Rivista "IBC" XXVI, 2018, 4

musei e beni culturali, biblioteche e archivi / storie e personaggi

I gusti e le preferenze del sommo compositore...non solo a tavola.
Rossini. Note emiliano-romagnole

Vittorio Emiliani
[Giornalista e scrittore]

Gioachino Rossini, per non far torto a nessuno, alla definizione di Cigno di Pesaro dove era nato, aggiunse quella spiritosa di Cignale di Lugo dove erano nati il padre Giuseppe e il nonno Gioachino entrambi musicanti, anzi suonatori di "tromba squillante", e dove lui da ragazzo aveva così fruttuosamente studiato coi canonici Malerbi, specie con Giuseppe severo didatta, accademico di Santa Cecilia. Canonici che nella loro biblioteca avevano, caso fortunato per l'allievo, anche Bach, Gluck, Mozart e Haydn. La madre Anna Guidarini, soprano, veniva invece da Urbino, la patria del divino Raffaello al quale Rossini rese il più grato e solenne omaggio indicandolo come il maestro che più dei pur amati musicisti gli aveva insegnato "il bello stile che mi fa onore". Del Divino Urbinate, a Bologna, aveva ammirato e poteva continuare ad ammirare (magari insieme a Balzac, e dico poco, nel 1837) la Santa Cecilia della Pinacoteca pontificia e Bologna comunque era stata la città in cui il maestro era definitivamente cresciuto e in cui aveva perfezionato gli studi al celebre Liceo Musicale già di padre Martini e al suo tempo del rigoroso padre Mattei che lo chiamava "tedeschino" per la passione che il giovanissimo portava a Mozart e ad Haydn. Del resto, a quest'ultimo, spentosi nel 1809, avrebbe dedicato, come direttore artistico, appena diciottenne, dell'Accademia dei Concordi di Bologna, l'intera stagione musicale di quell'anno.

Sempre a Bologna aveva composto la sua prima opera, il Demetrio e Polibio (presumibilmente nell'estate del 1810) messo però in scena soltanto due anni più tardi al Teatro Valle di Roma ad opera del tenore-impresario Domenico Mombelli, chissà con quali tagli e adattamenti. Al Teatro del Corso di Bologna sarebbe stato rappresentato invece, nel 1812, un suo dramma gioco in due atti, L'equivoco stravagante, su libretto del bolognese Gaetano Gasbarri, protagonista la Marietta Marcolini, contralto, dal petto giunonico, che amava in abiti inizialmente maschili, en travesti, per poterlo poi far prorompere al momento di disvelare il proprio vero sesso. Come accadeva nell'operina rossiniana. Di dodici anni più anziana di Gioachino, ne fu la protettrice e magari qualcosa di più.

Certo lui le tagliò addosso alcune parti memorabili sia nella Pietra del paragone alla Scala, sia nella surreale, fantastica Italiana in Algeri dove lei fu Isabella, la rapita. A Bologna invece L'equivoco stravagante non ebbe fortuna. Non a causa della musica rossiniana, ma per il libretto di Gasbarri che era seminato da doppi sensi goliardici come il cetriolo al quale continuamente si alludeva o il "vuoto femminile" che bisogna pur colmare. "Idee sconce", notò un critico, nonostante le quali, "il sig. Rossini, giovane pieno d'estro, ha saputo in alcuni pezzi distinguersi". Ma la Prefettura del Reno fu inflessibile: tre sole recite e niente più.

Nell'occasione il non ancora ventenne compositore dimostrò anche un bel carattere e un severo rigore professionale. Avendo di fronte un gruppo di coristi, li aveva richiamati più volte, salvo poi esplodere in una raffica di insulti: "Vagabondi, scansafatiche. Vergognatevi!" Dal palcoscenico erano partite le prime proteste. Poi quelli che si sentivano magari protetti politicamente dal nuovo corso napoleonico aveva risposto ad alta voce. A quel punto il giovanissimo compositore aveva minacciato di usare il bastone. "Il bastone? È un autoritario!" Ritirasse la minaccia o non tornavano a provare. "Neanche per sogno. Il bastone ci vuole e lo confermo. Altro che le scuse". Insomma venne chiamata la forza pubblica e Gioachino finì in guardina, ammonito a non ripetere quelle intemperanze. Insomma vinse, al solito, il corporativismo dei mediocri. Ma Rossini aveva dimostrato in tanto rigore un carattere sanguigno. Da romagnolo come il padre. Che presto lo tirò fuori dai guai.

Insomma, passione per le belle donne, magari formose, anche se "agée" come la Marcolini. Passione per il lavoro, professionalità e magari atteggiamenti severi, tutt'altro che diplomatici. Carattere sanguigno all'occorrenza. Un'dea del sesso antica, pagana, naturaliter. Gioachino respirò, dopo la passionale aria di Romagna, quella più goliardica e giocosa di Bologna. Ricordo una sua grande aria per tenore, ritrovata negli anni '80, che egli aveva scritto, come si usava allora, per l'opera di un amico, Giuseppe Mosca, nel 1812, tutta decorata di falli volanti come il più tipico dei "papiri" goliardici del Tribunato del Fittone. Ad alcune canzoni o canzonacce "a luci rosse" il compositore si dedicherà più avanti. Le ha studiate Paolo Fabbri, musicologo e rossinologo ravennate. In una di esse, ripetendo lo stile di certe disinibite canzoni popolari toscane, musicava versi di questo tipo: "Ed indi all'ombra amena/d'una quercia antica/pulitasi la fi...bbia/della sua candida veste". Oppure "S'io ti dico ‘t'amo o cara’/Tu mi rispondi "Pazzo"/ Così mi rompo il ca..po/e il povero mio cor". Musiche che nulla aggiungono all'arte del Nostro e però confermano le origini goderecce e porcelle di una certa qual cultura giovanile.

Carattere regionale anche questo, diciamolo. A Venezia il ventenne Rossini conosce il successo più pieno per cui dalle farse potrà in capo ad un anno fare il salto ad una grande opera come Tancredi che lo renderà famoso in tutta Europa con l'aria "Di tanti palpiti". E nella laica e gaudente città di Goldoni (Carlo, peraltro, era di famiglia riminese), s'imbranca con una compagnia di autentici bon vivant, dediti alle baldorie notturne, ai più acuminati, straripanti pettegolezzi, a canti e scherzi goliardici. Insomma, è la Corte dei Busoni (in questo caso usato affettuosamente come perdigiorno, amanti del bel vivere e delle belle donne, libertini) che ruotava attorno allo speziale veneziano Giuseppe Ancillo, con bottega in Campo San Luca, la lingua più tagliente della città, quello che sapeva di tutto e di più sulle madri e sulle figlie da maritare. Una congrega all'interno della quale il ventenne Gioachino, elevato con ammirazione e affetto al grado di "busonissimo", si rigirava magnificamente. Il poeta della Compagnia era soprattutto il più anziano Pietro Buratti (1772), figlio di padre bolognese (ecco che ci risiamo) e incorreggibile libertino, figura allampanata, vestire ricercatissimo che gli era valso il soprannome di Gran Piavoloto, come ha scritto nel 2010 il musicologo bolognese Marco Beghelli sul Bollettino della Fondazione Rossini.

Li rivedrà e frequenterà di nuovo nel 1823 quando viene data, per la prima volta, alla Fenice Semiramide protagonista Isabella Colbran da poco sposata. "Spandé pur lagrime/A goti e sechi/Ludroni zoveni/Ludroni vechi!", comincia "L'Adio busonico al Gran Rossini" vergato dello stesso Buratti il quale usa il termine "ludro" (come "busone", del resto) affettuosamente quale mascalzone, ingordo, carognone. Tanto più che la spagnola Colbran non coglie per fortuna certe sottigliezze. "Che del so merito/Sicuro mago/Porta el caratere/ De ve ne cago". Cioè del "me ne fotto". Anche per questa superiorità di carattere Rossini, è il "nuovo Orfeo", "l'inesauribile Genio Europeo". Insomma, sul piano musicale questi "busonissimi" veneziani, pettegoli, libertini e ciacoloni, avevano fiuto e orecchio.

Rossini viene indicato come il bon vivant, il gaudente per definizione. Che in giro per l'Emilia-Romagna ritrovavamo e ritroviamo spesso. Fino al luogo comune più frusto. In realtà lo fu a lungo, pur fra ansie e preoccupazioni, soprattutto per i rivolgimenti politici che lo atterrivano e in questo non somigliava certo al padre romagnolo "giacobino e republican vero". Lo sarà anche a Napoli e nelle parentesi romane, piacevoli perché "a Roma niente va veloce". Nel 1821 per quel Carnevale Romano - dove la trasgressione era d'obbligo - presentò al Teatro Apollo dei Torlonia un'opera nuova, Matilde di Shabran, ossia Bellezza e Cuor di ferro, commedia, composta in fretta e furia con alcuni "imprestiti" (l'ouverture era di Giovanni Pacini). La "prima" fu complicatissima: il primo violino (all'epoca direttore) si ammalò gravemente e l'assolo di corno che apriva l'opera dovette essere cambiato. Chi subentrò? Nientemeno che Niccolo Paganini, grande amico di Gioachino, il quale accettò di buon grado di fungere da primo violino e di eseguire alla viola l'assolo iniziale per corno. Anche per liberarsi di tanti crucci, Rossini e Paganini decisero di partecipare direttamente come maschere al celebre Carnevale Romano. E presero con loro il giovane torinese Massimo D'Azeglio a Roma ad esercitarsi nella pittura di paesaggio en plein air (dove riusciva benissimo), un cattolico per giunta moderato. Trascinato da questi due spiriti epicurei, il trentanovenne Niccolò e il ventinovenne Gioachino, accettò di travestirsi da donna, fingersi cieco e suonare la chitarra e cantare con i due virtuosi una musica divertente tratta da "Ricciardo e Zoraide".

Siamo nati, siamo nati,
per campar di cortesia;
in giornata d’allegria
non si niega carità!

Donne belle, donne care!
Per pietà, non siate avare!
Fate a poveri ciechietti
un tantin di carità!

Siamo tutti poverelli
che suonando i campanelli
che scuotendo li batocchi
col do, re, mi, fa, sol, la,
domandiam la carità!

Deh! soccorreteci, donnette amabili!
Siate benefiche col miserabili!
Noi siamo poveri di buona bocca,
siam pronti a prendere quel che ci tocca.

Deh! soccorreteci, per carità,
che carnevale, morendo stà!

Rossini, il più sfacciato dei tre, chiedeva alle maschere femminili del Corso ben di più di una carità suscitando gridolini scandalizzati nelle dame o risate aperte nelle popolane. Vestite però, per il solo Carnevale, le une con gli abiti tradizionali delle altre. I tre ebbero grande successo, sia per strada, sia in alcune case patrizie. Poi, a mezzanotte, il più giovane, Massimo D'Azeglio, che era anche il più morigerato dei tre, li lasciò per andare a dormire. Mentre Paganini e Rossini continuarono a divertirsi in qualche festino, forse in una delle molto accoglienti dimore di via Capo le Case.

A Napoli, dicevo prima, fra 1815 e 1823, Rossini continuò a lungo in questa vita di lavoro creativo intensissimo, di organizzazione dei teatri quanto mai moderna e professionale, nella produzione di opere "serie" (una sola giocosa, La gazzetta) o di grandi oratori come Mosè in Egitto. Nelle lettere l'adorata madre Anna Guidarini spesso lo rimproverava per quella vita dissipata, frequentando donne di poca virtù, mangiando e bevendo oltre misura. Anche qui aveva i suoi "busonissimi", fra i quali il banchiere genovese Emanuele Gnecco che, un giorno, arrivato a Portici a cavallo mangiò esageratamente, tornò a Napoli e per digerire ci mise sopra una quantità di sorbetti, finché non cadde a terra stecchito.

Qui, tuttavia, si esaurì il meglio della vita epicurea di Gioachino che certo nell'Emilia-Romagna etrusca, romana, medioevale e rinascimentale (dove mortadelle, formaggi come il Parmigiano, cappelletti e tortellini, piadine e crescentine, salumi e salami erano molto amati) aveva avuto un riscontro atavico preciso. Si prese purtroppo una malattia venerea, frequente negli ambienti teatrali di allora (Paganini e Donizetti ne moriranno, il secondo a soli 54 anni, dopo un anno di pazzia), e comincerà a soffrire di ogni malanno. Fino ad esclamare paradossalmente, anni dopo, "ho tutte le malattie delle donne, ma non ho l'utero".

Si difenderà anche costruendo il suo "doppio", dopo il matrimonio (più di convenienza reciproca che di amore) con la più anziana Isabella Colbran, star del belcanto, che aveva studiato a Bologna dove possedeva, a Castenaso, una villa accogliente. L'attrazione per la bellezza femminile sarà più forte di ogni malattia: senza lasciar scritta una sola lettera d'amore, Gioachino, dopo che ha chiuso per sempre, dopo Guillaume Tell, con il teatro nel 1829, tornò a Parigi e si legò ad una delle più abbaglianti donne della città, una cortigiana dichiarata, Olympe Pellissier, che era stata l'amante del pittore Horace Vernet (c'è un ritratto di lei al Louvre) e dello scrittore Eugène Sue e di qualche banchiere. Definita "belle à miracle" da una Camilla Cederna dell'epoca a Parigi, Olympe sarà una devotissima moglie-infermiera per il malandato Gioachino, prima a Bologna, quindi a Firenze, infine a Parigi dove lo riporterà nel 1855. Diventando "grassa come una mucca", scrive ad una amica parigina, quindi assai più che giunonica. Una Serena Grandi, bolognesona, ante-litteram.

Con Olympe doveva essere un gioco e fu invece "un fuoco", come si canta in Cenerentola. Gioachino - che aveva sempre adorato mangiar bene e bere meglio - si gettò a organizzare cene dai menu interminabili, interrotte magari da blinis di panna acida alla russa per digerire e riprendere a mangiare. A lui vennero dedicate ricette su ricette: Tournedos alla Rossini, Maccheroni alla Rossini, Filetto alla Rossini, Cotoletta alla Rossini, e via mangiando. Ma per Gioachino era anche un modo per costruirsi un suo "doppio". Lui che ormai poteva mangiar poco e bere anche meno, scriveva sempre più spesso al "principe dei salsamentieri", il modenese Giuseppe Bellentani, ai quali commissionava (per gli amici) i più pregevoli salumi, vini e aceti balsamici, mentre al marchese lombardo Sommaruga ordinava scamorze e gorgonzola, paragonando i suoi rotondi formaggi alle poppe di una Madonna rinascimentale. Irriverente? Ma per lui era il massimo degli elogi possibili. Le sue metafore o le sue fantasie erano spesso legate al cibo: quand'era a Firenze, malato e depresso, si ritrovava tutti i giorni, lui divenuto conservatore dichiarato, con due ex deputati della Repubblica Romana del 1849, esuli colà, il bolognese Giuseppe Barilli alias Quirico Filopanti, e soprattutto il romagnolo Filippo Mordani, fine letterato. Un giorno mostrò loro, in casa sua, un gran bel pezzo di ceramica urbinate e commentò allegro: "In questo piatto di portata mangiavano i maccheroni i Duchi di Urbino". E continuava inaspettatamente a sorridere.

Una sera a Parigi, dove la salute e l'umore depresso erano migliorati, invitò la solita scelta cerchia di amici per una cena particolare, un bel rombo à l'allemande con una salsa molto appetitosa. In quei giorni Richard Wagner presentava nella capitale francese il suo Tannhauser. In tavola però era comparsa soltanto quest'ultima. Tutti si rivolsero perplessi al padron di casa che aveva un lampo malizioso negli occhi: "Purtroppo all'ultimo momento il pescivendolo non ha portato il rombo. Accontentatevi della salsa. È come la musica di Wagner: buona la salsa, ma niente pesce, niente melodia!"

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