Rivista "IBC" XXVI, 2018, 2

Dossier: La Regione e le sue lingue

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Il dialetto è un “scramlézz”. Intervista a Stefano Delfiore

Bruno Capaci
[Docente di Didattica della Letteratura italiana e di Letteratura e retorica, Alma Mater Studiorum - Università degli Studi di Bologna]

Dietro il bancone della sua drogheria seduto sul banzulén con un sorriso malinconico e sornione ma comprensivo dell’umano, oppure in piedi nell’atto di versare ai clienti, spumeggianti Franciacorta o riposati vini rossi, rigorosamente non tuscany, Stefano Delfiore parla raramente dialetto ma in un italiano colto e proteiforme. Eleganti allusioni testuali e variegati disfemismi fanno parte del suo approccio non facile, ma unico, e per questo molto apprezzato da chi non si offende se qualche carapace di parole vola giù dal bancone colpendo gli “osterianti”, o meglio la loro dispersiva eloquenza.

Il dialetto, la lingua materna, è dedicata alla scrittura, all’universo che si apre quando alle 21, non senza una breve vituperatio dei più entusiastici indugi enologici, Stefano abbassa con sollievo non dissimulato la serranda di uno dei locali più classici di Bologna e sparisce con la sua bici sotto i portici. Un poeta solitario sguscia così dai ruoli di anfitrione e di oste plurilaureato. Da tanti anni Stefano riceve gli attori della comédie humaine che sciama ogni sera tra i portici via Petroni 9. Ma forse coloro che si schierano a falange macedone, per contendersi parole e noccioline, intorno al bancone della mescita non sanno che il mentore dei loro esercitati palati è autore di versi che arrivano come un «sbrêgh d’ luseégnn/ indóvv enfein cl’ariva lé/ la lénnea dal/ cunfén dal cor».

«È la lingua di mia madre ,come pensare che ne possa fare a meno». Mi hai detto una mattina mentre fumavi la tua sempre troppo breve sigaretta sotto i portici della butaiga. Ho insegnato diversi anni Dialettologia italiana ma ho capito tutto questo il giorno in cui l’ho persa: lo stesso in cui ho deciso di trasformare questo articolo in una intervista. Il dialetto come lingua dell’evocazione più che della rievocazione, come parola che ci dà l’accesso alla lingua di chi non c’è più.

Un dialetto non facile quello bolognese, foneticamente complesso per la caduta delle vocali non accentate, (atone, postoniche e pretoiniche) il conseguente compattarsi delle consonanti in gruppi quasi impronunciabili, fenomeni alleviati dalle dittongazioni metafonetiche e dall’appoggio prostetico di inizio parola, dalle resistenti finali in “i” dei nomi femminili, facilmente accordabile da chi non ne comprenda le sottese vibrazioni.

Come riesci a toccare le corde dei significanti in modo così raffinato avendo a che fare con un dialetto arduo e riottoso nonostante l’urbanità della città che lo ha nel cuore?

“Niente sogni. Questa lingua non sopporta il canto, guasta la poesia, come il gelsomino tra le mani del bifolco”. Così scriveva Giuseppe Raimondi in Notizie dall’Emilia (1). Negli anni ’80, avevo maturato l’idea di scrivere in dialetto o, forse, ero rimasto colpito dal riemergere, o dal rinvenimento, dai meandri del mio inconscio della potenza di quella parlata, che in fondo era la mia prima conoscenza del mondo, quella che sin dall’infanzia era stata la mia lingua, quella in cui si esprimeva mia madre. Lingua, la cui poesia evocativa, non poteva avere eguali con l’italiano imbolsito e televisivo di quegli anni (e di questi).

Andai a trovare Giuseppe Raimondi e gli portai in regalo un rametto di gelsomino. Non ci conoscevamo. Aveva accettato di incontrarmi. Appena mi vide con quel gelsomino in mano, mi disse in dialetto, indicando il rametto: «Mó quàlla l’é roba par c’al dôn...». Così nacque in me la convinzione di accettare la sfida. Quel raffinato prosatore d’arte che nei suoi racconti spesso usava schegge in dialetto, cercava di dissuadermi sull’utilizzo in poesia del bolognese – «come il gelsomino tra le mani del bifolco...».

Io non potrei mai usare il dialetto in prosa, perché è la poesia il luogo dove può avere un senso oggi, parlare una lingua ‘morta’ come il bolognese. Anche se ritengo che i dialetti non moriranno mai finché ci saranno la poesia e i poeti dialettali.

Potere evocativo e sovente onomatopeico della parola e del suono di questa lingua che accende in un istante una reazione a catena incontrollata. Pensa per esempio alla parola ‘scramlézz’, che non possiede una sola traduzione possibile, certa e completa (brivido, brivido di freddo, di paura, sussulto, tremarella).

Come nascono i tuoi testi? La voce che le detta dentro è davvero quella materna? Oppure sono opera di una traduzione attenta, meticolosa, quasi estenuante. Leggendoli il dubbio un po’ resta…

I miei testi nascono subito in dialetto. Non potrei mai pensarli prima in lingua e poi tradurli, quale che sia la mia ispirazione. Il potere del dialetto sta nella sua forza eversiva, che scardina, astrae, riconduce, nella immediata realizzazione di un’emozione senza l’ausilio di alcuna circonlocuzione, nella sua profonda, estrema, quasi esoterica musica. E la poesia, io la concepisco prima di tutto come uno spartito.

Anche se il bolognese è lingua dura, gutturale, terragna, ma che possiede una sua ispida, pungente armonia.

Se è vero che già i poeti non sono letti di frequente, quali possibilità ha di essere letto un poeta dialettale?

Triste è il destino della poesia nella realtà contemporanea. Quasi fosse un fastidio, quasi un dispitto al mondo. A volte mi sorge il dubbio che possa essere sempre stato così. Ma non è vero. Questa è l’epoca di Internet, Facebook, whatsapp, selfie. È un mondo che è cambiato ancora una volta inopportunamente.

Dura, per un autore, cercare di farsi ascoltare o anche solo sentire, in questo deserto emotivo.

Durissima, per un autore che si esprime all’interno di un microcosmo che è quello del dialetto.

Poi c’è il mondo editoriale, grande e piccolo. Quello importante non se ne cura se non di malavoglia, perché la poesia non crea profitto, e i piccoli editori vanno guardati con molta attenzione, perché quelli di qualità sono veramente pochi, e tutti gli altri, per edizioni raccogliticce e assenza di distribuzione, chiedono soldi. È pur vero che a qualsiasi artista la società non chiede nulla. Vuoi scrivere? e fallo, affari tuoi.

Esiste una tradizione di poeti dialettali bolognesi rispetto alla quale ti poni?

Non ho riferimenti con autori di tradizione bolognese, perché credo ad oggi di essere l’unico o uno dei pochi a riferirmi all’esperienza neo-dialettale. Quella cominciata con Tonino Guerra (I Bû), dove il dialetto viene assunto come lingua dell’esperienza poetica, e non viceversa la poesia, come mezzo per adoperare il dialetto.

Nella tradizione. Sia in prosa che in versi il dialetto si manifesta in modo nostalgicamente vernacolare. I temi ricorrenti: rimpianto, nostalgia di un mondo che non è più, versioni di pièces classiche del teatro strapaesane, con effetti grossolanamente comici; o uso ed abuso della famosa ‘zirudèla’ con forma metrica di rima baciata. Reiterazione, rievocazione di un mondo che non potrà tornare.

Niente di meglio per seppellire una lingua che relegarla nel suo Piccolo Mondo Antico.

Note

  1. Giuseppe Raimondi, Notizie dall’Emilia, Torino, Einaudi, 1954.

 

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