Rivista "IBC" XXVI, 2018, 3
biblioteche e archivi / storie e personaggi
È proprio vero, come ebbe a sostenere John Henry Newman, il grande teologo inglese per il quale l’esistenza umana può solo essere una partecipazione corale, che la vita più autentica d’un uomo si ritrova nelle lettere che ha scambiato con i suoi simili. Se ne ha una probante conferma nel cospicuo lotto di missive provenienti dall’archivio, appartenuto a Giovanni Papini, delle riviste “La Voce” e “Lacerba”. Mentre gli autografi delle opere letterarie sono depositate nella biblioteca Malatestiana di Cesena, in quanto comprendono tra l’altro la minuta dell’ Esame di coscienza di un letterato di Renato Serra, un manipolo di novantotto lettere si trova presso l’IBC, Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, e costituisce, pur nella sua frammentaria parzialità, un insieme di primaria importanza per conoscere da vicino le personalità e le discussioni che in Italia diedero vita alle avanguardie di primo Novecento. Trattandosi di lettere private, la loro prosa è priva di schermi diplomatici o di infingimenti e impressionano per la sincerità a volte perfino brutale. Se, come è stato detto, con i movimenti d’avanguardia la letteratura esce dalla reticenza, a maggior ragione ciò è avvenuto quando i loro protagonisti affidano i giudizi alle scritture private dei carteggi.
Giuseppe Prezzolini, che evidentemente non riesce a cogliere la novità dirompente delle glossolalie di Palazzeschi, non si fa scrupoli nel dolersi che questo poeta “caschi poi spesso nel banale e nel puerile addirittura”. Papini non è meno franco nel dire a Slataper che, se guarda le sue poesie “dal punto di vista dell’originalità, della personalità, dell’immediatezza energica, della franchezza, semplicità e libertà linguistica”, non può che trovarle “piene di quei clichés, di quei soliti accoppiamenti eterni, usati e frusti di parole” che le rende prive del “genio”. Chi emette sentenze così impietose al diretto interessato è un giovane di 28 anni, chiamato da qualcuno “Papinello” forse proprio per la sua età, che tuttavia non gli impedisce di trinciare giudizi così impietosi e taglienti. La sua autorevolezza è comunque fuori discussione ed è considerato davvero un maître-artiste, come lo definisce Paolo Orano in una lettera del 1912.
Paradossalmente le avanguardie sono poetiche di gruppo ma a chi non si allinea sul programma comune, subito tacciato di eresia, resta soltanto la via della secessione, secondo una dinamica sociale connotata da un alto tasso di litigiosità di cui gli scambi epistolari sono le testimonianze più vive ed esplicite. Da questa porzione dell’archivio della “Voce” e di “Lacerba” emergono i contrasti virulenti tra Ernesto Bonaiuti e Prezzolini, tra Papini e Panzini, tra Prezzolini e Giovanni Amendola o ancora tra Prezzolini e Borgese, ma il culmine dell’aggressività è raggiunto da Dino Campana, che arriva a sfidare a duello Marinetti, dopo che Papini, Soffici, Palazzeschi, Tavolato, essendo a suo dire “infinitamente vigliacchi”, si erano rifiutati di battersi con lui. Nella sua mania di persecuzione Campana accusa i “futuristi” di non volergli restituire i suoi manoscritti e di farlo sorvegliare dalla Questura che lo perseguita. Campana dispone anche che il padrino di Marinetti dovrà essere Carrà e che l’arma prescelta sia la sciabola, perché è con questa che vuole lasciargli una indelebile “cicatrice”. Ma la cosa che più gli preme è che lo sfidato a duello gli mandi il denaro necessario per compiere “il viaggio in terza classe” fino al luogo della disfida, “più 5 lire” per le altre spese: un modo davvero singolare di venire a tenzone, se chi viene sfidato è tenuto preliminarmente a coprire anche le spese dello sfidante.
L’episodio, di per sé aneddotico, è peraltro indicativo dell’agonismo di questa generazione. Non è un caso che il connotato più vistoso delle avanguardie, proprio perché formate da giovani, sia un atteggiamento dissacratore e antagonista votato all’insubordinazione e a pronunce sovversive. Ecco allora un Soffici ventitreenne che, nel dare vita alla rivista “Leonardo”, si propone pregiudizialmente di scrivere “dei medaglioni dell’arte francesi” con cui “stroncare certi capoccioni francesi” di cui sa di poter “giudicare giornalmente l’anima fangosa”. E a un Ungaretti appena ventisettenne un amico francese raccomanda di essere “passionné comme un ouragan” e “chaud comme une rivière de sang”. Ma dai carteggi acquistati dall’IBC non promana soltanto l’ardore di una generazione infiammata e incendiaria – e L’incendiario è il titolo della raccolta del 1910 del primo Palazzeschi – ma anche la loro feriale quotidianità, di quando scendono dall’alto piedistallo del loro titanismo prometeico. Un Prezzolini en pantoufles, dimessa la veste dell’agitatore, ammette di essersi molto stancato dopo un viaggio in bicicletta. Dal significativo lotto di lettere inviategli tra il 1903 e il 1904 da Giovanni Vailati lo si può immaginare mentre discetta pacatamente di logica, di psicologia, di scienza, di etica. Sono situazioni che confermano ciò che emerge dal suo carteggio con Papini già edito da una quindicina d’anni, nel quale Prezzolini ricorda di avere con Vailati “scartabellato tutto il mondo filosofico”, addentrandosi “per tutti i gineprai della teoria conoscitiva”, senza avere “disdegnato la vecchia metafisica”, mentre facevano insieme “cinque giri intorno al Castello, traversata Milano 2 volte da una parte all’altra, coperto un tavolino del Biffi di cifre e di figure”.
Ci sono però anche aspetti meno confessabili che attestano le precarie condizioni di vita di letterati e artisti non ancora affermati che si arrabattavano per arrivare alla fine del mese. Giuseppe Vannicola, un violinista di qualche talento che suonò anche con Toscanini, chiede attraverso Amendola un prestito a Papini quale anticipo di un suo lavoro. Gino Severini, amico di Picasso e di Modigliani, confinato ad Anzio per curare la tubercolosi, chiede a Palazzeschi di intercedere presso un committente di suoi quadri perché gli versi quanto gli spetta, per potere pagare l’affitto e curare la sua malattia. Ancora Severini chiede a Soffici una raccomandazione per il padre, “povero ufficiale giudiziario” che da cinque anni si sente recluso “in quella schifosa Pienza”, in modo da fargli ottenere un trasferimento a Montepulciano. Continue sono poi le deprecazioni e le imprecazioni contro la tirchieria degli editori che non pagano i compensi dovuti ai loro autori. È in particolare Carabba a essere raggiunto dalle lamentele. Papini per placare il disappunto di Slataper gli ricorda che “la miseria è grande” e che, nonostante ciò, l’editore “comincia a mescere”, sia pure “a gocciole”. In realtà le inadempienze mettono a dura prova gli scrittori che lavorano per questo editore. Il poeta Vittorio Locchi, che nel ’12 aveva consegnato a Carabba un volume di Strambotti e ballate per una collana diretta da Papini, si rammarica che ancora due anni dopo gli “si protrae il compenso”, trattandosi per giunta di una “meschinissima somma”.
D’altra parte le tensioni tra autori ed editori sono una costante di ogni tempo e ne è prova una piccola porzione di tre lettere extravaganti di Carducci giunte non si sa come in possesso di Papini, che poi negli anni le avrebbe prestate ad Albano Sorbelli per essere pubblicate nell’edizione nazionale della Zanichelli. Anche in queste sedi Carducci esprime giudizi tranchants sulle possibili sedi editoriali, ritenendo il livornese Vigo un editore “non forte” e la “Nuova antologia” un “dock magazzino di merci d’ogni genere”, che per giunta “paga poco”. Meglio allora proporre al suo editore Barbera di pubblicare una brochure che raccolga un ciclo di sue lezioni sui “principii informatori della lett. nazionale nei primi tre secoli”.
Non diversamente le lettere dei compagni di strada raccoltisi intorno alle riviste di primo Novecento appaiono un’officina di idee da cui fermentano in continuazione progetti e imprese. È tutto un andirivieni di proposte, di giri di bozze, di bibliografie, di raccolte antologiche, di suggerimenti di letture. Da questo punto di vista i carteggi di questi intellettuali fungono per un verso da incubatrici di nuove creazioni e per un altro verso da centrali di smistamento di lavori. Soprattutto elaborano i programmi delle riviste, prefigurando la loro politica culturale e le loro ambizioni di innovare dalle fondamenta una tradizione letteraria ritenuta obsoleta. Quando ancora il “Leonardo” è in gestazione, alla fine del 1902, Soffici esprime la propria gioia nel vedere che “giovani forze si riuniscono in un’opera di demolizione coraggiosa e di edificazione feconda”. In un contesto non del tutto chiaro in cui si pensa già al “Leonardo” quale intestazione del nuovo periodico banditore di “un gran verbo artistico” si legge anche, “ritorn ando al giornale”, che, “se il titolo non è bene stabilito”, Soffici vorrebbe proporre “quello di Perseo”. Ma quel che più conta ne è la motivazione, dissacrante ed eversiva: “Perseo giovinetto che taglia la testa alla Medusa malefica sarebbe un simbolo eloquente. Oh la gioia di tagliare alle radici la testa a questa malefica arte che pietrifica quanto tocca!”. Il fatto che il corrispondente sia Giovanni Costetti, l’artista che sulla pagine del “Leonardo” si è firmato proprio “Perseo”, fa pensare o che questi avesse in mente un’altra testata parimenti di rottura, oppure che Soffici voglia in realtà riferirsi non già alla nascente rivista, ma appunto allo pseudonimo con cui poi si sarebbe firmato il suo amico di penna.
Dalle lettere del fondo Papini posseduto dall’IBC affiorano anche i retroscena che riguardano “La Voce”. Nel momento in cui Prezzolini, nel ’12, si dimette da direttore a seguito dei dissapori con Amendola, Papini ne assume per qualche mese le redini, sollevando le proteste di Slataper, informato del cambio della guardia se non a cose fatte. Il neodirettore, pur respingendo l’accusa di “napoleonismo”, mette subito in chiaro che ci si deve uniformare al suo volere, deciso a non “seguire troppo pedantescamente la falsariga della tradizione vociana”, fino a far diventare la rivista “prevalentemente un giornale di cultura (cioè anche di letteratura, d’arte ecc.)”, dando ragione a chi ha sottolineato, rispetto alle altre riviste d’avanguardia, il suo carattere più eclettico.
Così non è stato per l’altra rivista fiorentina, “Lacerba”, spiccatamente di parte, dedita a sostenere e a diffondere il futurismo. Molte sono del resto le pronunce che dal carteggio si levano a favore di questo movimento, cui per lettera vorrebbero aderire in molti, anche poco credibili in questa veste, come è il caso del pornografo Pitigrilli, il quale promette l’invio di un suo “manifesto della poesia umoristica futurista” dopo avere offerto con i suoi versi “la prova certa, palpabile della sua fede antipassatista”, ritenendosi così degno di essere annoverato “non come gregario, ma soldato effettivo”. O come è il caso di Bino Binazzi, che dopo le “ultime titubanze” fa cadere ogni “ritegno a dichiarar si pienamente futurista”. Ma ben più di queste velleitarie adesioni di adepti dell’ultim’ora, a rifornire i fascicoli di “Lacerba” intervengono quelli della prima ora, a cominciare da Marinetti, che con il consueto piglio perentorio di chi è avvezzo a comandare invia a Soffici, perché li pubblichi all’istante, un articolo di Carrà, uno di Auro d’Alba, uno di Pratella, a riprova che il futurismo non si è voluto precludere alcuna esperienza artistica, fosse la pittura, la poesia o la musica. Né è da meno Carrà, che da Parigi manda un componimento di “parole in libertà” declamate al Café d’Harcourt, frequentato in primo luogo dai più ribelli degli studenti della Sorbona.
Trattandosi di un movimento che ambiva a tuffarsi con vigore nella vita e nell’azione, il futurismo, più che affidarsi ai libri (“tediosi, ingombranti e rallentanti”, colpevoli di “raffreddare l’entusiasmo” e di “troncare lo slancio” a detta di Marinetti), ha sempre preferito esibirsi in happenings capaci di trasformare il pubblico da “stupido voyeur” in componente attiva e rumorosa, fosse anche ostile. Se Carrà non dà conto di ciò che avvenne al Café d’Harcourt, lo fa Marinetti, reduce dalla storica serata del primo concerto futurista tenutosi al Teatro Dal Verme il 21 aprile del 1914, nel corso del quale i futuristi fecero irruzione in platea aizzando il pubblico con le loro provocazioni. Dal colorito reportage epistolare inviato a Soffici si viene a conoscenza, quasi in tempo reale, dei tafferugli e delle colluttazioni che ne seguirono, con Luigi Russolo, estensore dell’ Arte dei rumori e inventore dell’“intonarumori”, che prese a schiaffi il critico musicale e deputato del Regno Agostino Cameroni, reo di avere duramente criticato il concerto. Per tornare di nuovo, in circolo, a un’altra riflessione del cardinale Newman, secondo cui “il sistema accademico è un circolo artico” per la freddezza glaciale delle sue asettiche pronunce, verrebbe da concludere che al contrario dagli scritti epistolari di questi avanguardisti si sprigiona l’acre sentore sulfureo di un incendio innescato da un incontenibile furore iconoclasta.
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