Rivista "IBC" X, 2002, 2
media, pubblicazioni
È possibile comunicare la guerra? Bisogna comunicarla? In che orari? Va vista con i genitori o senza? Ha il bollino giallo, la guerra? E allora perché i bambini afghani possono vederla in diretta?
Sulla "neoguerra" si è detto molto; oggi quello che non si riesce a capire è non tanto se sia finita, ma dove sia finita. Nessuno ce ne parla più. Eppure il suo aspetto più notevole è proprio la comunicazione: la neoguerra è fatta per essere comunicata, il suo stesso successo può dipendere dalle sue strategie verso il pubblico - ricordiamo i fatidici minuti tra un aereo e l'altro, l'11 settembre. Per questo i giornalisti sul campo sono sempre meno al sicuro, qualora le loro inchieste non si limitino alle zone predisposte per loro. Perché dobbiamo sapere solo ciò che qualche neocensore (chi?), lontano lontano (dove?) ha deciso che dobbiamo sapere (come?). E finiamo con l'essere così informati che non vogliamo più sapere niente: blackout informativo per eccesso.
E comunicare la pace, si può? Non bisognerebbe soltanto farla? Le due cose si escludono a vicenda? Se la fai non lo dici? Guarda caso, invece, le grandi figure degli operatori di pace erano anche grandi figure di comunicatori: da Luther King a Gandhi, a Paolo VI, allo stesso San Francesco. Attraverso marce, digiuni, discorsi, presepi, costruire un'idea di pace, di libertà, ha sempre significato avere la capacità di smuovere le coscienze, e come si fa a smuoverle? Attraverso la comunicazione.
Il mensile "I Martedì" apre l'anno con l'usuale quaderno monografico, ma stavolta in due volumi. Per approfondire un tema complesso come la comunicazione della guerra e della pace mobilita accademici, giornalisti, psicologi. Il titolo è "Guerra o pace": conviene leggere, non per decidere da che parte schierarsi - è ovvio - ma per capire se e come, in futuro, sarà possibile farlo.
"I Martedì", 26, 2002, 1-2.
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