Rivista "IBC" XXVI, 2018, 3

musei e beni culturali / mostre e rassegne, progetti e realizzazioni

La tavola imbandita. Estetica della tavola e  Lo spettacolo dell’arte del ricevere, ovvero valorizzazioni a confronto, affinità e divergenze.
La responsabilità di valorizzare

Roberta Cristofori
[IBC]

La tavola imbandita. Estetica della tavola e Lo spettacolo dell’arte del ricevere , ovvero valorizzazioni a confronto, affinità e divergenze.
Questo l’incipit per riflettere sugli esiti di una giornata ricca di iniziative che ha avuto luogo, lo scorso giugno, al Museo Renato Brozzi e negli spazi della Corte Bruno Agresti di Traversetolo (Parma).

L’input di un tema che IBC ha proposto, un approfondimento sull’estetica della tavola ordito a partire dai manufatti rari e preziosi realizzati dall’artista traversetolese, ha in parte virato verso strade ‘altre’ rispetto a un’operazione la cui sintassi si immaginava dedita a raccordare esperienze e a far dialogare opere che traessero i loro fondamenti dalla linfa del catalogo - strumento in grado di cogliere rapporti e stimolare confronti - per una rilettura dell'operato dell’artista in chiave attuale.
Ma è forse un bene che l’iniziativa si presti ora anche a una considerazione attenta sulla modalità del comunicare i nostri beni e a testarne validità e risultati rispetto alle aspettative. Ma vediamo con ordine.

Affinché i musei non siano solo spazio di conservazione delle opere, esposizioni piane e compendiose facilmente godibili senza complicazioni, e, nel caso, i manufatti di Renato Brozzi non siano solo custoditi ma spunto vitale per osservazioni su un presente che muta, IBC, a fronte di una richiesta di contributo per attività di valorizzazione del museo (legge regionale 18/2000) - i cui materiali grafici, in parte esposti, sono da anni catalogati in IMAGO e recentemente arricchiti da oltre 9000 immagini digitali - ha suggerito percorsi declinati in un intercalare di iniziative che si sono svolte nella prima metà dell’anno con grande affluenza di pubblico.

In un palinsesto percettivo come quello del territorio di "Parma! UNESCO City of Gastronomy" (sotto il cui patrocinio l’evento è stato posto in calendario), con i musei del cibo così numerosi in una provincia ricca di eccellenze, che vede in ALMA il più autorevole centro di formazione della Cucina Italiana a livello internazionale e in Academia Barilla e nella sua Biblioteca Gastronomica un sostegno alla difesa e allo sviluppo dell’arte della Gastronomia Italiana, con uno sguardo agli studi più recenti ricchi di iniziative dedite alla ricostruzione delle tavole di Maria Luigia, Giuseppe Verdi e Giovannino Guareschi, e fino alla recente inaugurazione di una nuova sezione della Galleria Nazionale (nel complesso monumentale della Pilotta) interamente dedicata alle arti decorative della corte ducale di Parma, allestita attorno allo spettacolare trionfo da tavola di Damià Campeny, dove trovano degna collocazione opere di Petitot, Boudard e ceramiche della Real fabbrica di Parma, si è pensato di dar corpo a una riflessione che proprio Gualtiero Marchesi (2001), padre di ALMA, aveva più di altri posto all’attenzione, ovvero l’evoluzione del gusto nell’allestimento della tavola mettendone in luce implicazioni culturali e influenze artistiche.

L’apparato decorativo e scenografico che accompagna il cibo ha trasformato un’esigenza quotidiana di sopravvivenza in una pratica sociale con forte valenza estetica; l’idea della cucina come presentazione e rappresentazione ha inoltre raccontato modi e stili della convivialità. Il ‘mangiar con gli occhi’, ovvero la pratica dell’imbandigione, ha costantemente perfezionato tecniche e accorgimenti per la decorazione e la disposizione dei cibi in tavola.
L’estetica del piatto, inteso come manufatto artistico, nei tempi più recenti ha in parte ceduto il passo a una estetica del cibo ‘nel piatto’. Il tradizionale atto di apparecchiare la tavola è diventato un progetto di costruzione della tavola e, a seguire, di composizione del piatto stesso, dagli accordi cromatici ai cromatismi gustativi; e il design moderno delle suppellettili è andato via via interpretando o anticipando i modi di questo approccio innovativo, sempre più allestimento di un intrattenimento globale che interessa i sensi, lo spazio, il menu, il bello della tavola e del piatto, i commensali.

Renato Brozzi, scultore, argentiere, orafo, animaliere, nato cesellatore lavorando giovanissimo in una fonderia di bronzi, alternò gli studi con lavori per vari antiquari di Parma che fecero passare le lastre d’argento da lui incise come opere del Rinascimento: famoso, a questo proposito, il piatto da lui creato e venduto nel 1905 ad acquirenti londinesi come opera del Cellini. La sua produzione annovera numerosi raffinatissimi piatti e arredi da tavola: oltre al servizio in argento tutto giocato sul tema del sacro cordiglio francescano per Gabriele d’Annunzio, e al servizio da tavola comprensivo di posate creato per Casa Savoia, molteplici sono i piatti, specie per famiglie romane realizzati negli anni di residenza dell’artista a Villa Strohl Fern.

I manufatti di Renato Brozzi dunque, piatti, posate, centrotavola, oggetti preziosi e ricercati, da analizzare anche sugli innumerevoli disegni preparatori consultabili in IMAGO, celebrano l’arte della tavola e si prestano a una riflessione sui canoni estetici che accompagnano la sua trasformazione.

Da qui l'iniziativa del mese di giugno: l’idea quella di dar vita, all’interno degli spazi del museo, a un temporaneo inserto, la ricostruzione della tavola di Brozzi per Gabriele d’Annunzio e una sua moderna declinazione affidata allo Studio Le Magnifiche Editrici (Bologna) affinché, con stampe d’arte originali su carta e tarlatana tirate da torchio calcografico, forgiate a partire dalle sollecitazioni delle opere realizzate dall’artista e dai suoi 9000 disegni, potessero reinventare una tavola odierna, non convenzionale e al contempo raffinata.
A corredo e a sostegno l’esposizione degli esiti di un concorso fotografico bandito in collaborazione con il locale Circolo fotografico sul tema della tavola imbandita vista con gli occhi di oggi, affiancata da quella delle fotografie raccolte dai privati cittadini che hanno attinto dal proprio vissuto o hanno scattato per l'occasione immagini del loro quotidiano. A mediare un convegno in cui il nostro Istituto ha voluto narrare il tema attraverso la ricerca nei nostri cataloghi, banche dati che chiamano a raccolta un patrimonio straordinario, che rappresentano un modo differente di vedere, di riscoprire quello che possediamo ma che in un certo senso sfugge al nostro sguardo e alla nostra comprensione. A far da contrappunto le acute relazioni di Andrea Grignaffini, critico enogastronomico, vice curatore Guide dell’Espresso, membro del comitato scientifico di ALMA, autore di Nella Dispensa di Don Camillo. L'oste Giovannino Guareschi e la cucina della Bassa e Maddalena Santeroni, coautrice di La cuoca di d'Annunzio.

I due studiosi hanno risposto con speciale sintonia alle sollecitazioni proposte, rispettivamente con gli interventi "Nuova cucina - Nuova tavola” e "D’Annunzio il cibo e il bello”. Grignaffini ha colto con prontezza lo spirito della ricerca nel catalogo IMAGO: i materiali presentati sono stati la chiave per avventurarsi, deviando con probabilità da quanto in parte preparato, in una storia delle nostre tavole, una messa in discussione dell'apparecchiata tradizionale, fino ad evidenziare come l'alta cucina stia smontando l'utilizzo delle posate (al bando i 'feroci' coltelli e forchette!) fino a paventare un prossimo futuro utilizzo del solo 'pacifico' cucchiaio - la ‘posata dei poveri', quelli costretti a cibarsi per lo più di zuppe di verdure - o addirittura unicamente delle mani: stiamo transitando, ha affermato il critico, dall'imbarazzo dell'eccesso al lusso della semplicità.
La Santeroni ha divagato con brillantezza fra i noti eccessi del Vate che alternava momenti di digiuno completo ad abbuffate compulsive. La Stanza della Cheli - raffinatissima sala da pranzo per gli ospiti coi manufatti di Brozzi - e la Cucina del Vittoriale - funzionale, ristrutturata con la collaborazione di Gio Ponti - paiono le due facce del rapporto di d'Annunzio col cibo e il suo allestimento. Sì, perché lui, cultore di vizi raffinati, aveva, sin da giovanissimo, maturato una ferma repulsione verso il pasteggio pubblico; attento esteta della tavola, apparecchiata con cura di dettagli per gli ospiti, ma consumatore di pasti in solitudine.

Le circostanze han fatto sì che il museo abbia invece ospitato, al suo interno, la mostra Lo spettacolo dell’arte del ricevere: a tavola con Brozzi, Minari e Ghiretti, con l'allestimento di omonime tavole a cui si sono aggiunte quella in onore di Luigi Beccarelli, imprenditore traversetolese, e quella a richiamare un tè dannunziano per rimarcare il legame di Brozzi con il Vate, cui han fatto da complemento una selezione di menu, prestito di Academia Barilla.
Strade partite da quello che abbiano ritenuto un valido spunto, una opportunità, hanno avuto difficoltà d’incontro, e la mostra, a nostro dire, ha condizionato parte del percorso, blindando il museo nella veste di scenario pittoresco, escludendo la declinazione attuale e creativa della tavola ispirata a Brozzi proposta dalla Magnifiche Editrici, collocata altrove, a favore di ciò che riteniamo forzosi inserimenti provenienti da collezioni private e mercato antiquario.

Il catalogo relativo all’ Arte del ricevere ben puntualizza che la mostra ha voluto “essere un omaggio non solo ad artisti e a personaggi a Traversetolo legati, ma all’arte decorativa in genere e al collezionismo privato […]”, da proporre “alla cittadinanza e al pubblico degli amanti del bello”, con l’intento di promuovere “una riflessione su un tema attuale quale è quello dell’alimentazione e della cultura del cibo”.

'Artisti traversetolesi', 'amanti del bello', 'collezionismo', 'alimentazione', 'cibo': un quadro vasto, una prospettiva vaga e sfuggente, riconducibile a un lessico, anche espositivo, avviato verso una deriva di indeterminatezza - vischiosità tipica della società attuale - ove la generalità (o genericità), nel caso atta a comprendere svariati manufatti da esporre, provenienti per lo più da collezionisti e botteghe antiquarie -certo minuziosamente e accuratamente ricercati, una ‘esibizione’ di competenti ricostruzioni - rinvia con ‘brillante’ disinvoltura a un linguaggio misurato sui destinatari prevedendone il sicuro appagamento.

Affidarsi al facile ma spesso labile filo delle affinità geografiche dei natali di artisti (Brozzi, Minari, Ghiretti) in un territorio delimitato e circoscritto, all’enfasi di produzioni, anche occasionali, di manufatti per la tavola opera di una presunta cerchia di artisti-artigiani legati dal comune apprendistato presso la locale fonderia, fino a paventarne parentele, alla costruzione di relazioni che includano suppellettili di famiglia di personalità imprenditoriali del contado (Luigi Beccarelli), uniti a ritrovamenti collezionistici e saccheggi antiquariali significa costruire percorsi indubbiamente seduttivi, ma volti alla semplice soddisfazione esercitata dall’evocazione di fantasie e desideri d’imitazione di piccoli o grandi fasti passati.

A proposito di questo sbandierato trionfo di localismo va detto che non è certo scontata una ricaduta territoriale di ogni specificità individuabile in un certo contesto; serve attenzione e cautela a sviluppare e irrobustire filoni che a ben vedere paiono poi labili o strumentali, ma spendibili con innegabile riscontro da vetrina: argenti, vetri, pizzi e merletti. E quelle tavole da rivista (ovviamente patinata), ammiccano seducenti con il loro menu totem a rimarcare epoche e stili. 

Alle sollecitazioni, tante, che pure si affacciano dall'opera straordinaria di Renato Brozzi, non è necessariamente possibile rispondere con altrettante supposte analogie delimitabili localmente, solo perché oggi più che mai, la ricerca di identità, i nessi territoriali ad ogni costo, le accomunanze geografiche, le sintonie ambientali - convenienze tanto care alla politica -, paiono essere un valore in sé e dunque gli studiosi si fanno spesso carico di enfatizzarle.
Non si può cedere alle convenienze, è una modalità che può indurre a cortocircuiti e a superficiali riflessioni; non ci sono mai scorciatoie interpretative, è importante che i manufatti di un grande artista non siano pretesto, ma contesto dal quale partire per cammini densi di inviti e richiami.

E perché ‘locale’ non assuma una sfumatura riduttiva o limitativa, di arroccamento, sinonimo di isolamento, avremmo desiderato si impiegassero maggiori energie a favore della mobilitazione della cittadinanza con la raccolta di testimonianze, in questo caso fotografiche -un esempio significativo dell’interazione tra ricerca storica e riflessione della comunità sul proprio passato- che è sempre esempio virtuoso dell’intreccio tra la vivacità culturale di un piccolo centro e dei suoi amministratori.
Nelle virgolette di questa insipienza leggiamo l’alibi a trascurare argomentazioni critiche a favore del facile riscontro, una modalità che va a scapito della costruzione di un impianto che attingendo all’erudizione del lavoro catalografico - di cui IBC intende sempre misurare lo straordinario potenziale - si pensava al riparo da semplicismi gratificanti. La ricerca che trae origine dal catalogo nasce per allargare e non per comprimere in slogan.

Pur con il dovuto riconoscimento alla perizia per l’allestimento di queste tavole, non condividiamo l'artificiosa malia ingannatrice da vetrina che ne guida il percorso. Per noi di IBC è questa una condotta che presuppone una deroga ai vincoli metodologici imposti dal ‘mestiere’; non siamo a favore di un ‘monologo’ espositivo, guidato e concluso nel suo sicuro effetto sensoriale, ma di un dialogo, e il catalogo è la controparte ideale in questo dialogo, un passe-partout che apre a vie sempre erudite.
Le nostre forze intellettuali e i finanziamenti di cui disponiamo, dall’intervento diretto al contributo in compartecipazione, ci vedono con impegno al fianco dei Comuni e delle istituzioni locali; in questa occasione professionalità differenti hanno contribuito all'iniziativa; studiosi che da anni collaborano con il museo e seguono puntigliosamente ognuna delle attività ad esso legate, svolgendo ricerche accurate e diligenti, si sono ‘affiancati’ a chi, come noi, intende - chi per convinzioni personali, chi per spirito di servizio - il ruolo pubblico-morale di questa attività, che si traduce nell’operare sostenuti dalla forza delle argomentazioni e delle convinzioni.

Sgombriamo tuttavia subito il campo dall’idea che concreta ricerca e severa riflessione escludano il piacere di un dibattito scientifico o di una mostra accattivante, importante che gli esiti non si limitino a gradevoli impressioni o suggestioni estetiche.
Del resto informare e divulgare è tra le vocazioni fondative del nostro Istituto, e obiettivo di ogni nostra attività è instillare un’esigenza di conoscenza, contribuire a trasformare dei frettolosi consumatori di eventi in cittadini informati, con la determinazione di far diventare il passato, nella luce del corretto apprendimento, una forza del futuro. Perché è certo che il passato non si conserva soltanto, ma deve vivere nel presente.

La salvaguardia di un bene passa attraverso varie fasi, non ultima certo la valorizzazione, ma in un contesto di operazione culturale complessiva. Prendersi in carico, l’azione di cura, il conservare. Ci sono cose, manufatti, opere dell’ingegno e dell’arte che vanno gelosamente custodite perché sono patrimonio di tutti, vanno difese. Dietro ci sono storie, e quella di Brozzi è storia anche umana, ha dimostrato di avere a cuore il valore della riconoscenza, non ha dimenticato il sostegno del suo Comune agli studi con la borsa che lo portò a Roma e ha ricambiato con un lascito che ha reso possibile la nascita del museo.
Gli strumenti del facile consenso sono un quoziente che sta cambiando la morfologia della società. Un tempo, il presente, di appiattimento e di irresponsabilità diffuse, potremmo dire di ‘populismo’ anche culturale che asseconda il pubblico nell’illusione di appartenenza a una erudizione fasulla favorendo così chi già possiede capacità e strumenti critici di valutazione.

Ribadiamo dunque con forza: oggi, più che mai, non è ammesso il disimpegno.

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