Rivista "IBC" XXVI, 2018, 3

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali / progetti e realizzazioni

A proposito di un progetto europeo.
“Memoryland”: un patrimonio in cerca di futuro

Maria Pia Guermandi
[IBC]

Il così detto  heritage boom che sta caratterizzando, a livello mondiale, questa prima fase del terzo millennio, è connesso anche ad un rinnovato fiorire di studi sul patrimonio fra i quali, fra i più recenti e innovativi, i critical heritage studies.

Poco frequentati in Italia, i c.h. studies – nati alla fine del primo decennio del secolo dal contatto fra accademie e istituzioni inglesi, australiane e svedesi – hanno dato origine, nel 2012, a una associazione internazionale omonima. L’ACHS ( criticalheritagestudies.org) si propone di elaborare e diffondere analisi sul patrimonio culturale e il suo ruolo nel mondo contemporaneo alternative al discorso ufficiale (denominato  Authorised Heritage Discourse in senso foucaultiano) e metodologicamente ispirate ad un’interdisciplinarietà su più livelli.

Tale corrente di studi, cui IBC lavora attraverso un progetto europeo, ha esplicitato, nel manifesto del 2012, la necessità di un radicale ruthless criticism of everything existing, partendo dalla constatazione che il patrimonio culturale sia stato da sempre simbolo e veicolo di strutture ideologiche in grande misura elaborate in ambito occidentale - dal nazionalismo al colonialismo – ed espressione quindi di una visione fortemente squilibrata sia sul piano sociale che etnico ed epistemologico.

Che gli studi sul patrimonio e la patrimonializzazione siano stati storicamente dominati da studiosi occidentali, e in larga maggioranza europei, in particolare esperti in archeologia, storia dell’architettura e dell’arte, ha fortemente contribuito a limitare la loro portata sulla definizione e la gestione del patrimonio stesso che ha per lungo tempo – all’incirca fino agli anni ’70 del secolo scorso – privilegiato gli aspetti monumentali o di valore estetico di edifici, siti e oggetti, quelli che più di altri si prestavano a sostenere i valori connessi alla nazione, le classi e la scienza – positivista in particolare – dominanti.

Per molti aspetti i  critical heritage studies si possono dire eredi dei  postcolonial e dei  cultural studies con cui condividono una critica serrata dell’egemonia culturale occidentale e, dal punto di vista epistemologico, il ricorso ad un ampio spettro di tradizioni intellettuali, fra le quali, in particolare, sociologia e antropologia, come di settori di ricerca quali gli studi sul turismo, la museologia, il cultural resource management e la public history. Dal punto di vista filosofico, infine, l’orizzonte teorico su cui si collocano, anche se con molti distinguo fra i vari studiosi, si richiama all'ambito costruttivista e in particolare alla teoria agent-network di Bruno Latour e, almeno in parte, alla object oriented ontology, non sorprendentemente per un ambito in cui la cultura materiale è aspetto costitutivo.

Così come il passato – o meglio la sua consapevolezza come dimensione altra rispetto al presente – è concetto storicamente determinato che si può collocare con l'avvento dell'era moderna, allo stesso orizzonte storico si può ascrivere l'idea di patrimonio culturale.

Siamo alla fine del XVIII secolo: oggetti e monumenti entrano a far parte costitutiva del patrimonio, assumendo così un diverso status ‘metà culturale’, non necessariamente intrinseco alle qualità dell'oggetto o monumento stesso. È però solo dalla seconda metà del secolo successivo che si avvia quel processo di normalizzazione legislativa che interesserà i principali paesi del mondo occidentale e che in Italia si avvierà, con qualche ritardo, nel primo decennio del XX secolo. In alcune realtà – dalla Francia, alla Gran Bretagna alla Germania – dal punto di vista ideologico è questa la fase in cui il patrimonio diventa strumento al servizio sia della costruzione dello stato – nazione che dell'affermazione dell'egemonia culturale occidentale nel mondo coloniale. 

È nel secondo dopoguerra che può essere collocato un altro momento di evoluzione decisiva del concetto di patrimonio culturale. In particolare a partire dagli anni '70, in una fase di crescente deindustrializzazione e di forte incremento della domanda turistica, il patrimonio culturale conosce un vero e proprio boom a livello popolare. A questo momento storico risalgono non per caso quei documenti internazionali come la World Heritage Convention del 1972 la cui filosofia si incarnerà nella World Heritage List (WHL), strumento di definizione e consolidamento di una sorta di canone del patrimonio mondiale, a partire per lo più da una serie di monumenti tanto significativi da essere considerati come rappresentativi di valori pretesi universali. In questo senso la WHL veicola un'evoluzione del concetto di patrimonio su un orizzonte globale, come patrimonio di una comunità allargata ben oltre i confini nazionali, evoluzione che gli episodi di solidarietà internazionale verificatisi in seguito alle disastrose alluvioni di Firenze e Venezia del 1966, avevano contribuito a sviluppare. 

Nei decenni successivi l'emergere, a livello mondiale, di valori, pratiche e usi alternativi e la decostruzione progressiva del concetto di cultura di matrice occidentale ha costretto l'Unesco a progressivi aggiustamenti: in seguito alle proteste e alle richieste di gruppi e nazioni non occidentali sono così stati introdotti nella WHL i "paesaggi culturali" (1992) e i "patrimoni intangibili" (2003), anche se queste evoluzioni si ispirano piuttosto ad una logica di addizione che di reale ridefinizione del concetto di lista come "elenco delle eccellenze", nel tentativo di mantenere allo strumento un'efficacia rappresentativa allargandone i confini, ma mantenendone le premesse culturali.

La critica a questa logica cominciò a partire dagli anni '80 con la diffusione dei cultural e postcolonial studies e l'introduzione di metodologie antropologiche, particolarmente in ambito nordamericano, mentre, su versante parallelo, condusse all'emergere della new museology. Sempre più radicale divenne, dagli anni '90, la critica alle modalità di rappresentazione interpretate dal patrimonio culturale, prodotti culturali esse stesse espressione dei valori di specifiche élites – scientifiche, politiche, sociali – e che l'antropologia culturale farà confluire nel dibattito sulla proprietà / appartenenza del patrimonio culturale, dando avvio alle querelles tuttora animatissime sul rimpatrio dei beni culturali verso i paesi di origine.

Lo smontaggio delle logiche che sottendono alla WHL come espressione di uno specifico insieme di idee sul patrimonio di matrice quasi esclusivamente occidentale, si è attuata attraverso la decostruzione dell' authorised heritage discourse, cui gli studi hanno attribuito una funzione escludente nei confronti delle minoranze etniche, come anche del pubblico generico e in generale dei non addetti ai lavori per quanto riguarda la rappresentazione ufficiale del patrimonio e la definizione degli usi consentiti. Attraverso queste analisi Il patrimonio è definito non tanto come somma di beni culturali materiali o immateriali, ma come insieme di pratiche e di valori fortemente connessi con la contemporaneità.

L’inizio del nuovo millennio sta conoscendo un rinnovato, esponenziale interesse nei confronti del patrimonio culturale, fenomeno connesso a molteplici fattori fra i quali la fase di ristrutturazione delle economie globali, la crescita del turismo internazionale e i crescenti flussi di capitali, persone, idee e immagini. Di fronte a società sempre più multiculturali, l’UNESCO, nel 2001, ha riconosciuto il concetto di diversità culturale come diritto universale da proteggere quindi, a sua volta, come patrimonio dell'umanità. Quest’apertura, non esente da contraddizioni, ha imposto la necessità di gestire valori e usi fra loro in competizione quando non apertamente in conflitto.

Più in generale, però, è lo stesso concetto di cultura che, come ci ammoniva Bauman, da principio normativo connesso alla regolazione sociale ha assunto, in questa fase della tarda modernità, una funzione di "seduzione" e di spinta al consumo. In questa direzione si colloca l’emergere della così detta experience economy all'interno della quale il patrimonio va assumendo uno spazio sempre più ampio: patrimonio che diventa sempre conservazione del passato e sempre più sua trasformazione in esperienza da vendere e consumare.

Trainato dal crescente successo della così detta heritage industry, il processo di patrimonializzazione si è ormai dilatato a comprendere ogni forma tangibile e intangibile dell’esperienza umana, e, in sostanza, larga parte di ciò che ci circonda, nei nostri centri urbani e nella nostra vita quotidiana. Si comincia a parlare, pertanto, di ‘crisi dell'abbondanza’ che fa parlare taluni studiosi – da David Lowenthal a Marc Augé – di un presente sommerso da un passato con effetti paralizzanti e regressivi. 

Riallacciandosi alle analisi del decennio precedente e riconoscendo il ruolo di crescente importanza sociale ed economica dell’ heritage, i c.h. studies stanno rilanciando gli studi sui processi di patrimonializzazione con l’obiettivo di definirne modalità alternative che possano condurre ad una reale democratizzazione dei processi decisionali sulla definizione e la gestione del patrimonio. In questa direzione si collocano sia il completo annullamento della dicotomia cultura/natura che il tentativo di rovesciare, o comunque ridimensionare, la frattura fra AHD e pubblico generico, così come, naturalmente, l’attenzione al patrimonio culturale “non ufficiale” – inteso come insieme di usi, oggetti ed edifici o pratiche sociali – che pur non riconosciuto dalle autorità pubbliche ha specifico significato per individui o comunità, quali ad esempio, quelle dei gruppi di migranti.

In questa concezione, il patrimonio – in quanto produzione del passato nel presente – viene riconosciuto come processo creativo, assieme prodotto e produttore della modernità occidentale, con tutti i suoi limiti ermeneutici e sociali, e il cui ruolo deve evolvere sempre più verso quello di promozione del pluralismo culturale, aspetto chiave di coesione sociale nelle società plurali che si vanno affermando.

In questo modo potrebbero essere superati i limiti di un patrimonio culturale inteso come una sorta di addomesticamento del passato e banalizzazione della complessità storica (Heritage trumps history, Lowenthal 2016) e in generale i caratteri ambivalenti e spesso negativi connessi alla commodification (che potremmo tradurre come accezione negativa della valorizzazione) quale esito spesso inevitabile dell’ heritage industry, come anche le contraddizioni insite, ad esempio, nella tensione verso l’“autenticità”.

Infine, a fronte della già citata ‘crisi dell’abbondanza’, i c.h. studies propongono la necessità di una selezione mirata, diritto-dovere nei confronti di una risorsa di cui si voglia mantenere la sostenibilità.

Erede di una vocazione all'innovazione culturale e alla sperimentazione metodologica quale quella che ispirò i suoi fondatori nei primi anni ’70, non è perciò sorprendente che l’Istituto per i beni culturali promuova, fra le altre, anche queste nuove correnti di ricerca nel nostro settore. Tanto più se questi filoni privilegiano modalità di ricerca proprie dell’antropologia culturale, come già era nella visione che animò la primissima fase di attività dell’Istituto.

Dal 2016 l’IBC è unico partner italiano del progetto europeo CHEurope – Critical Heritages Studies and the Future of Europe – finanziato nell’ambito del programma Marie Curie Actions – Innovative Training Networks ( cheurope-project.eu), un network di università e istituti di ricerca europei che si propone di definire un percorso di formazione interdisciplinare e transnazionale sulla ricerca e gestione del patrimonio culturale. Per sviluppare la cornice teorica e metodologica di questo nuovo modello formativo CHEurope si richiama in particolare al filone dei c.h. studies. 15 giovani ricercatori provenienti da molteplici realtà europee e non, svolgeranno le loro indagini, guidati dai partners del progetto, suddivise in 5 temi principali: heritage futures, curating the city, digital heritage, heritage and wellbeing, heritage and management.

IBC è coinvolto nel tema che si occupa dei centri urbani nel loro rapporto col patrimonio culturale. Si tratta di un ambito di fondamentale rilievo per quanto riguarda i centri storici delle città europee, nei quali sempre più evidente risulta l’impatto dell’ heritage industry.

Memoryland è d’altronde stata definita l’Europa (McDonald), uno spazio in cui un numero sempre crescente di luoghi va assumendo – attraverso modalità non esclusivamente istituzionali – un carattere di memoria storica e che sta conoscendo processi sempre più accentuati di patrimonializzazione connessi appunto ad un’ heritage industry su cui poggia quel settore in costante aumento che è il turismo culturalein grado di riorganizzare i luoghi urbani, trasformandone radicalmente le funzioni e gli usi.

È un fenomeno che ben conosciamo anche nei nostri centri storici, spesso connesso ad operazioni di gentrificazione, congestione, stravolgimento dei servizi. Accanto a questi, gli spazi urbani che man mano entrano nei circuiti turistici sono interessati da altri processi non meno pericolosi per mantenere livelli di competitività e attrattività adeguati alle domande di consumo. L’industria turistica presenta una capacità dirompente di omogeneizzazione e riduzione delle diversità culturali, in aperto contrasto con quegli obiettivi di tutela della diversità propri di una corretta gestione del patrimonio.

Sul piano sociale, infine, quest’evoluzione sta portando ad una sorta di competizione, quando non di vero e proprio conflitto fra cittadini e turisti per quanto riguarda l’uso della città e l’accesso al patrimonio, tanto che quest’ultimo comincia ad essere definito come vero e proprio conflicted heritage.

Eppure il turismo rimane un’importante occasione di sviluppo, non solo economico: motivo di reinvenzione del futuro dei luoghi che hanno, spesso a causa del difficile passaggio verso un’economia postindustriale, la necessità di costruire una nuova immagine di sé, sia all’esterno che per i propri cittadini. Il tema di CHEurope si pone l’obiettivo di produrre analisi che possano servire a comprendere e governare le ambivalenze e criticità di fenomeni così importanti per il futuro dei nostri centri storici e del nostro patrimonio in generale.

 

Per saperne di più

“International Journal of Heritage Studies”

R. Harrison,  Heritage: critical approaches, Routledge 2013.

S. McDonald,  Memorylands. Heritage and Identity in Europe today, Routledge 2013.

D. Lowenthal, The Past is a Foreign Country. Revisited, Cambridge University Press 2016.

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