Rivista "IBC" XXVI, 2018, 2
Dossier: La Regione e le sue lingue
Sono nato nel 1954 in una famiglia contadina di Maiano, nella Romagna estense, e a me, come ai miei coetanei maianesi, i genitori hanno insegnato solo il dialetto. Poi negli anni del boom economico padri e madri che tra di loro parlavano in dialetto decisero che ai figli era opportuno insegnare non la propria lingua, ma l’italiano, perché il dialetto era sentito come espressione e simbolo di un mondo arcaico, fatto di stenti, di povertà, di ignoranza, mentre l’italiano sembrava essere la lingua del progresso e della modernità. Ci sono famiglie nelle quali ai figli nati prima del ’60-’65 è stato insegnato il dialetto e ai loro fratelli o sorelle nati qualche anno dopo è stato insegnato l’italiano. La scelta compiuta allora ha determinato la situazione linguistica di oggi, con il dialetto in forte regresso, messo da parte perché ritenuto anacronistico.
Ma la parola dialettale non è anacronistica in sé, a meno che con “anacronistico” non si voglia intendere “destinato a morire”, tuttavia, come ci ricorda Andrea Zanzotto, i dialetti ci appaiono come “uccisi e mai morti”. E allora non è anacronismo esprimersi in una lingua destinata a morire, ma che intanto ancora molti parlano e capiscono. E non è anacronismo usarla per scrivere: autori come Raffaello Baldini e Giovanni Nadiani non si servono di un dialetto arcaico, ma di una parlata che fa i conti con la contemporaneità, perché, come diceva Baldini, “in questa Italia che ormai parla tutta in italiano, ed è un gran bene, ci sono ancora situazioni, persone, paesaggi, storie che succedono in dialetto e che è ragionevole lasciare in dialetto”, e ancora: “chi scrive in dialetto non ha scelta. Se vuol raccontare una storia che è successa in dialetto, deve raccontarla in dialetto. Se la racconta in italiano non è più la stessa storia”. Certo in dialetto romagnolo non si può parlare di tutto, come invece in italiano. Raffaello Baldini era solito dire che “in dialetto si può parlare con Dio”, ma “non si può parlare di Dio”. La ragione sta nel fatto che queste parlate vengono “di là dove non è scrittura”, direbbe Zanzotto, cioè appartengono storicamente all’ambito della comunicazione orale quotidiana e i loro campi semantici sono quello domestico e quello della cultura materiale contadina e artigianale.
Il romagnolo e l’italiano sono due lingue diverse, ognuna con propri caratteri fonetici, morfologici, sintattici, con proprie forme idiomatiche che non possono essere trasposte letteralmente e meccanicamente da una lingua all’altra. È ovvio che chi, come me, possiede il dialetto come lingua madre e ha imparato l’italiano a scuola come una lingua straniera, anche dopo molti decenni di frequentazione considera l’italiano come una lingua artificiale, una lingua della mente e non del cuore, e finisce per parlare e scrivere un italiano asettico, che non ha la vivacità del dialetto. Ci sono parole dialettali piene di risonanze, di ricordi, di passioni, in grado di evocare un mondo di sensazioni, come invece non sanno fare le corrispondenti voci italiane, perché prive di quel retroterra culturale che dà colore e calore al dialetto. C’è chi ha chiamato “parole di legno” quelle del dialetto e “parole di plastica” quelle dell’italiano. Faccio un solo esempio: il dialettale invèl corrisponde sì all’italiano “in nessun luogo”, ma le due sillabe dialettali a me danno emozioni che la perifrasi italiana non è in grado di dare.
Ci sarà un futuro per il dialetto? La sorte dei dialetti romagnoli come lingue parlate è stata decisa definitivamente, come ho accennato, verso la metà degli anni sessanta, quando anche le classi popolari, che fino allora avevano continuato a parlarlo, non l’hanno più trasmesso ai figli (come già aveva fatto una parte della borghesia). Purtroppo quando si interrompe la trasmissione di una lingua in ambito familiare, questa è destinata a morire. Ma in qualche modo si può contrastare e rallentare l’inevitabile fine.
Anzitutto è opportuno documentare i dialetti nella loro forma naturale, quella parlata. E questo si può fare conservando in formato digitale in un grande Archivio sonoro regionale le registrazioni, esistenti in raccolte pubbliche e private, di interviste eseguite a partire dagli anni settanta (seguendo l’esempio di Roberto Leydi, che allora insegnava a Bologna) e che hanno portato a salvare un patrimonio dialettale costituito di memorie, di canti, proverbi, favole ecc. È urgente inoltre continuare il lavoro di documentazione prima che l’uso vivo o la memoria delle parlate locali si perdano per sempre: già gran parte di esse è rimasta “spléida te cór di vécc / tal chèsi zighi” (“seppellita nel cuore dei vecchi / nelle case cieche”), come ha scritto Nino Pedretti.
È impossibile invertire un processo di sostituzione linguistica in atto già da alcuni decenni, tuttavia può essere stimolata anche nelle nuove generazioni, che non parlano più in dialetto, l’attenzione verso la lingua locale, facendo in modo che il dialetto riacquisti quel prestigio sociale che ha perduto.
Un contributo fondamentale al recupero di tale prestigio è venuto negli ultimi decenni dalla poesia, che nella nostra regione ha espresso autori di indiscusso valore, che costituiscono un caso veramente unico nel panorama nazionale: Tonino Guerra, Nino Pedretti, Walter Galli, Raffaello Baldini, Tolmino Baldassari, Mario Bolognesi, Gianni Fucci, Leo Maltoni, Nevio Spadoni, Giovanni Nadiani, Miro Gori, Francesco Gabellini, Annalisa Teodorani, Laura Turci, Paolo Gagliardi, Carlo Falconi e altri.
Ha inoltre giovato moltissimo al prestigio del dialetto l’attività di un grande attore come Ivano Marescotti, che con i suoi recital ha fatto conoscere a un pubblico vastissimo la qualità della poesia romagnola di Baldini e di altri autori. Penso anche al Teatro delle Albe di Ravenna, che nei suoi lavori (in collaborazione con Nevio Spadoni) dà largo spazio al dialetto e che ha un pubblico costituito soprattutto da giovani e giovanissimi. Penso a Sergio Diotti, che fa rivivere le favole della tradizione popolare. E c’è inoltre chi usa il dialetto per produzioni musicali di grande originalità e qualità, come Daniela Piccari, che canta poesie di Pedretti e Baldini, o come Luisa Cottifogli, che ha realizzato uno spettacolo (e un cd) tutto dialettale dal titolo Rumì, o come Pietro Bandini (Quinzân), che al lavoro nella sua azienda agricola (e fattoria didattica) unisce i concerti di canzoni in dialetto. Il compianto Giovanni Nadiani, che è non solo uno straordinario poeta e drammaturgo in dialetto, ma un lucidissimo studioso delle dinamiche sociolinguistiche, ha riflettuto sul carattere simbolico del paesaggio linguistico, e quindi sull’importanza della toponomastica bilingue (italiano e dialetto) per dare visibilità e prestigio al dialetto, considerando che i nomi dialettali dei luoghi sono beni storici di grande valore, al di là di un loro contingente uso politico.
In questa direzione concorre anche il fatto che una legge regionale preveda la salvaguardia e la valorizzazione delle parlate locali. Certo una legge non può arrestarne o rallentarne la regressione, può tuttavia essere di stimolo a far comprendere che il dialetto non è uno strumento inutile o, come molti pensano, dannoso, ma una risorsa espressiva insostituibile, accanto all’italiano e alle lingue straniere.
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