Rivista "IBC" XXVI, 2018, 2
Dossier: La Regione e le sue lingue
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La questione dei dialetti è quanto mai intricata, tanto dal punto di vista teorico, quanto da quello pratico. E lo è a maggior ragione se si parla di poesia, perché i dialetti sono stati fino almeno alla Seconda guerra mondiale le lingue dell’anima autenticamente popolare della nostra nazione, dove ogni singolo borgo possiede un proprio dialetto specifico, ma sono lingue spiccatamente orali: a scriverle, si rischia di fargli fare la fine delle farfalle nelle collezioni degli entomologi, allineate su tavole di legno e lì trattenute da impietosi spilloni.
Eppure, tanto per continuare nel paradosso, l’Ottocento annovera tra le file dei dialettali due dei più grandi e attuali poeti europei, il milanese Porta e il romanesco Belli, per continuare col napoletano Di Giacomo, l’altro milanese Tessa, i veneti-giuliani Noventa, Giotti, Marin, il Pasolini friulano, per arrivare al folto gruppo dei poeti efficacissimi a partire dagli anni settanta del ‘900, il ligure Bertolani, il milanese mistilingue Loi, i veneti Zanzotto, Cecchinel e Franzin, il siciliano De Vita, il luzzarese Zavattini, il piemontese Bertolino, fino agli straordinari santarcangiolesi Guerra, Pedretti e Baldini, cui si devono aggiungere almeno il cervese Baldassari, l’altro santarcangiolese Fucci, il ravennate Spadoni, il fusignanese Bellosi e il notevolissimo faentino Nadiani.
Da questo stringato e davvero troppo avaro elenco, è facile desumere come la poesia in romagnolo abbia una marcia in più rispetto a quella prodotta nella finitima Emilia: in questo caso, il trattino che separa le due parti della nostra regione è necessario e addirittura benemerito. È difficile in queste poche righe avanzare anche solo qualche congettura sulle ragioni di questa separatezza. Sia perché gli idiomi romagnoli sono parlati anche da un certo numero di rappresentanti delle generazioni nuove (fatto che in Emilia assolutamente non sussiste), tanto che in romagnolo scrivono oggi anche due giovani poeti di qualità indiscussa come Annalisa Teodorani e Francesco Gabellini; sia perché la lezione fondamentale del Pascoli, nella sua “Romagna solatìa dolce paese” è stata più a portata di mano che da altre parti; o sia infine perché nelle province romagnole le diverse ondate migratorie hanno avuto un impatto meno accentuato che in quelle emiliane: in ogni caso, la poesia è una cartina di tornasole dall’esito spietato nel determinare la qualità e la vitalità tutte diverse della poesia neodialettale fra Romagna ed Emilia.
L’unica eccezione, per valore indiscutibile, è costituita oggi dalle ottave del sassolese Emilio Rentocchini, che sono tuttavia oggetti bilingui fra la prima veste – metricamente ineccepibile - in dialetto (espressa però in un dialetto sassolese che per le strade di Sassuolo non esiste: è lingua insieme di pensiero e di poesia, come il provenzale dei trovatori) e la seconda – metricamente più libera, ma qualitativamente non inferiore – in versi italiani. Nelle altre province emiliane, non c’è stato alcun ricambio generazionale, dopo lo spegnimento naturale della generazione dei poeti che oggi conterebbero fra i novanta e i cento anni, dal piacentino Cogni agli eredi parmigiani del Pezzani, dal reggiano Serra ai modenesi Zucconi, Zanasi e Bisi.
Forse per questo abissale silenzio nel quale ho sentito di anno in anno cadere quell’idioma modenese che tanto di frequente usciva con atto naturale dalla bocca di mio padre e dei miei nonni materni, ho deciso recentemente di provarci anch’io, a raccogliere un libretto di poesie in dialetto: il merito o il demerito è di Nina Nasilli, una poetessa veneta, brava tanto in dialetto quanto in italiano, che mi ha strappato dal cassetto le poesie modenesi che avevo abbozzato negli anni Novanta, per provare a mettermi alla stessa altezza linguistica di mio padre Gilberto, ormai alzheimeriano, e mi ha ingiunto di provare a scriverne qualcuna nuova. Così, siccome non so dire di no alle persone che stimo, poche settimane fa è uscito, per Book Editore, Zàndri/Ceneri, che annovera una trentina di testi in dialetto modenese, accompagnati dalle relative traduzioni in prosa italiana: una prosa sulla quale ho lavorato quasi più che sui versi, perché non fosse solo di servizio, ma avesse una sua forza e una sua necessità in italiano, vale a dire nella mia lingua materna e naturale.
Materna, certo: perché io sono nato e cresciuto a Modena come il provinciale di classe subalterna che anche oggi sono, vivendo nella stessa casa coi genitori e coi nonni materni nonché accompagnando mio padre tutte le domeniche mattina al suo circolo incastonato fra lo Stadio Braglia e il vecchio ippodromo cittadino. Tuttavia, e la cosa può sembrare incredibile, mia madre è riuscita nella titanica impresa di impedirmi d’imparare il mio dialetto: l’unica riuscitale, in fondo, perché sul resto le ho tenuto testa piuttosto bene, capovolgendo sistematicamente tutti i consigli, gusti, pareri, diktat che ha cercato d’impartirmi e d’impormi nel corso dei quasi sei decenni in cui ci siamo frequentati. Ovviamente, lo comprendo alla perfezione, il modenese, anche se non ho mai avuto una grande inclinazione per le lingue straniere: però per parlarlo devo tradurre mentalmente dal volgare illustre (ma pur sempre fiorentino) di sì che è la mia vera lingua materna.
Quella di mia madre per l’italiano grammaticale e letterario, cioè per il toscano della sua acculturazione di maestra ai tempi del fascismo, era una vera e propria ossessione e io ne sono stato la vittima predestinata. Cosa le costava lasciarmi imparare una lingua in più? Devo anche aggiungere che il mio unico e venerato maestro bolognese, Ezio Raimondi, era sì di origine spiccatamente dialettofona, essendo nato nel seno di una famiglia modesta ubicata prima in via del Borgo di San Pietro e poi in via Mascarella: ma il suo insegnamento critico era internazionale come pochi, evitava accuratamente ogni provincialismo e le sorti delle “piccole patrie” le sfiorava appena, a favore piuttosto di un’idea attiva e proficua di Letteratura Mondo. Solo oltre gli anni ‘70, commentando da par suo I promessi sposi, ne avrebbe colto la radice profondamente dialettale e qualche volta era buffo sentirlo storpiare il milanese, al servizio di una sensibilità acustica comunque straordinaria. Raimondi sembrava allora inseguire fino ai meandri più reconditi l’inesausto lavorìo compiuto da Alessandro Manzoni nel tradurre parola per parola il suo romanzo dall’anima lombarda dell’ispirazione verbale profonda alla forma sempre più toscana del romanzo in via di compimento.
A dire oggi quanto sia importante il dialetto anche come lingua letteraria, non posso non fornire un piccolissimo esempio pratico. Leggendo una delle ultime poesie del grande pietroburghese Iosif Brodskij, in inglese e intitolata A song/Una canzone, mi è venuto naturale tradurla di getto in modenese. Un peccato di hybris che spero mi venga perdonato. Ed eccone il risultato: “ Canzòun. A vrév che tè t’ fóss chè, amôr,/ a vrév che tè t’ fóss chè./ A vrév che t’ fóss a sêder mêgh/ sul sofà, chè atê∫./ E a-l s’rà tô al fazulàtt,/ mo i én mê i zìi môii, al nè∫ alvèe./ Però, ch’a sia cèr,/ a prév éser anch a-l’arvêrsa.// A vrév che tè t’ fóss chè, amôr,/ a vrév che tè t’ fóss chè./ A vrév che t’ fóss/ in zémma a la mê màchina/ e che t’ém cambiéss el mèrć./ A-s catarévemm chi sa dove e quànd/ su ‘na spiàζa mai cuvérta./ O forsi da tótta ‘n’ètra pèrt/ ind-va sàmm bèle stèe.// A vrév che tè t’ fóss chè, amôr,/ a vrév che tè t’ fóss chè./ A vrév che quànd/ a-s tàca a vàdd’r el stràlli/ tè t’én savéss gnint/ mo gnint da bòun dal zêl/ e l’istàss quànd la luna/ la caràzza al mèr,/ che mèint’r a-l dòrem/ a-l suspìra e a-s môv dintôren./ E alóra a vrév avêr/ in bisàca un mèζ bugnìn/per ciamèr’t al teléfon.// A vrév che tè t’ fóss chè, amôr,/ da quàsta pèrt dal mànd,/ mèinter mè asûn/ a sêder sàtta al pòrtegh/ a bàvver la mê béra./ L’è sìra, al sôl a-l sparéss,/ i ragazôl i mòlen/ di ùrel da spavèint/ e i gabiàn i fàn i sô vérs.// Gh’àmmia quèl da scurdères,/ se un àtim dàpp/ a tucarà a nuèter/ d‘êser seplìi?”
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