Rivista "IBC" XXVI, 2018, 4

territorio e beni architettonici-ambientali / progetti e realizzazioni, storie e personaggi

Riflessioni sulla copia perfetta di un originale scomparso attraverso un’esposizione e un libro.
L’air du temps

Lorenza Bolelli
[IBC]

Che periodo gli anni ’70 a Bologna! Protesta e innovazione caratterizzano la vita sociale e culturale. Una città in cui anche l’architettura si respira.

Attraversata da un vivace dibattito culturale, la città vuole lasciarsi alle spalle la tradizione costruttiva che ha delineato i caratteri della città storica per sposare pienamente l’architettura contemporanea, disegnando così la nuova morfologia urbana della città “adagiata sui colli”. Il cambiamento inizia con l’arrivo della “nuova architettura” e da lì in poi, nulla sarà più come prima; inizia proprio tra la metà degli anni ’60 una felice stagione per l’architettura della seconda metà del Novecento a Bologna.

Fondamentale è il ruolo svolto da due figure locali. Una laica, il Sindaco Guido Fanti e l’altra religiosa, Il Cardinale Giacomo Lercaro. Insieme danno vita ad una serie di operazioni urbanistiche, architettoniche e sociali che testimoniano, per molti anni a venire, un progetto unico pensato per la città e difficilmente esportabile altrove. Guido Fanti conferisce a Kenzo Tange l’incarico per la “variante Bologna nord” e il Cardinale Lercaro quello per il “centro ecumenico” nel quartiere fieristico, configurando così l’area in cui sarebbe sorto nel 1975 il Padiglione dell’Esprit Nouveau come una delle zone più importanti nella formazione della nuova Bologna. ( 1)

Un punto di vista sulla città che ha l’obiettivo di spostare il concetto di “centro” dal nucleo della città storica (interessata in quegli anni anche da un grande piano di recupero) alle espansioni urbanistiche dell’hinterland bolognese, dove già a partire dal 1949 sono iniziati i piani di ricostruzione ed espansione pubblica rivolti al settore dell’abitazione popolare e a basso costo. I progetti di INA Casa del 1949 e i piani di edilizia economica popolare iniziati nel 1963 cercano di dare risposta alla crescente domanda di abitazioni, ma è con il progetto avviato dall’Arcidiocesi di Bologna, ad opera del Cardinale Lercaro, che si pone un’attenzione particolare a queste aree.

L’occasione si presenta nel 1955, grazie al Convegno Nazionale di Architettura Sacra, voluto proprio dal Cardinale. Arrivano importanti figure dell’architettura italiana come Bruno Zevi, Ludovico Quaroni, Adalberto Libera, Luigi Figini che a loro volta, ricevono il sostegno di grandi architetti europei: Walter Gropius, Le Corbusier, Alvar Aalto, Joseph Breuer. Bologna è attraversata da una weltanschauung architettonica e stilistica che sta percorrendo l’Europa e non solo.

Una nuova visione urbana che trova, a livello locale, architetti e urbanisti prestati “alla cosa pubblica” come Pier Luigi Cervellati e Giuseppe Campos Venuti, progettisti come Giuseppe Vaccaro, Pier Luigi Nervi, Glauco Gresleri e imprenditori illuminati come Mario Tamburini. Il volto di Bologna si trasforma negli anni ’70 in una inaspettata città contemporanea. La Bologna post bellica si trasforma grazie al piano di Kenzo Tange per “Bologna 2000”, grazie al complesso fieristico progettato da Tommaso Giura Longo, Carlo Melograni e Leonardo Benevolo, al Palazzo dei Congressi di Melchiorre Bega, alle chiese realizzate nelle periferie di Bologna ad opera di architetti come Giuseppe Vaccaro, Pier Luigi Nervi (Chiesa del Cuore Immacolato di Maria), Glauco Gresleri (Chiesa della Beata Vergine Immacolata), Alvar Aalto (Chiesa di Riola di Vergato) solo per portare alcuni esempi.

Prende forza l’aspetto di fare città oltre la città storica. La fede sposa la causa della nuova architettura. La volontà è quella di creare anche attraverso l’architettura contemporanea, nuove centralità della fede in ambiti periferici consegnando a queste parti di neo territorio urbanizzato dignità e attenzione. Un vero piano di “marketing territoriale” che avrebbe ispirato, quasi 20 anni dopo, l’azione del Vicariato di Roma con il progetto giubilare delle ”50 chiese per Roma 2000”. Ma questo non è che l’inizio per Bologna. È in questo contesto che gli architetti Giorgio Trebbi, Enzo Zacchiroli, Glauco e Giuliano Gresleri, Enea Manfredini riuniti intorno alla rivista “Parametro” (di cui Trebbi è fondatore) si ritrovano a discutere di architettura e città. Le loro riflessioni sull’architettura moderna e sull’importanza della ricerca spaziale nel clima surriscaldato di quegli anni (le dimostrazioni alla Facoltà di Architettura a Valle Giulia a Roma nel ’68, le contestazioni del ’73 in Triennale a Milano) si svolgono attorno allo studio della storia del Movimento Moderno, quasi un’azione culturale controcorrente.

Da qui l’idea di ricostruire a Bologna il demolito Padiglione denominato de l’Esprit Nouveau, realizzato da Le Corbusier per Exposition International des Arts Décoratifs et Industriels Modernes a Parigi nel 1925 e subito dopo demolito. Recuperare un simbolo, una memoria. Si sviluppa così intorno alla rivista “Parametro” un acceso dibattito incentrato attorno al quesito del rapporto tra opera originale e sito che trova il proprio punto di forza nell’idea di un parco dei padiglioni che doveva costituire il polo fieristico in progettazione.

Ma perché fare à l’identique il padiglione lecorbuseriano in una Bologna caratterizzata dai cantieri della nuova architettura? Che senso ha recuperare un’architettura di quasi 50 anni prima? La risposta sta forse nel ruolo simbolico rappresentato dal Padiglione che Le Corbusier progetta per l’esposizione parigina del ‘25. Pensato come prototipo dell’alloggio moderno, da riprodursi in serie, come cellula base di una unità abitativa chiamata da lui Immeuble-Villas (immobile composto da molte ville) il Padiglione doveva costituire il paradigma della “qualità abitativa” nell’epoca, per dirla alla Walter Benjamin, della riproducibilità dell’opera (in questo caso architettonica). Il punto di equilibrio tra l’alta densità abitativa e la qualità dell’abitazione.

Quindi una sorta di manifesto dell’abitare nato in un periodo storico, gli anni ’20, in cui “ogni cosa proclamava l’avvento di uno spirito nuovo e tutto fa presagire che stiamo entrando in una grande epoca artistica e letteraria” e che negli anni ’70 poteva diventare il riferimento per una riflessione sulla qualità abitativa in anni di forte espansione urbana e industrializzazione edilizia.

È così che il gruppo dei 5 architetti, attraverso la rivista “Parametro”, inizia una fitta corrispondenza con la Fondazione Le Corbusier di Parigi per recuperare i disegni originari e stabilire il contatto fondamentale con coloro che, ancora viventi, affiancarono Le Corbusier nell’originario progetto, primo fra tutti Josè Oubrerie. Inizia così una fervente attività fatta di scambi epistolari e di viaggi a Parigi. La scelta del quadrante della città, designato ad ospitare il risorto padiglione non è casuale. Compreso tra l’asse di via Stalingrado a ovest e il quartiere San Donato ad est è stato fino agli anni ’50 debolmente infrastrutturato. Nel 1970, grazie al progetto per il distretto fieristico, a quello per il Palazzo dei Congressi e le Torri direzionali, si appresta a divenire il quartiere dei grandi progetti che hanno il compito di infrastrutturare la città in una ottica di terziario avanzato. Lì si deve collocare il gemello italiano dell’opera di Le Corbusier. Così è.

Del resto alcuni anni prima, nel 1961, Giuseppe Campos Venuti, assessore all’urbanistica del Comune di Bologna presenta un piano per la città che ha il compito di avviare una “stagione aurea” dell’urbanistica bolognese. Da una parte la conservazione della città storica e, contemporaneamente, la creazione di un nuovo centro direzionale, che assegna proprio al quadrilatero di via Stalingrado, la sede ideale in cui ospitare le nuove forme di progettazione della città contemporanea. Quale miglior luogo dunque in cui far “rinascere una fenice”? La ricostruzione, che vede la luce grazie al lavoro degli architetti Glauco e Giuliano Gresleri e dell’architetto Josè Oubrerie riesce ad aggregare consensi attorno a un’idea che, nel riagganciarsi al passato, si proietta ben oltre il presente rappresentando l’atto fondativo di un ambizioso progetto culturale: la creazione in quello spazio di un centro internazionale di studio e documentazione e di ricerca dell’abitare (Oikos).

Dal 1975 ad oggi alterne sono le vicende che hanno caratterizzato le sorti e i destini del Padiglione dell’Esprit Nouveau, meta insistente in tutti questi anni, di giovani laureandi in architettura e architetti provenienti da tutto il mondo, considerato un unicum in quanto copia perfetta di un originale scomparso.

Finalmente, nel 2018 la Regione Emilia-Romagna, ha restituito alla collettività questo edificio attuando un capillare e certosino intervento di restauro. Dal mese di novembre il padiglione ospita la mostra Phoenix. Il Padiglione de l’Esprit Nouveau tra costruzione e restauro, curata da Maria Beatrice Bettazzi, Jacopo Gresleri, Paolo Lipparini, con la consulenza di Giuliano Gresleri. Una mostra realizzata con il contributo della Regione, dell’Archivio storico dell’Università di Bologna e dell’IBC, che ci restituisce l’idea di una meravigliosa “fatica”, quella compiuta da un gruppo di architetti illuminati che hanno, con tenacia, saputo parlare, e ancora oggi lo fanno, a intere generazioni di “ideatori di città”.

 

Nota 1. L’arrivo di Kenzo Tange a Bologna è descritta negli scritti di Giuliano Gresleri, Glauco Gresleri, Kenzo Tange e l’utopia di Bologna.Bologna Nord Centro ecumenico Fiera District, atti del convegno all’Oratorio dei Filippini, Bologna University Press, Bologna, 2010.

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