Rivista "IBC" XXV, 2017, 4
musei e beni culturali / mostre e rassegne
È la prima mostra dedicata a Carlo Bononi (Ferrara, 1569?-1632) l’esposizione in corso fino al 7 gennaio a Ferrara per cura di Francesca Cappelletti e Giovanni Sassu. Nelle sale di Palazzo dei Diamanti sfilano le opere di questo personaggio chiave della civiltà figurativa estense del XVII secolo: un protagonista, anche se a lungo sottovalutato, o non riconosciuto per quello che era. Una spiegazione c’è. Il Rinascimento, a corte, mandava bagliori; gli occhi degli studiosi erano abbacinati e l’immagine del barocco rimaneva in ombra. Fu il Longhi, nella famosa Officina (1934), ad accorgersi che era stato il Bononi “l’ultimo grande ferrarese”, e lo si era capito meglio, verso gli anni ’70, con il libro di Riccomini sulla produzione pittorica fiorita nel Seicento sulle rive del Po ( Seicento ferrarese, 1969). Quel periodo, a sua volta, aveva irradiato luce.
Artista prolifico, grandissimo disegnatore, sperimentatore inquieto e soprattutto viaggiatore, Bononi si era guardato intorno e aveva catturato il lume dei veneziani, la naturalità dei Carracci e il vero senza precedenti del Caravaggio, concludendo in bellezza la gran parabola della pittura locale. Con quegli ingredienti aveva elaborato un mondo tutto suo, tra la Controriforma e la pittura barocca, e un’immagine sognata, del tutto personale, di una civiltà che volgeva al termine, e si trasformava. Nel percorso di mostra lo si avverte, e si è affascinati e coinvolti, dall’ iter del maestro riproposto nell’allestimento con un rimando continuo allo spirito dei tempi, rievocato con apparati didattici di grande impatto e spunti di riflessione efficaci che richiamano temi e personaggi.
A Ferrara, il passaggio al nuovo secolo aveva inaugurato un’epoca nuova. Le cose erano cambiate: la città era una postazione strategica e così nel 1598 l’avevano consegnata allo Stato pontificio (la famosa “devoluzione”). Non a caso, la prima sala si apre con un disegno spettacolare dove Antonio Tempesta racconta l’ingresso di Clemente VIII in Ferrara (Londra, British Museum), una testimonianza formidabile del trionfo del papa così come l’avranno visto i ferraresi (con timore o con ammirazione?). Organizzato in sei registri, il foglio svolge una sequela interminabile di carrozze e di cavalli bardati, di cortei di alti dignitari e di prelati che invadono pacificamente la città degli Este.
L’allontanamento dei principi che ripararono a Modena, però, non allentò la produzione: semplicemente, cambiarono i committenti e furono gli ordini religiosi, le confraternite e gli aristocratici vicini alla Santa Sede, i padroni di casa. Le richieste raggiunsero lo Scarsellino, il nume locale, e attirarono Ludovico e il Guercino. In questa situazione, la produzione del Bononi portò energie creative nuove. Nella città natale l’artista aveva sotto gli occhi i colori magici del Dosso e la dolcezza del Garofalo. Ma non gli era bastato, e si era messo in viaggio. Aveva visto Venezia, il che voleva dire Tintoretto, Palma e Veronese; a Bologna aveva ammirato i Carracci. Conosceva il classicismo di Guido Reni e a Roma, dove stava nascendo il barocco, si era stupito di fronte alle opere del Lanfranco. Davanti alle tele del Caravaggio, poi, e ai quadri del Saraceni, era rimasto semplicemente senza fiato. Portò a casa sorpresa, emozione, teatralità e luce, gli ingredienti più accattivanti per guadagnarsi i favori della committenza. Lavorò per l’Emilia occidentale, per la Liguria, il Trentino, per l’Umbria e per le Marche; ma, soprattutto, dipinse a Ferrara. Nella sua città non mancavano chiese e complessi monumentali. Specialmente Santa Maria in Vado, vero e proprio emblema della sua arte e soggetto integrante del percorso espositivo.
In mostra, si comincia con il prima e dopo: Ludovico, con la Trinità dei Musei Vaticani (1592), importante ante quem per la naturalezza e l’espressione degli affetti e il Guercino, rappresentato dal San Girolamo in atto di sigillare una lettera (priv., 1618), un post quem dove l’anticipazione di Carlo si scorge in quel paesaggio che si allontana e nel panneggio ampio con il quale il ferrarese andava rivestendo la crudità dei nudi dell’iconografia tradizionale.
Gli artisti si erano accorti subito del suo valore. E avevano sbirciato i suoi capolavori. Il suo studio era nel palazzo dei duchi. Ci si era trasferito grazie ai successi conseguiti dal 1602. In quell’anno aveva dipinto per la residenza dei consoli la gran pala con la Madonna in trono col Bambino e i santi Maurelio e Giorgio, una delle sue opere più monumentali (Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie); poco dopo, per la Corporazione degli orafi, ecco le tele oblunghe della Pinacoteca Nazionale di Bologna con i due bellissimi Angeli con catene e collane d’oro che sprigionano bagliori con un effetto che sa di teatro (1605). Altro exploit importante, di nuovo nell’ambito religioso, la decorazione dell’oratorio dell’Immacolata Concezione; un trampolino di lancio sfidato al fianco di Federico Zuccari, di Ippolito Scarsella e di Ludovico Carracci; evidentemente, una compagnia ispirativa, perché nacque in quell’occasione la Sibilla monumentale, virago malinconica e quasi un manifesto della prima fase del ferrarese (priv., 1600-1606).
Il primo decennio del secolo fu, per Bononi, un periodo di sperimentazione; guardò dipinti, e soprattutto cercò di impadronirsi del segreto per ottenere il massimo impatto visivo. Ci riuscì, in quel capolavoro famoso che è l’ Annunciazione della parrocchiale di Gualtieri eseguita per il marchese Ippolito Bentivoglio nel 1611. È un’opera commovente, non si sa se più per la poetica degli affetti o per il gesto improvviso, spontaneo e teatrale. L’artista, qui, è al massimo del suo potenziale e al centro dell’emozione, pronto ad affrontare la sua impresa più impegnativa: il ciclo di Santa Maria in Vado (1617). Come dire, tra naturalismo e barocco. Negli spazi della chiesa l’artista impiega soluzioni di modernità stupefacente, i teleri e le vaste superfici ad affresco dell’abside e del transetto che guardano a Venezia, e in particolare al Palma, ma reggono il confronto con la cupola che il Lanfranco avrebbe dipinto di lì a poco in Sant’Andrea della Valle (1625). Guercino, gli occhi al soffitto, era entrato nel tempio estense, e aveva versato lacrime di “ammirazione e di giubilo”. Bononi aveva vinto la scommessa: l’impatto visivo era garantito. La spettacolarità, certo, ma prima di tutto lo studio attento delle emozioni, elaborate con una serie pregevolissima di disegni presentati nell’esposizione, a commento di questo importante momento del pittore. Con l’aggiunta di una tela strepitosa, una Giunone in collezione privata (1617).
Soddisfatto, partì per Roma nel 1618. Caravaggio e il Manfredi (la “ manfrediana methodus” del Sandrart) rinnovarono la sua tavolozza e il Saraceni lo incoraggiò alla dialettica tra luci e ombre. Ha oscillato a lungo tra un’attribuzione al “Bonone” e una al “Saracino” la Santa Cecilia e l’angelo delle Gallerie Nazionali di Arte Antica di Palazzo Barberini (1610 ca.) riconosciuta finalmente a quest’ultimo: un quadro impressionante, che ci aspetta nella quarta sezione, e un’icona per i musicisti.
L’esperienza romana gli aprì nuovi orizzonti, e lo incoraggiò ai soggetti profani; persino alla letteratura degli emblemi, la punta di diamante dell’iconografia. Splendido Il genio delle Arti sperimentato per committenza ignota e qui proposto con la seconda versione inedita, entrambe in raccolta privata: un confronto diretto (o una sfida?) con l’ Amor vincit omnia del Caravaggio e un incoraggiamento allo studio e alla pratica delle arti; comprese le arti “meccaniche”, come si intuisce dagli oggetti abbandonati ai piedi del genio alato che lascia cadere l’armatura. Una tavolozza, un busto di marmo, uno spartito, uno strumento ad arco e una squadra e un compasso dipinti con naturalismo magistrale sono gli ingredienti di questi due quadri splendidi, ed intrigantissimi. Il maestro, qui, raggiungeva la maturità, allineandosi ai protagonisti della pittura del ‘600. Come dimostra l’esposizione, nella stessa sala (tra le più piacevoli del percorso), di un’opera famosa del Lanfranco, la Sant’Agata visitata in carcere da San Pietro (Parma, Galleria Nazionale,1613-1614), presente in tutti i manuali di storia dell’arte.
Negli anni ’20, la sua carriera arrivò all’apice. A Reggio, al santuario della Ghiara, nella cappella Gabbi Bononi, sostituì il Guercino ed entrò in contatto con un allievo prestigioso di Ludovico, Alessandro Tiarini. Un racconto suadente ed affettuoso, tra il Correggio e il nitore del Reni, caratterizzò l’“età dell’onorata moderazione”, argomento della sesta sezione che ci sorprende con due tele mozzafiato: lo splendido Angelo custode della Pinacoteca Nazionale di Ferrara (1625 ca.), con quel panneggio rosa acido così vicino alle tonalità della controriforma ma già arrovellato come la “carta da pacchi” del repertorio barocco (come direbbe il Longhi), e con il San Sebastiano della cattedrale di Reggio Emilia (1623-1624), a dialogo con il soggetto analogo del divino Guido (Genova, Palazzo Rosso, 1615-1616).
L’artista era richiesto e così, oltre alle pale monumentali, gli toccò cimentarsi con una produzione da stanza, il “microcosmo della pittura”, come recita la settima sezione. Gli riuscì benissimo. Un intenso lirismo trapassa dalla grande pala a un “dipingere in piccolo” per la preghiera personale e i gusti, talvolta letterari, di una committenza sempre più estesa, come nel caso della Fuga da Troia della collezione Grimaldi Fava (1618).
Bononi, ormai, giocava abilmente con più registri, e dettava la grammatica della pala d’altare. Lo splendore del sacro lo affascinava: come riflessione sulla Bellezza nel Miracolo di Soriano (Ferrara, San Domenico ora Arcivescovado, 1621-1626) o come esibizione di una maestria in grado di affrontare una dimensione monumentale dove non si disdegna il racconto del quotidiano ( Madonna di Loreto, Tolosa, Musée des Augustins, 1622-1623), così da sorprendere lo spettatore. Particolarissima, poi, la sensibilità per il variare della luce e gli effetti sul cromatismo ( Santa Margherita, Reggio Emilia, Museo Diocesano,1627) ma anche l’attenzione per la tenebra, una magia che tanti favori aveva suscitato in laguna e che lui meditava, come si vede nella Sacra Famiglia con le sante Barbara, Lucia e Caterina dipinta per la duchessa di Modena, Eleonora d’Este (Modena, Galleria Estense, 1626).
La sua vicenda artistica e umana si conclude nella città natale, nel 1632. Morì per “febbri sottili”, ma non prima di aver terminato il San Luigi di Francia che invoca la fine della peste (Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, 1632), il testamento poetico di questo straordinario narratore di emozioni.
Mostra:
Carlo Bononi. L’ultimo sognatore dell’Officina ferrarese, Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 14 ottobre 2017-7 gennaio 2018
Catalogo:
Carlo Bononi. L’ultimo sognatore dell’Officina ferrarese, a cura di Francesca Cappelletti, Giovanni Sassu, Ferrara, Ferrara Arte, 2017, pp. 319.
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