Rivista "IBC" XXVI, 2018, 3
musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi / editoriali
La radice è la medesima, ma il significato è assai diverso. Il patrimonio individua le “cose” già finite nel perimetro della tutela/conservazione/valorizzazione; la patrimonializzazione, è il processo inclusivo, integrativo che amplia la sfera del patrimonio. In che direzione? Con quali finalità? Una lettura univoca manca. Da un lato, le “arche del patrimonio”, i siti deputati alla trasmissione dei beni, boccheggiano, in perenne crisi di risorse. Dall’altro, però, mai come in questi ultimi anni è cresciuta la domanda di patrimonializzazione, cioè la richiesta di valorizzare oggetti, comportamenti, tradizioni, ecc. Perché questa divaricazione? Anzitutto, perché parliamo di attori diversi. I titolari del patrimonio sono istituzioni – nazionali e locali - o privati che hanno a che fare con dotazioni finanziarie date, e che quindi devono scegliere come e dove allocarle. Essi si avvalgono di una (piccola) schiera di professionisti, il cui difficile compito è assicurare un punto di equilibrio sostenibile fra gestione, ricerca, divulgazione. In questo ambito, domina il principio di responsabilità anche se, a causa della penuria di mezzi, non di rado accompagnato da un senso di rassegnata, permanente frustrazione. I titolari della domanda, viceversa, sono gruppi, comunità, associazioni, appassionati, reti di collezionisti, talvolta singoli individui particolarmente tenaci: essi sono portatori di una larga e assai variegata richiesta “dal basso”, connotata da un alto tasso di irresponsabilità. Attenzione! Non mi riferisco, ovviamente, alla irresponsabilità in senso morale, ma in senso giuridico/sostanziale. In altre parole, non sono loro a decidere. E tuttavia, in quanto cittadini, essi rivendicano una politica del patrimonio che renda la patrimonializzazione un processo più ampio, più collettivo, più condiviso, più sociale. L’esatto opposto di quanto prevede il Codice e di quanto comunica la stessa struttura amministrativa del Ministero sorto nella temperie del 1974-1975, con i suoi funzionari, i suoi esperti, i suoi saperi tecnici sofisticati.
Chi ha ragione? La domanda, posta così, non è corretta. Non si tratta, infatti, di scegliere fra un modello elitario ed uno democratico, fra una patrimonializzazione “dei sapienti” ed una “del popolo”. Occorre, viceversa, un’analisi fine della partita in atto, che trascende il patrimonio nel senso tradizionale del termine. La patrimonializzazione, oggi, non è più il frutto di un recupero di senso operato a distanza di tempo, una volta venuta meno la funzione originaria dell’oggetto: allora, il percorso culturale era nitido, nonostante i moventi della conservazione, alla radice delle tante valorizzazioni originarie, fossero stati i più vari: ideologici, politici, religiosi, ecc. Ai nostri giorni, ciò che si vorrebbe patrimonializzare sovente sta nel presente, appartiene ad una sfera di significato che non si pone in termini prospettici, lungo un asse passato/futuro. Persino l’interesse per manufatti o “cose” vagamente antiche, in questa lettura, prescinde in molti casi dalla valutazione forzatamente selettiva che presiede alla qualificazione dell’interesse e alla decisione conseguente di stanziare risorse, secondo il ragionevole principio in base al quale quello che potrà restare di noi, anche solo fra un secolo, sarà molto poco, ed è quindi sensato vagliarne con cura l’accesso all’“arca”, all’“ultima dimora” (come dicevano i francesi del periodo rivoluzionario). Ciò non stupisca. La perdita di contatto con la responsabilità transgenerazionale è evidente ovunque, dalla gestione del debito pubblico all’esigibilità dei diritti acquisiti: perché, nell’ambito del patrimonio culturale, dovrebbe avvenire qualcosa di diverso?
Eppure, di fronte a questa deriva, che rischia di sostituire un patrimonio plurisecolare di “cose” con uno, assai più recente, intessuto di azioni, di pratiche, di “neo-beni” programmaticamente estranei alla sfera della tutela d’antan, la funzione di un Istituto come il nostro non è destinata a declinare. All’opposto, proprio perché l’attenzione alla tutela/conservazione non ci appartiene direttamente, essendo in capo ai titolari dei “giacimenti” (soprintendenze, musei, biblioteche, archivi, depositi e collezioni), a noi spetta entrare nel dibattito sulla patrimonializzazione e cercare una via plausibile e condivisibile fra quello che è in fondo un bisogno di partecipazione e di rappresentanza fuori dalle vie classiche, e quella che resta la “tradizione italiana”, incardinata nell’art. 9 della Costituzione e giù giù per li rami fino all’ultimo funzionario del Ministero e all’ultimo curatore di museo. Perché proprio a noi? Perché la Regione, in questo come in altri campi, non esprime autorità, ma offre, o dovrebbe offrire, competenze, idee e servizi abilitanti a supporto diretto delle comunità locali, in una prospettiva di crescita. E perché l’IBC, in questo un unicum nazionale, avrebbe per di più l’ambizione di imprimere a queste competenze, idee e servizi abilitanti uno spessore culturale e di riflessione aggiuntivo, per rispondere alla sua originaria vocazione formativa, oltre che informativa. Ci riusciremo? Io penso di sì.
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