Rivista "IBC" X, 2002, 2
territorio e beni architettonici-ambientali / interventi
Mi è capitato di riflettere, nel momento in cui mi sono occupato della produzione a carattere etnografico più o meno recente, sull'origine dei grandi "contenitori" regionali, elevati spesso ad architravi indiscutibili dell'identità. All'analisi dettagliata, talvolta filologica, delle espressioni folkloriche, fa da contraltare, sovente, il dato della dimensione territoriale sovralocale, grande paniere capace di raccogliere le singole testimonianze, di fonderle e di accordare ad esse un decisivo sovrappiù di significato. Questa operazione, che nel caso di alcuni (pochi) regionalismi "storici" effettivamente sembra legittima in forza di un plurisecolare isolamento (e qui basti citare la Sardegna),1 mi è parsa, in molti altri contesti italiani, decisamente forzata, e frutto di una costruzione culturale più recente di quanto si possa immaginare.
L'esempio della Romagna è assai istruttivo. Al di là delle stereotipie medievali, restituite con grande vivacità e dovizia di dettagli da Piero Camporesi - quelle, per intenderci, del romagnolo violento, circondato da un alone sulfureo e seguito da una scia di sangue -,2 fu in effetti solo all'inizio del XIX secolo che prese corpo una corrente di studi, irrobustitasi nei decenni successivi, sulle tradizioni dell'ambiente rurale romagnolo.
Ma chi erano davvero, in questo periodo, i romagnoli? La definizione più corretta, fra Settecento e Ottocento, è forse questa: chi sentiva di esserlo. Comunità, famiglie, individui uniti da pratiche sociali, da rituali, da dialetti simili. Accomunati dalle stesse tradizioni alimentari, dalle stesse favole. I "confini", queste genti analfabete che spesso non avevano sviluppato neppure la capacità di astrazione necessaria per comprendere una carta geografica, li vivevano nella fisicità dell'esperienza quotidiana, nell'individuazione mobile, cangiante di un "noi" da opporre ad un "loro" sempre diverso. Poiché i romagnoli non avevano accesso al potere che governava la Romagna (non l'avevano mai avuto, eccezion fatta per il periodo medievale), dobbiamo immaginare la questione dell'identità slegata dalla questione dei confini, della territorializzazione in senso "politico". L'essere romagnoli era una pratica sociale, non (come sarebbe divenuto poi) un'elaborazione culturale. L'elemento tradizionale e rituale, di conseguenza, esauriva il fabbisogno simbolico (più tardi ideologico) delle famiglie. Le testimonianze, in proposito, sono numerose: il successo delle cerimonie religiose, le folle che si accalcavano nei mercati, il carnevale. Momenti di vita collettiva e momenti di vita individuale erano scanditi dai costumi della comunità, trasmessi e confermati dall'uso periodico e ricorrente.
La percezione di uno spazio più vasto è altra cosa. Quanti, nel XVIII secolo, sapevano leggere una mappa? Troviamo ricordate "quattro mappe geografiche grandi" incorniciate fra i beni dotali di Anna Tabanelli, una signora di rango che va sposa a Imola nella primavera del 1768. È verosimile ritenere che gli strumenti del controllo "scientifico" del territorio fossero alla portata dei "signori" e dei funzionari dal municipio in su. Ma anche per costoro vale domanda: che cosa significa la carta? Veicola identità o ambiti d'intervento puramente economico-amministrativi? La pur ricca erudizione sei-settecentesca, lo sappiamo, prescinde dal vincolo regionale: ora si pone al servizio del gonfalone municipale, ora spazia per i vasti campi della poesia, della mitologia, dell'agiografia, dell'antiquaria. Sapere dove sia passato Annibale è argomento più significativo della riflessione sulla Romagna e sui suoi abitanti. La splendida biblioteca della Rubiconia Accademia dei Filopatridi di Savignano (Forlì-Cesena) restituisce intatto il profumo di questo mondo perduto.
Le carte cominciano a "pesare" sul serio con l'amministrazione napoleonica. Perché sulle carte si costruiscono nuovi ragionamenti, che non sono più solo il portato inevitabile di una storia ideale-eterna, la cui matrice sta negli effetti secondari del diluvio universale. Le mappe servono ai militari, al governo e al fisco: per questo, da un lato, perdono significato in quanto rappresentazione o autorappresentazione prevalentemente culturale di uno spazio o di una comunità e, dall'altro, guadagnano in profondità tecnica, in capacità di "fotografare" la realtà che interessa al potere. Si standardizzano. Diventano facilmente comparabili.3 Lo scontro per il capoluogo fra Forlì e Ravenna, nel 1815-1816, è uno scontro di carte geografiche (in primo luogo quella di Maire e Boscovich, pubblicata nel 1755),4 esibite dall'una e dall'altra parte per sostenere tesi esattamente opposte. La Romagna che i notabili dei due centri disegnano è anzitutto uno spazio del tutto funzionale alla rispettiva capacità di controllo amministrativo e fiscale. Ma ciò contraddice l'assunto, basilare nel momento in cui si tratti di regionalismo, che esista una chiara percezione del territorio sotto il profilo di un nesso fra il "piano orizzontale", per così dire naturale, nel quale vivono gli individui e l'identità aggregata - sociale, simbolica e rituale - delle comunità. Parlo di "aggregazione", ma potrei forse dire meglio identità plurale o superidentità, perché l'identità singolare di città e paesi è fuori discussione. E difatti, su questa scala, in Romagna e fuori, non sono mancati, per l'età moderna, studi di grande interesse.5
Il fulcro della questione sta dunque nel passaggio dal nome storico o amministrativo al nome "etnico": nel processo, cioè, che conduce all'individuazione di una mappa della Romagna in quanto regione produttrice di sentimenti collettivi condivisi. A lungo, lo sappiamo, la parola "Romagna" resta un contenitore di uomini, di donne, di poteri e di fatti piuttosto indistinto. Alla parola romagnolo, al di là di un blando contenuto stereotipico di ascendenza medievale (fra l'altro largamente contraddetto dalla realtà della vita sociale settecentesca), non è associato alcun sistema di valori tale da far passare l'identità regionale al primo posto rispetto a quella della piccola patria. Le fonti mostrano con evidenza l'uso assai aspecifico del vocabolo "romagnolo" e, per contro, una formidabile ricchezza di attributi per le qualificazioni locali. Un rapido passaggio nella biblioteca di Carlo Piancastelli può confermare, credo, questa percezione generale.
Il salto dalla strumentalizzazione politica e amministrativa dello spazio-regione, abbastanza tipica dell'età moderna, alla ricerca di una regione-identità non risale, dunque, a molti secoli addietro. È un prodotto piuttosto recente, che cresce a ridosso della temperie napoleonica. Anche il potere "francese" strumentalizza il territorio, beninteso. Ma l'ansia di radicare un governo di nuovo tipo, che non può prescindere da una dimensione "pubblica", da un rapporto, certo ancora molto imperfetto, con gli individui in quanto cittadini (cittadini-coscritti o cittadini-contribuenti, in primo luogo), spinge in direzione di una saldatura fra conoscenza del territorio e conoscenza di chi vi abita. Ai notabilati periferici bastava, un tempo, la struttura della proprietà agraria per definire il perimetro del controllo sociale. Alla Cisalpina o al Regno d'Italia occorre un arsenale più generale, più astratto e insieme più raffinato: dati comparabili, carte affidabili, ricerche vere e proprie. L'abitudine a leggere con queste lenti rinnovate lo spazio rappresentato a livello di carte offre, anche ai savants di periferia, inedite opportunità.
Non stupisce, perciò, che uno dei contributi più rilevanti, nel primo Ottocento, alla definizione di un patrimonio "regionale" denso di elementi tradizionali, sia venuto da un impiegato comunale forlivese di formazione napoleonica, Michele Placucci (1782-1840). È lui, con il suo Usi, e pregiudizj de' contadini della Romagna (1818),6 a raccontarci che cosa queste popolazioni abbiano davvero in comune. Non l'idea astratta di un confine. Ma la familiarità con un universo di simboli e di valori che rassicurano e che interpretano, senza bisogno di mappa, il senso del "noi". Tocca poi all'intellettuale, come vedremo, fondere questa materia microlocale e puntuale in un contenitore più grande e sofisticato, già noto a chi è pratico di campagne militari o di amministrazione.
Fino al momento in cui non si dà una memoria culturale, tuttavia, questa regione è solo potenziale. Nel senso che essa contiene un certa quantità di pratiche sociali che sostanziano una romagnolità vissuta, ancora allo stadio incosciente. Naturalmente definire i rituali nuziali di Forlimpopoli o di Bagnacavallo come romagnolità è una forzatura, una costruzione intellettuale a posteriori: uomini e donne si sposano secondo la tradizione, e non si pongono minimamente il problema dei limiti entro cui essa "vale". Anche perché, il più delle volte, è lo spazio municipale o circondariale ad esaurire l'ambito di vita di cittadini e rurali. Per i ravennati il viaggio a Forlì, lungo quasi trenta chilometri, è un evento da raccontare; e ancora dopo Napoleone, verso il 1815-1816, non mancano testimonianze dirette che confermano il sentimento di estraneità che accomuna, dividendole, le comunità della costa da quelle residenti sulla via Emilia. "Se a Roma sono state restituiti tutti li Codici, e le altre rarità, quantunque fossero state trasportate in una gran Capitale di una grande Nazione," - scrive il ravennate Francesco Maria Miserocchi ad un potente prelato della sua città, da Forlì, il 15 ottobre 1816 - "perché non dee essere restituito a Ravenna ciò che si cela in un aggregato di Case, e da una piccolissima popolazione, che chiamasi Città, e che non è stata per tale né meno descritta dal [...] Cluverio nella sua Geografia [il primato territoriale]? Mi permette V.E. che le apra un mio desiderio. Sono [...] dieci anni che io vivo fuori di Casa mia per ragione dell'impiego. Sarei annojato di menare una vita, che mi sembra da soldato. M'invecchio".7
La realtà dei rapporti fra gli ambienti urbani e paesani, certificati dai contatti epistolari, dalla memorie a stampa, dal travaglio degli avvocati, è questa. Per uscire dallo schematismo localistico occorre fare uno sforzo intellettuale. E questo sforzo ha luogo nel momento in cui la pratica sociale degli abitanti della Romagna diviene memoria culturale; nel momento in cui, attraverso un'elaborazione scritta (e una diffusione a stampa), la ritualità tradizionale viene elevata a indizio della regione. Michele Placucci fa esattamente questo. Raccoglie "usi" e "pregiudizj" locali e poi li cala in uno spazio. Quale? Per lui, burocrate municipale, la soluzione è semplice: le due legazioni "che compongono la Provincia di Romagna" nel momento in cui scrive.8 E l'abate Piolanti, con il suo Bacco in Romagna, composto sulla falsariga del più celebre modello toscano del Redi, opera nella medesima direzione, più o meno nello stesso periodo e nello stesso ambiente: quello formatosi nella temperie napoleonica.9 Perché proprio lì e proprio allora?
Prima di rispondere a questa domanda, vorrei insistere ancora su questo passaggio. Potremmo estendere al nostro caso le considerazioni che Benedict Anderson ha riservato al rapporto fra stampa e costruzione dell'identità nazionale. Il vero salto ideologico la Romagna lo compie con il "regionalismo a stampa", filtrato dagli intellettuali, dai poeti, dalle riviste, da una sempre più fitta pubblicistica a sfondo etnografico e folklorico.10 Placucci è il primo a raccogliere questi dati elementari della vita collettiva e a dar loro una dimensione identitaria romagnola; e lungo questa falsariga si muoveranno, più tardi, tanti altri. Che cosa ci indicano queste spie? Che i savants periferici cominciano a leggere quella che potremmo definire in senso lato la "tradizione" di una serie di luoghi assai vicini gli uni agli altri, come un tutt'uno, all'interno di uno spazio identificabile come "Romagna". Per far questo, però, essi sostituiscono alla memoria rituale e ricorsiva delle società premoderne la memoria cumulativa e progressiva della società moderna. Non è un caso che la letteratura sulla "tradizione" sia paragonabile, nel nostro caso, ad un fiume che s'ingrossa partendo dalla sorgente di Placucci. Via via che la riflessione si approfondisce, la memoria si diffonde e si affina e l'atto simbolico del contadino diviene, per un curioso paradosso, meno importante della sua restituzione scritta e codificata.
Placucci, di sicuro, non ha alcun intento regionalista. Per lui, che è un impiegato pubblico, si tratta di presentare, adeguatamente ordinati, i dati raccolti all'interno del Dipartimento del Rubicone.11 E siccome il dipartimento comprende gran parte di quella che si è soliti chiamare (politicamente, amministrativamente) "Romagna", ebbene è evidente che la sua ricerca non può prescindere da questa denominazione "storica", l'unica che consente la fusione dei dati locali. Caduto l'imperatore, il dipartimento finisce, ma al suo posto riemerge la vecchia legazione di Romagna, benché divisa in due (Ravenna e Forlì). Il solerte funzionario già napoleonico non fa una piega: nonostante il territorio subisca alcune modifiche sostanziali (l'inclusione di Imola, ad esempio), il criterio ispiratore della ricerca resta valido. Una scelta funzionale, allora? In parte sì. Placucci non si pone un problema terminologico o di definizione dettagliata dei confini.
È certo, però, che la dimensione dipartimentale replicata sul modello rivoluzionario di Parigi, con i suoi frequenti cambiamenti, almeno fino ai primissimi anni dell'Ottocento, ha posto le élites romagnole, e quella forlivese in particolare (Forlì è il capoluogo dal 1798 al 1814), di fronte al tema del controllo territoriale. I nuovi criteri statistico-economici assunti dai francesi per definire il contorno delle unità amministrative e dei rispettivi "luoghi centrali" aprono un'inedita partita per il primato dipartimentale e mentre da un lato consentono di collegare lo spazio sovracircondariale ad un modello più moderno di "regione" (fondato sull'efficienza dei servizi, sulle comunicazioni, ecc.), dall'altro spingono un piccolo gruppo di burocrati-intellettuali a dare un contenuto sociale e culturale al nuovo ambito di riferimento.
Non siamo ancora alla sovrapposizione esplicita delle due questioni - i confini e l'identità - ma appaiono i primi segni di una possibile convergenza. La cultura napoleonica "insegna" ad una schiera sottile ma influente di romagnoli come guardare il territorio (sotto il profilo dell'approvvigionamento idrico, delle strade, del rapporto fra centri maggiori e minori, dei bacini mercantili, ecc.): l'astrazione cartografica entra in contatto col vissuto della gente comune, si umanizza, si fa carne e sangue. Non è un caso che per difendere la fisiologia del dipartimento, nel 1808, Forlì si rivolga a un "dottor fisico", Carlo Cicognani.12 Nello stesso tempo, perché la macchina del potere territoriale funzioni, è necessario conoscere. Conoscere le abitudini, gli usi, le pratiche. E per organizzare poi queste conoscenze, occorre di nuovo astrarre, semplificare, razionalizzare. La memoria culturale si sviluppa in questo delicato passaggio. Nasce involontariamente, come supporto ad un potere forte di nuovo tipo (quello "francese"); resta, una volta caduto il sistema imperiale, come risorsa latente a disposizione delle classi dirigenti e degli intellettuali locali.
Una conclusione provvisoria: senza la spinta iniziale prodotta da un sistema amministrativo moderno sarebbe stato difficile, per i notabili e gli intellettuali, abbandonare i facili miti del passato (Ravenna, civitas antiquissima; Romagna, idea di Roma, ecc.), comoda coperta erudita destinata a spargere la sua polvere di stelle sui signori delle modeste borgate da Bologna al mare. Una volta imparata la lezione, però, questi ceti e questi ambienti finiscono per usare il nuovo strumento statistico-geografico-sociale-demologico a proprio vantaggio, svincolandolo dagli impulsi esterni di Parigi o di Milano. Caduto l'imperatore, elaborano un nuovo orizzonte ideologico, la regione, riempiendo di contenuti ciò che - almeno nel caso romagnolo - era un puro nome "storico" o "politico". Di nuovo: perché lo fanno? Forse per rilegittimare un potere locale autoctono, una volta che, dopo il 1815, l'autorità temporale della Chiesa mostra di versare in gravi difficoltà. Forse perché pensano che sia possibile collegare a questa superidentità una nuova "età dell'oro" per eruditi e intellettuali. Di sicuro essi contribuiscono a creare un grande mito, che il regionalismo culturale, fra Ottocento e Novecento, ha poi reso socialmente disponibile a ceti sempre più larghi.
Questo snodo è centrale per comprendere la radice della cultura etnografica romagnola. Sul finire dell'Ottocento, quando l'impianto culturale del regionalismo andrà affinandosi, nessuno si chiederà come e quando sia nata la Romagna del folklore. Sarà per tutti evidente che gli usi contadini incrociati da Placucci sono il frutto di una romagnolità in qualche modo immobile ed eterna al pari della grande, lunga stagione dell'economia rurale tradizionale. Nessuno farà caso alla sovrapposizione, in realtà molto recente, fra spazio regionale e ritualità locali; all'assimilazione del mondo agrario, variopinto e plurale, all'interno di un principio di spiegazione unitario, offerto dall'"antichità" praticamente indeclinabile del nome "Romagna". La rigidità del regionalismo nominalistico - peraltro utile alla standardizzazione delle identità e alla loro diffusione a livello di massa - prevale sul regionalismo problematico, pure affacciata, in modo talvolta provocatorio e comunque mai sistematico, da intellettuali sottili come Renato Serra.
Che cosa ha unito di più, nei secoli, i contadini di questo lembo di terra padana? La mezzadria, con la sua tipica struttura sociale, i suoi riti, i rapporti costruiti con le borgate e con le parrocchie; oppure la Romagna, in quanto senso di appartenenza condiviso ad una superidentità regionale? Il Museo etnografico di Forlì, dopo la prima guerra mondiale, sceglie la seconda strada; i moderni musei della civiltà contadina, senza ombra di dubbio, la prima.
Note
(1) Cfr., a questo proposito, il "classico" contributo di Lucio Gambi, Le "regioni" italiane come problema storico, "Quaderni storici", XII, 1977, 1, pp. 275-298.
(2) P. Camporesi, Lo stereotipo del romagnolo, "Studi romagnoli", XXV, 1974, pp. 396-401.
(3) P. Fabbri, Le vie dei pellegrini nell'immagine cartografica della Romagna attraverso i secoli, in Viaggiatori nel tempo. La cartografia romagnola e l'immagine di Roma, a cura di S. Benedetti, Forlì, Edit Sapim, 2000, pp. 6-15.
(4) "Si osservi" - scrivevano i ravennati - "la Carta corografica della Romagna estratta dalla celebre Carta corografica dello stato Pontificio di Boschovvic, e le Maire [...]. Si vedrà in questa Carta, che la Provincia di Romagna forma un triangolo, ecc." ([G. Gorirossi, L. Petrorsi], Alla Sagra Congregazione Economica deputata da N.S. Pio Papa VII felicemente regnante Monsig. Illustrissimo e Reverendissimo Nicolai Segretario. Memoria di risposta per l'Illustrissima Città di Ravenna. Con Documenti, Ravenna, Dalla Tip. Roveri, 1816, p. 13.
(5) Un bell'esempio: L. Carle, La patria locale. L'identità dei Montalcinesi dal XVI al XX secolo, Venezia, Marsilio, 1996.
(6) M. Placucci, Usi, e pregiudizj de' contadini della Romagna. Operetta serio-faceta, Forlì, Barbiani, 1818.
(7) Biblioteca comunale di Forlì, Raccolte Piancastelli, Carte Risorgimento, b. 68, doc. 42.
(8) M. Placucci, Usi, e pregiudizj, cit., pp. 1-3 (in appendice al testo).
(9) G. Piolanti, Il Bacco in Romagna. Ditirambo da lui stesso corretto ed ampliato in questa nuova edizione con altre poesie del medesimo, Roma, Tip. de' Classici, 1839.
(10) Anderson parla, ovviamente, di print nationalism. Cfr. B. Anderson, Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Roma, manifestolibri, 1996, pp. 59-69.
(11) Le inchieste napoleoniche sono da tempo oggetto di riflessione da parte degli studiosi: cfr., fra i primi, T. Casini, Ricerche ufficiali sulle tradizioni e costumanze popolari nel Regno Italico, "Rivista delle tradizioni popolari italiane", I, 1894, pp. 251-260.
(12) C. Cicognani, Ragionamento [...] sulle voci sparse, che il Capo-Luogo del Dipartimento del Rubicone possa essere traslato in Ravenna, Forlì, Pel Barbini, 1808.
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