pausa di riflessione oggi può evitare un disastro domani, perché, per fare un museo in grado di camminare per il mondo, più che i quattrini e i progetti degli architetti, che pure sono indispensabili, serve sapere esattamente che cosa si vuole fare e dove si vuole andare.
Ma, purtroppo, chi ha il potere di prendere le decisioni che contano non si rende conto che la costruzione di un museo, per dirla con Braudel, non si colloca sul piano dell'histoire événementielle, ma su quello dei tempi medi e lunghi delle trasformazioni culturali e antropologiche. Soprattutto ignora che la scelta di un indirizzo museografico è per molti versi irreversibile, che per decenni lega le mani a una città o allo Stato. Per altro la storia culturale dell'Italia è lì a dimostrare quali risultati devastanti nascono dalle scelte e dalle non scelte fatte nel passato: si pensi, ad esempio, ai finanziamenti a pioggia a improbabili musei demologici o alla cancellazione operata dallo Stato delle collezioni etnoantropologiche di Firenze e di Torino, "da sempre" parcheggiate nelle università. Purtroppo, insegna Popper, la storia non è mai magistra vitae, soprattutto quando non si avverte nemmeno il problema di una ristrutturazione generale che, tagliando privilegi corporativi e inaccettabili rendite di posizione, faccia entrare in Europa anche i musei dell'"altro". Perché ormai il rischio è proprio questo: quello di avere musei sulle culture extraeuropee che sono extraeuropei per i loro standard disastrosi più che per la natura delle loro collezioni.
Si dirà che è una battuta. Sì, è certamente una battuta, ma è una battuta per difetto e non per eccesso, perché quello che sfugge è che il degrado del settore ci pone già ora lontano anni luce dal livello, ad esempio, del nuovo Museo di Sipán (Perù) e di tutti i musei messicani di una certa importanza. Ma come sappiamo la fortuna dell'Italia è la ricchezza della società civile, che in alcune situazioni locali, pur senza rovesciare il quadro di fondo, riesce a tenerci aggrappati all'Europa per il rotto della cuffia. Da questo punto di vista la partecipazione alla giornata di Rimini di Stéphane Martin, il direttore del futuro Musée du Quai Branly di Parigi, non è stata una passerella o un omaggio rituale a una delle esperienze più significative delle trasformazioni in corso ma una scelta di campo ben precisa: il rifiuto di ogni tendenza autarchica e provinciale, la consapevolezza che se non si guarda al di là delle Alpi, nel campo delle collezioni etnoantropologiche non si va da nessuna parte.
Con la discussione aperta dalla giornata del 29 settembre 2002 Rimini dunque si è fermata, ha cominciato a guardare al di là delle Alpi. E a riflettere. Il 18 febbraio 2003, sotto la presidenza di Marc Augé, si è riunito il comitato ordinatore del nuovo "Dinz Rialto". Il compito principale del comitato è proprio quello di definire le linee museografiche che caratterizzeranno gli allestimenti e le attività del museo riminese. Nel panorama generale dei musei etnoantropologici europei tre strade si aprono per il "Dinz Rialto".
a) La strada dei musei di demologia, che in Italia hanno un forte peso ma che nulla hanno a che fare con l'antropologia e le culture "altre".
b) La strada dei musei caratterizzati dall'accettazione totale e senza riserve della dignità museale e scientifica di tutti gli oggetti di tutte le culture, dai capolavori dei mondi "altri" agli oggetti d'uso quotidiano delle nostre case (battipanni, lavatrici, macchine da scrivere, fustini di detersivo, ecc.).
c) La strada dei musei sulle culture "altre" che nei diversi paesi hanno le denominazioni più varie (Museo di antropologia o di etnologia, Museum für Völkerkunde e Museum der Kulturen o che, a volte, portano il nome del fondatore o di un toponimo o in ogni caso una denominazione che non si riferisce affatto al contenuto).
Considerando che le prime due opzioni sembrano un poco estranee alla storia e alle collezioni del "Dinz Rialto", non resta che la terza via. Ma a questo punto per il "Dinz Rialto" si apre un nuovo bivio: con chi stare? Col "partito dell'arte" o col "partito dell'etnografia"? Alla luce delle più recenti dichiarazioni dei protagonisti dello scontro che oppone gli uni agli altri, sembra che il partito dell'arte sia rimasto senza seguaci. Jean Paul Barbier, sottolineando l'importanza dell'etnologia nella comprensione dei reperti "altri", ha negato in una recente intervista, forse sorridendo interiormente, di militare nel "partito dell'arte". Per altro lo stesso Stéphane Martin, a Rimini, è sembrato circoscrivere l'importanza del Pavillons des Sessions, annunciando che il Quai Branly sarà un'altra cosa.
Al di là delle dichiarazioni gli allestimenti sono lì a dimostrare che i due partiti esistono e propongono strade che, percorse unilateralmente, portano a esiti contrapposti. Ma in questo caso sarà proprio necessario schierarsi? Potrà cercare il "Dinz Rialto" una soluzione che non abbia i limiti del compromesso ma la forza di una soluzione nuova? Questi sono i primissimi nodi che dovranno sciogliere il comitato ordinatore, i responsabili dei musei riminesi, la città nel suo complesso. Personalmente mi auguro che queste scelte non nascano da riflessioni ideologiche, ma siano saldamente ancorate all'irriducibile centralità che gli oggetti non possono non avere in un museo, perché la realtà dei musei dimostra chiaramente che gli oggetti possono andare da una parte e le teorie dall'altra. Inoltre chi opera nei musei e chi fa mostre sa bene che non si espongono ideologie e teorie, per quanto fascinose, e che spesso può verificarsi uno scarto drammatico tra le teorie accattivanti e gli oggetti che le esemplificano.
Essendo stato l'unico a informare in diretta di quanto stava avvenendo in Europa e uno dei primi a proporre alcune riflessioni su queste tematiche, ho fin da subito notato che se tutti, acquisiti alcuni dati di base, per altro in modo molto sommario, sono stati molto lesti a saltare sul carro del dibattito ideologico, solo pochissimi hanno cercato di capire su quali gambe (abilità, standard e pratiche consolidate) avevano camminato o stavano camminando i vari progetti. Tuttavia, guardare al di là delle Alpi non è solo una questione di informazioni, per altro indispensabili, ma anche una questione appunto di abilità, standard e pratiche, nella sostanza di un patrimonio acquisito e consolidato che privilegia il durevole sull'effimero, la sostanza sull'apparenza.
Ma la storia del "Dinz Rialto", la sua trasformazione da museo d'arte a museo delle culture, l'acquisizione della collezione "Canepa" e la risoluzione dei problemi che questa raccolta si portava dietro fanno pensare che a Rimini sia possibile coniugare il progetto museografico che verrà scelto con gli irrinunciabili livelli europei. Rimini non è una grande metropoli, ma il futuro del "Dinz Rialto" non è un fatto di interesse locale, sia per l'importanza delle sue collezioni, soprattutto quelle americaniste, sia perché di fronte ai tanti musei italiani di livello extraeuropeo può essere utile far vedere concretamente quali risultati si ottengono con idee buone, procedure corrette e mezzi che, purtroppo, saranno sempre limitati. Questa in fondo è la lezione del collezionismo etnoantropologico dell'Emilia-Romagna, degli Aldrovandi, degli Strobel, degli Spagni, dei Palagi e di tutti coloro che guardando oltre gli angusti limiti del provincialismo del loro tempo, che allora si chiamava etnocentrismo, hanno lasciato nei musei della regione un patrimonio impensabile per città da sempre ai margini delle rotte che portavano in Europa i tesori dei paesi "pellegrini".
Azioni sul documento