Rivista "IBC" X, 2002, 2

territorio e beni architettonici-ambientali / storie e personaggi

Il grande patrimonio ospitaliero di beni culturali dell'Emilia-Romagna si trova spesso raccolto all'interno di strutture architettoniche dalla tipologia a croce greca: ecco quali sono le origini e le funzioni di questo modello e come si è sviluppato tra il Medioevo e il Rinascimento.
La "pietas" dell'architetto

Francesco Menchetti
[specializzando in storia dell'arte moderna presso la Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Bologna]

A Bologna la tradizione di ospitalità e di accoglienza offerta ai visitatori, ai pellegrini e agli ammalati è secolare e ha contribuito a conferire alla città il noto epiteto di "Bologna dotta e grassa", un riconoscimento che fino all'Ottocento si trovava rappresentato nell'orologio di piazza, dove campeggiavano in bassorilievo le figure di Pomona e Pallade, simboli di una natura rigogliosa e della luce dell'intelligenza. Tra i bolognesi che passarono alla storia per la generosità e l'ospitalità ricordiamo Giovanni Poggi, il quale per la fastosa accoglienza che riservava ai propri convitati nel suo palazzo di via Zamboni, attuale sede del Rettorato, si meritò l'attributo di fons hospitalitatis et pater elegantiarum, come ricorda Achille Bocchi nelle sue Symbolicae Quaestiones pubblicate nel 1555.

All'attenzione, la cura, la protezione dei bisognosi e dei malati negli ospitalia, così come spesso li troviamo citati nei registri delle confraternite che li gestivano, fece seguito un'evoluzione lenta e difficoltosa di questi edifici, che procedette spesso separata dalle scoperte scientifiche successive di Lavoisier nell'epoca dei Lumi. Il capoluogo emiliano, descritto da Pierluigi Cervellati come la "città dei conventi", offre un esempio rimarchevole di patrimonio ospitaliero con i suoi luoghi di accoglienza: chiostri e aule a navata unica sorti in primis nel medioevo per accogliere gli allievi dello Studio e per offrire come segno della pietas cittadina un rifugio ai poveri. Un esempio significativo è il dormitorio di San Michele in Bosco che, lungo oltre centosessanta metri, è l'edificio più lungo di Bologna. I complessi monastici diedero impulso all'espansione della città finendo poi per far parte integrante del nuovo tessuto urbano.

Una delle prime confraternite, i cosiddetti Disciplinati o Battuti provenienti da Imola, diede inizio intorno al 1260 ad una attività di sostegno ai bisognosi in un piccolo ospedale annesso alla chiesa di Santa Maria presso la Parrocchia di San Vito, oggi conosciuta come Santa Maria della Vita e sede del Museo della sanità e dell'assistenza. I Templari, che tra XI e XIV secolo avevano a Bologna una loro chiesa, assolvevano il compito di ospitare i pellegrini diretti in Terra Santa, in obbedienza alle regole dettate da San Bernardo. In via Torleone esiste ancora una piccola chiesa di proprietà della parrocchia di Santa Caterina, in cui i cavalieri svolgevano i loro misteriosi riti e fornivano ospitalità ai forestieri, prima che venissero perseguitati da Filippo IV detto il Bello con l'appoggio del papa Clemente V.

Durante i secoli bui della farmacopea - quando i rimedi erano le erbe medicinali, i consigli alimentari dei frati o gli interventi truculenti dei cerusici (come si può vedere nei dipinti di Peter Brueghel il Vecchio) - spesso era la preghiera l'unica speranza di guarigione. Nei secoli XV-XVI la trasformazione architettonica dei conventi a Bologna fu causata da un lato dalla grande affluenza degli studenti, dall'altro dall'adeguamento architettonico degli spazi dei bisognosi operato dalle confraternite. Nel 1463 la maggiore confraternita ospedaliera cittadina, la Compagnia dei Devoti di Santa Maria della Vita, commissionò a Niccolò dell'Arca un gruppo di statue in terracotta, un compianto del Cristo morto, che rappresenta con struggente realismo la sofferenza dell'animo. L'espressione di San Giovanni è quella di un dolore racchiuso, trattenuto, celato da una mano pronta a raccogliere le lacrime: rappresenta la sensibilità dell'uomo moderno difronte alla inesplicabilità dal significato della vita e del mistero della morte. Nel XV secolo, sotto gli stessi auspici, si creò a Parma una congregazione di persone chiamata Venerabile Consorzio dei Vivi e dei Morti con sede in via del Consorzio.

Il grande patrimonio ospitaliero di beni artistici, monumentali e archivistici dell'Emilia-Romagna si trova spesso raccolto all'interno di strutture architettoniche dalla tipologia a croce greca che troviamo ad esempio a Parma, a Piacenza e a Reggio Emilia. Ogni ammalato, disposto lungo i bracci della sala a croce, dal proprio letto poteva pregare guardando l'altare maggiore posto all'incrocio delle navate e riporre il proprio destino nelle mani dell'Onnipotente. Sull'esempio del modello architettonico pensato per primo dal Filarete alla Ca' Granda di Milano, la forma a croce, alla quale si attribuiva un significato spirituale, diveniva centrale anche per la progettazione degli ospedali.

I trattati di architettura diffusi durante l'Umanesimo e il Rinascimento diedero impulso al dibattito sugli xenia, spazi per gli ospiti previsti nella domus greca. Con la ripresa dei modelli classici vitruviani i trattatisti e gli architetti iniziarono a riflettere sulla funzione degli ospedali e degli spazi pubblici nel contesto di un tracciato urbano organizzato secondo i nuovi sistemi difensivi. All'interno del circuito delle mura oltre alla cittadella, nella quale il signore si poteva ritirare in caso di pericolo, gli architetti progettarono anche i servizi indispensabili alla vita della corte, non trascurando gli spazi per i bisognosi e gli ammalati. A Malta, caso abbastanza singolare, le funzioni militari e assistenziali si sono intrecciate: una "Polverista", fabbricato a croce greca per la produzione della polvere da sparo, disposto lungo il circuito delle mura di Valletta, è stato utilizzato in seguito come Casa di Carità e ospizio.

Gli ingegneri e gli architetti fra Quattrocento e Cinquecento si occupavano allo stesso tempo di costruzioni civili e militari e non è per nulla strano incontrare nei disegni di architetti come Francesco di Giorgio Martini progetti per fortificazioni e città ideali a fianco di proposte per conventi ed ospedali. Da Leon Battista Alberti a Fra Giocondo, da Cesare Cesariano fino a Daniele Barbaro, tutti i trattatisti che riscrissero e commentarono i dieci libri del De architectura di Vitruvio diedero importanza ai fabbricati di pubblica utilità destinati ai malati e ai bisognosi, chiamandoli ospitalia e mettendoli in relazione sia con i templi di Esculapio e di Apollo, sia con gli xenia greci o appartamenti per gli ospiti.

Da Francesco di Giorgio Martini in poi, gli autori di trattati di architettura, oltre a citare Vitruvio, si impegnarono nel disegnare moderni spazi per gli ammalati. Un disegno martiniano del codice Ashburnham conservato alla Biblioteca Laurenziana di Firenze, mostra un'infermaria per il convento attiguo alla chiesa di San Bernardino, mausoleo urbinate di Federico da Montefeltro. In prossimità della chiesa e del convento, distribuito attorno a due cortili, Martini colloca una foresteria per i visitatori di riguardo e un'infermaria disposta longitudinalmente. Quest'ultimo considerevole settore del fabbricato si affaccia sul cortile: è costituito da dodici camere quadrangolari disegnate simmetricamente, poste ai lati di un corridoio centrale che termina con due vani di servizio, uno per la "lavatione per lo corpo" e l'altro con tre destri. Nel suo trattato l'architetto senese dimostra di conoscere molto bene le esigenze degli ordini religiosi (conventuali, osservanti, certosini o eremitani che fossero): egli infatti sottolinea come tutti i conventi necessitavano di infermerie e "due o tre camare con destro, uno salotto e altro loco dove el corpo dopo la morte posare si debba" sopra una pietra.

Dopo Francesco di Giorgio, anche Antonio Averlino detto il Filarete, Baldassarre Peruzzi, e Giovanni Battista da Sangallo ripresero il modello conventuale già sperimentato in Toscana da Brunelleschi fra il 1419 e il 1426 con il progetto commissionato dall'Arte della Lana per l'Ospedale degli Innocenti. L'Alberti conosceva bene la tradizione ospedaliera toscana nata nel Trecento a Siena con Santa Maria della Scala e a Firenze con l'Ospedale di San Matteo, e per questo parla di "Toscana, terra di antichissime tradizioni di pietà religiosa, in cui sempre si distinse, si trovano splendide case di cura, approntate con spese ingentissime, dove qualsiasi cittadino o straniero trova qualunque cosa possa servire alla salute".

Il Filarete, con il progetto del 1456 per l'Ospedale Maggiore di Milano commissionato dal duca Francesco Sforza, segnò la base di partenza per la riforma ospedaliera del XV secolo: egli - ricorda il Filarete - "mi domandò s'io avevo veduto quello di Firenze o quello di Siena, e se mi ricordavo come stavano", e da quell'esempio progettò il nuovo ospedale. La croce greca, con i suoi cortili porticati ripresi dal modello conventuale, permetteva un facile collegamento e consentiva a un ridotto numero di persone il controllo dell'intero ospedale; da un punto di vista progettuale lo schema a croce permetteva diverse combinazioni, ad esempio poteva essere raddoppiato come avvenne nell'ospedale di Santa Maria Nuova di Firenze.

Baldassarre Peruzzi, allievo del Martini, nel secondo e terzo decennio del XVI secolo disegnò un convento (disegno "U 349 Ar" conservato al Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi) che presentava infermerie divise in estive e invernali. Queste ultime erano costituite da grandi saloni rettangolari distanti dal nucleo del convento, dislocati verso l'esterno del fabbricato secondo uno schema ad H che anticipa quelli che saranno gli sviluppi dell'ospedale a padiglioni che prese piede nel secolo dei Lumi. Peruzzi annotava che "la infermaria non la spostaria comoda e libera dal monasterio": probabilmente per agevolare la permanenza degli ospiti e rispettare la quiete della vita monastica.

Un esempio grafico chiaro di quello che poteva essere il palazzo greco con gli ospitalia si può vedere nei disegni con didascalie che Giovanni Battista da Sangallo, fratello del più noto Antonio il Giovane, lasciò tracciati sui margini e in carte interfoliate in una edizione sulpiciana del trattato vitruviano conservato nella biblioteca romana dell'Accademia dei Lincei. Nel disegno di Giovanni Battista si nota immediatamente la sproporzione tra l'abitazione degli uomini e quella delle donne, ambedue sistemate attorno ad un peristilio centrale. Gli appartamenti dei forestieri o ospitalia sono disposti a pettine, a destra e a sinistra di una sala centrale che si affaccia sul giardino e dà accesso alla libreria, alle esedre, alle "stufe over bagni" e al peristilio centrale dedicato agli uomini. La dislocazione degli ospitalia sul lato opposto rispetto all'ingresso principale del fabbricato, con le camere tutte regolari disposte a pettine lungo l'asse principale rappresentato dal corridoio, ricorda i progetti delle infermerie conventuali di Francesco di Giorgio Martini e di Baldassarre Peruzzi.

Gli studi e la pratica vitruviana, insieme alla interpretazione della domus greca, furono un indiscusso riferimento per gli architetti del Rinascimento che si dedicarono alla individuazione di una tipologia ospedaliera. Antonio da Sangallo il Giovane, come il fratello Giovanni Battista, condusse i suoi studi su varie edizioni del trattato di Vitruvio prima di iniziare nel 1514 la realizzazione del Palazzo Farnese a Roma, dove il richiamo alla domus vitruviana è esemplare.

In area emiliana tra i primi a considerare la questione degli ospedali in epoca rinascimentale fu il bolognese Francesco de Marchi (1504-1576), che per le sue vicissitudini quale architetto e cortigiano merita qualche considerazioni a parte. Prima nelle Fiandre e poi a Roma, De Marchi rimase per quarantadue anni al servizio di Margherita d'Austria, figlia di Carlo V e sorella di Don Juan d'Austria, Madama che ispirò il noto palazzo romano disegnato da Raffaello e che da lei prende il nome.

Il sogno di De Marchi fu quello di mettere in opera i propri progetti e pubblicare il trattato di architettura al quale si dedicò per lunghissimo tempo, ma gli eventi lo portarono ad essere apprezzato invece quale ottimo ballerino di corte e esperto maestro di equitazione di Ranuccio Farnese. Sembra che tra le sue realizzazioni vi fosse un cocchio da lui inventato e costruito in occasione delle sontuose feste allestite a Bruxelles nel 1565-66 per il matrimonio del figlio di Margherita, Alessandro Farnese, con Maria del Portogallo. De Marchi si distinse anche per alcune singolari imprese a metà tra lo sportivo e l'archeologico: si immerse con uno scafandro nel lago di Nemi per rinvenire imbarcazioni di epoca romana e scalò il Monte Corno sul Gran Sasso.

Di Francesco de Marchi si conserva una copia manoscritta del trattato di architettura alla Biblioteca universitaria di Bologna, copia eseguita nel Settecento dal sacerdote Francesco Calzoni. Questo trattato, dal titolo Della architettura militare, al quale si dedicò ininterrottamente dal 1542 fino alla morte, venne pubblicato solamente postumo a Brescia nel 1599. Quando l'autore descrive le buone qualità che un ingegnere dovrebbe possedere include la medicina tra gli attributi indispensabili, insieme alla "perizia nell'arte del misurare", nella prospettiva, nell'aritmetica, nonché alla conoscenza di "molte Historie", della filosofia, della musica e delle leggi. Nonostante la sua formazione autodidattica il De Marchi esamina argomenti che non sono parte integrante della trattatistica cinquentesca ed in aggiunta alla citazione vitruviana dei fondamenti teorici dell'architettura affronta la questione ospedaliera.

Nell'analisi delle tipologie civili che avrebbero ripartito l'area urbana l'autore appare sensibile al benessere dei cittadini, accennando all'esigenza di fornire l'assistenza sanitaria agli abitanti dei vari quartieri e sintetizzando il concetto in una frase: "Per il popolo gli hospidali". Inoltre De Marchi amplia il discorso e mentre descrive il suo progetto di una città-fortezza a pianta ettagona a schema radiale - insieme al palazzo reale, al "Tempio maggiore", al "palazzo dove aministrar si dovesse la Giustizia", alla zecca, alla dogana, alla salina, alla "Libraria, e scuole" - egli predispone complessivamente sette piazze, ciascuna con un "hospidale" con due medici, un "Fisicho", un chirurgo, uno speziale, un barbiere e due cappellani. Anticipando profeticamente l'attività delle attuali strutture sanitarie locali, questo trattatista delineava una rete di ospedali dislocati su tutta l'area cittadina e un sistema capillare di assistenza ai malati dotato di una equipe preparata, in grado di intervenire nelle situazioni di emergenza e negli interventi specialistici.

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