Rivista "IBC" XI, 2003, 1

musei e beni culturali / mostre e rassegne, itinerari

Lo chiamarono "il Parmigianino" e fu uno dei maestri del Manierismo europeo: a cinquecento anni dalla nascita, Parma e i comuni della sua provincia celebrano l'opera e l'epoca di Francesco Mazzola.
Le metamorfosi di un pittore

Elisabetta Landi
[IBC]

È in corso a Parma e nella sua provincia la serie delle manifestazioni in onore del V centenario della nascita di Francesco Mazzola detto il Parmigianino (Parma, 1503 - Casalmaggiore, 1540), tra i fondatori del Manierismo europeo e certamente il protagonista assoluto di quella cultura figurativa nell'Emilia padana. Per celebrare questa ricorrenza si sono mobilitati, accanto al Comitato promotore e al Ministero per i beni e le attività culturali, la Soprintendenza per il patrimonio storico artistico e demoetnoantropologico di Parma e Piacenza, la Regione, la Provincia e i Comuni di Parma e Fontanellato che hanno collaborato con il Kunsthistorisches Museum di Vienna, dove dall'1 giugno al 14 settembre 2003 sarà allestita la mostra aperta alla Pilotta dall'8 febbraio al 15 maggio.

Sono una cinquantina i dipinti presentati dall'esposizione parmense e ottanta i disegni: capolavori concessi in prestito dai principali musei del mondo per ripercorrere, per la prima volta, la rassegna antologica dell'artista: dalla formazione all'opera matura, fino alla sua eredità, raccolta dalla grande pittura europea. Sette le sezioni del percorso espositivo: L'opera grafica e pittorica del Parmigianino, Il Manierismo tosco-romano, Il Manierismo veneto, La Wunderkammer, La scuola di Parma del XVI secolo, Il Manierismo in Francia nel XVI secolo e Il Manierismo nordico e tedesco nel XVI secolo. Una panoramica completa, quindi, sull'arte e la cultura del Cinquecento e un'opportunità per rivisitare e comprendere con migliore chiarezza i luoghi di Parma legati alla biografia del Mazzola: dalla chiesa della Steccata a San Giovanni Evangelista, dalla Galleria nazionale alla nuova Pinacoteca Stuard, senza dimenticare gli episodi fondamentali per la formazione del suo immaginario d'artista: primo fra tutti il ciclo degli affreschi correggeschi della camera di San Paolo.

Ma non è tutto. Nell'ambito delle iniziative, inaugurate a Parma nel giugno scorso da un convegno internazionale di studi, figura anche l'itinerario "Le arti e le corti. Percorsi inediti alla scoperta del Rinascimento nel territorio della provincia di Parma". Promosso dalla Provincia, dalla Regione e dall'Istituto regionale per i beni culturali (IBC) in collaborazione con le Soprintendenze per il patrimonio storico e artistico di Parma e per i beni architettonici e ambientali dell'Emilia-Romagna, il programma comprende i luoghi più suggestivi della cultura di corte padana, narrata in dodici tappe come in un racconto illustrato. Grazie all'adesione dei diversi comuni è così possibile ammirare i patrimoni d'arte e di storia racchiusi nei castelli e nelle antiche residenze, riaperte al pubblico in molti casi al termine di restauri, e presentate con esposizioni aperte da febbraio al prossimo settembre per questo importante anniversario.

Punto di partenza la Rocca di Fontanellato, feudo di Giangaleazzo Sanvitale e Paola Gonzaga, con la mostra "Il Parmigianino alla corte dei Sanvitale". Ammirati gli affreschi della celebre saletta di Diana e Atteone (1524) - recuperati per cura dell'IBC con l'intervento dell'Opificio delle pietre dure - è poi la volta della Villa Pallavicino di Busseto, teatro dello storico incontro tra Paolo III Farnese e Carlo V d'Asburgo e perciò sede di una rassegna intitolata "Il cerimoniale di corte". Il Palazzo di Zibello e la Rocca di San Secondo documentano rispettivamente "La tradizione del laterizio decorativo" e "La guerra e le gesta dei signori", mentre Roccabianca narra gli amori di Pier Maria Rossi e Bianca Pellegrini attraverso gli affreschi dedicati ai temi dell'"Astrologia, cosmologia e alchimia", intriganti e importantissimi per il Cinquecento padano. "Un artista a corte: Nicolò dell'Abate", è il protagonista della mostra allestita nella sfarzosa Rocca di Soragna, oggetto di restauri promossi dall'IBC, che si è pure occupato di interventi nel castello di Montechiarugolo, luogo privilegiato delle arti e cornice ad un'esposizione dedicata a "La cultura umanistica in età rinascimentale". Alla Reggia di Colorno spetta quindi rievocare la corte di "Barbara Sanseverino e l'universo femminile del Rinascimento"; seguono Sala Baganza, con "Il Ritratto del signore del Rinascimento", Varano Melegari ("Le terre dei Pallavicino") e i castelli di Torrechiara ("La residenza del signore in età rinascimentale") e di Bardi ("Il giovane Parmigianino"), tra gli esempi più rilevanti dell'architettura italiana fortificata. Un viaggio nella cultura del Cinquecento, insomma, dall'Umanesimo alla Maniera, all'interno di quegli ideali, rappresentati tutti insieme nella rassegna irripetibile di tanti capolavori, che attraversano l'intera biografia del Parmigianino. Una vita breve e tormentata, durata appena trentasette anni, ma straordinariamente moderna e di un'attualità che si intuisce, con una punta di imbarazzo, persino nelle fonti più antiche.

Nato a Parma nel 1503 da una famiglia di artisti - Filippo, il padre, come pure gli zii Pier Ilario e Michele Mazzola - Francesco venne avviato alla pittura in giovane età ma non fece in tempo a giovarsi del modello figurativo, superato, che poteva apprendere tra le mura domestiche, perché da subito fu colpito dalla novità delle opere del Correggio, suo vero riferimento nella città natale: gli affreschi della camera della badessa, prima di tutto, fonte di ispirazione per Fontanellato, e il complesso decorativo di San Giovanni Evangelista, dove venne impegnato a decorare i sottarchi delle cappelle laterali (1522), lavorando così a contatto diretto col più anziano maestro. A contatto ma non senza un intento competitivo che, da giovane ambizioso qual'era, non mancò di esprimere negli abili sottinsù dei finti nicchioni dai quali sporgono figure di santi. Voglia di misurarsi con il virtuosismo illusionistico dell'Allegri, certo - passando per l'eccentricità manierista del Pordenone - ma non di meno desiderio di sperimentazione e di apertura verso il nuovo linguaggio figurativo del quale era sintesi il cantiere di San Giovanni.

Sono questi gli anni nei quali il Mazzola, ventenne, approda a uno stile felicemente personale, avviandosi a diventare quel pittore "nell'arte raro, come lo fu Raffaello" celebrato dalle fonti: dall'abilità della composizione alla preziosità dei panneggi frastagliati, fino a quel tipico allungarsi delle figure che ne distinguerà tutta la produzione. Un fare debitore al Correggio e all'Anselmi, come si legge nella pala giovanile ora a Bardi, in realtà dipinta per Viadana (1521-1522), tra i primi suoi capolavori. La ricerca di eleganza, l'aristocrazia del gesto, la raffinatezza, la bellezza perseguita come valore assoluto, ossessivo, gli assicurarono nel 1523 la committenza dei Sanvitale per la decorazione della "stufa" - come si chiamavano nel Cinquecento le stanze da bagno - a ridosso della torre quadrata della rocca di Fontanellato. Di scena, nel ciclo celeberrimo degli affreschi, la favola mitologica di Diana sorpresa da Atteone, ispirata alle Metamorfosi di Ovidio.

La simbologia del tema ovidiano, suggerito dai committenti che animavano una delle corti intellettualmente più evolute dell'area padana, lascia spazio a interpretazioni non concordi sulle quali si confrontano gli studiosi: dall'ipotesi più recente di un'allusione alla biografia di Paola Gonzaga, ritratta con le spighe di Demetra nella lunetta opposta a quella in cui compare Diana, alla più accreditata metafora della fusione alchemica tra i due principii, maschile e femminile, indicati in Atteone/sole opposto a Diana /luna, fino a quel processo di rinascita spirituale, personale prima che chimica, che è poi il fine autentico dell'alchimia, nella quale Parmigianino, da esoterista al pari di molti intellettuali della sua epoca, consumò non poche energie.

Non c'è dubbio che, pur dispiegando un'incantata felicità di narratore, l'artista non trascurasse qui come altrove la tradizione ermetica del Cinquecento e il riferimento a verità interiori, indicate in maniera coperta. Il tema dello specchio come luogo del doppio, per esempio, al centro della volta della "stufa" e ancora protagonista nel formidabile Autoritratto del Kunsthistorisches Museum di Vienna. "E perché Francesco era di bellissima aria e aveva il volto e l'aspetto grazioso molto, e piuttosto d'angelo che d'uomo, pareva la sua effigie in quella palla una cosa divina". Così il Vasari nelle sue Vite commentava il dipinto, eseguito da Parmigianino come dono per Clemente VII prima della partenza per la Capitale (1524). Una sfida intellettualistica all'anamorfismo deformante dello specchio da parte del giovane pittore, consapevole del suo fascino e deciso ad avvalersene presso i committenti.

Ma il sogno della bellezza doveva durare poco: a Roma, dove avrebbe conosciuto Rosso Fiorentino e Giulio Romano, le tragiche vicende del sacco (1527) segnavano l'inizio di una fase tormentata e l'insorgere di nuove inquietudini, aggravate, per Francesco come per la generazione postraffaellesca, dalla fine dell'utopia politico-religiosa del Rinascimento. Fuggito a Bologna, quasi un "pittore maledetto" e dalla sensibilità sorprendentemente moderna, Parmigianino inclina ad una più marcata ricerca di espressione e deformazione. Lo si scorge nel fluire serpentinato della linea nella pala con la Madonna di Santa Margherita della Pinacoteca nazionale di Bologna (1529) - ispirata, ma con altro sentire, alla Madonna di San Gerolamo del Correggio -, nel gorgo dei panneggi della Madonna della Rosa (Dresda, Gemäldegalerie, 1529) o nel pietismo recitato del San Rocco in San Petronio (1531).

Il rientro a Parma nel 1531, con l'incarico per la decorazione di Santa Maria della Steccata (1531-1540), sembra accelerare il precoce degrado psichico dell'artista. Complice l'alchimia? È possibile, stando alle fonti. "Perché stillandosi il cervello perdeva tutto il giorno in tramenare carboni, legne, bocce di vetro e altre simili bazzicature, che gli facevano spendere più in un giorno, che non guadagnava a lavorare una settimana alla Steccata", dove "andava di male gambe". Così "si condusse a pessimo disordine della vita, et dell'honore, et di molto gratioso che egli era, divenne bizzarrissimo, con la barba e chiome lunghe e malconce, quasi un uomo selvatico e un altro da quello che era stato" (Vasari). Basterebbe il confronto tra l'Autoritratto allo specchio e il tardo Autoritratto della Galleria nazionale di Parma a documentare questo cambiamento.

Un mutamento che non gli impedì, in ogni caso, di produrre in questa fase della vita capolavori assoluti, opere celeberrime come Amore che fabbrica l'arco (Vienna, Kunsthistorisches Museum, 1534), Antea (Napoli, Capodimonte, 1535) o la Madonna dal collo lungo (Firenze, Uffizi, 1537), momento di massima astrazione formale, di una perfezione aristocratica e di una tensione emotiva da paragonarsi a quelle delle Vergini sagge e delle Vergini stolte del programma iconografico della Steccata. Un'impresa monumentale, visitabile per la durata della mostra grazie ad appositi ponteggi, concepita dal maestro come un organismo decorativo a lacunari e rosoni dorati, su fondo blu e rosso, lungo la fascia del sottarco da dove il pittore avviò i lavori, in autonomia rispetto a quanto deciso dai committenti. Evocati i quattro elementi, l'acqua con le conchiglie e i granchi, l'aria con le colombe, la terra con le teste d'ariete, il fuoco con i vasi del fregio, Parmigianino dispiega qui uno dei più straordinari cicli della decorazione del Cinquecento per celebrare la verginità di Maria e alludere, su prescrizione dei fabbricieri, al dibattito allora in corso tra la chiesa e la sinagoga.

Ma questo capolavoro non portò fortuna al suo autore, che avrebbe dovuto concluderne il cantiere in diciotto mesi e che invece lo protrasse per quasi dieci anni, tanto da subire una richiesta di carcerazione da parte dei confratelli, che affidarono in seguito i lavori a Michelangelo Anselmi (1540). Oltre ai continui ritardi giocò un ruolo determinante in questa decisione la dedizione all'alchimia, scienza magica tanto più sospetta ai tempi dell'Inquisizione, e il comportamento bizzarro di Francesco, che riparò a Casalmaggiore. Qui lasciò la splendida pala di Santo Stefano ora a Dresda (Madonna col Bambino e i Santi Stefano e Giovanni Battista) prima di essere "assalito da una febbre grave e da un flusso crudele, che lo fecero in pochi giorni passare a miglior vita. Volle essere sepolto nella chiesa dè frati dè Servi" (Vasari). Finiva così l'avventura inquieta e tormentata di questo grande della pittura, la cui sepoltura, "nudo, con una croce d'arcipresso sul petto in alto", fu forse l'estrema espressione della sublimazione alchemica perseguita in vita.

 

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