Rivista "IBC" XXIV, 2016, 2

Museomix: un altro punto di vista

Lucilla Boschi
[Curatore Museo Tolomeo]
Fabio Fornasari
[Direttore artistico Museo Tolomeo]

Sulla soglia di questo articolo, come sulla soglia di qualsiasi spazio, è un dovere di chi accoglie dare una prima impressione di quello che accade al suo interno. Entrare in qualsiasi luogo non è solo attraversamento di un confine. È anche il momento nel quale ci si prepara a un mondo differente dal nostro.

Museo Tolomeo presenta un’esperienza articolata in un racconto che ricombina memorie, conoscenze, testimonianze di un gruppo di persone con qualità particolari: i non vedenti. Potremmo anche dire che il museo presenta un modo differente di abitare il mondo e modi particolari di raccontarlo, ricordarlo e trasmetterlo. La cecità è stata il motore per la costruzione di cose simili ma molto diverse, ha accolto, utilizzato e reinterpretato tradizioni e innovazioni provenienti dalle più differenti discipline: la storia della stampa, degli strumenti musicali e altre storie ancora.

In questo senso i racconti relativi alla storia della cittàdi Bologna sono intrecciati in modo indissolubile con quella dell’Istituto “Cavazza”. Il racconto museale diventa così un caso studio sui temi della trasmissione del sapere, dell’innovazione tecnologica, dell’intreccio tra linguaggi, uno stimolo a ragionare sul tema della collezione e del suo uso.

La forma intorno alla quale lavora il museo è la wunderkammer: è la forma museo che meglio interpreta una collezione che incrocia dati materiali, oggetti e dati immateriali, le narrazioni intorno agli oggetti e che permette la migliore esperienza immersiva tra un mondo simulato e uno stato emotivo alterato. Non ci possiamo nascondere che il confronto con la cecità porta in chiunque una differente attesa verso l’altro.

Il museo, dovrebbe essere abbastanza chiaro, è rivolto a chiunque. Non ai soli non vedenti. Il museo non è al buio. È un ambiente che offre un’esperienza tra l’installazione intermediale interattiva e l’arte ambientale. Permette di immergersi all’interno di un differente punto di vista su alcune nostre certezze, che riflette sulla stessa idea di arte e di racconto “del bello”.

L’installazione museale ha un paesaggio sonoro che non rappresenta soltanto un commento audio agli oggetti esposti, ma diventa la colonna portante di una drammaturgia che racconta gli oggetti stessi. Sia per i vedenti che per i non vedenti, i suoni – in maniera acustica – entrano nello spazio senza che ci sia la possibilità di capire da dove essi arrivino, contribuendo alla costruzione di una visione dello spazio non orientata dalla sola vista, ma dalla percezione a tutto tondo, ambientale, dei suoni.

È dunque anche uno spazio per vedenti, udenti; uno spazio dove toccare con mano le storie.

Questo per mantenere aperti più canali, visivi e non visivi: visivo, acustico, tattile. Per mettere a confronto differenti modi di entrare in contatto con la realtà. È nel confronto con le nostre abitudini all’interno di un ambiente immersivo come la wunderkammer che ha luogo l’esperienza. Non è solo la presentazione di una differente “civilizzazione”, di un differente addomesticamento del mondo; puntiamo anche al riconoscimento delle macchie cieche del pubblico.

 

Il racconto

La prima sala del museo è la città di Bologna. Due sono i significati di questa affermazione. La prima è ormai di dominio comune per chi parla di museo: il territorio si riconosce nei propri musei in quanto riconosce in esso il depositato delle esperienze. Fisicamente la sezione urbana rappresentata da via Castiglione dove ha sede il museo intreccia la storia delle istituzioni cittadine e delle forme di produzione e di creatività che in essa hanno avuto luogo e che nell’insieme hanno lavorato alla fondazione dell’Istituto dei Ciechi “Francesco Cavazza”.

Una storia a volte non raccontata, per certi aspetti sconosciuta.

Un altro significato riguarda la natura di chi entra a visitarlo. Il pubblico si porta dietro tutte le proprie abitudini che non solo hanno una natura consolatoria, ma rappresentano forme di cecità concettuale che di norma rendono ottusi.

Attraverso le cose esposte si evocano episodi della storia di Bologna recente che hanno segnato indelebilmente il nostro tempo. All’interno di questo racconto, si intrecciano contestazioni, impiego di nuove tecnologie, sperimentazione di linguaggi, insieme a storie di persone, a partire da quella del fondatore, il conte Francesco Cavazza, fino a quelle dei benefattori succedutisi nel corso degli anni, degli studenti e di tutti coloro che, a vario titolo, hanno conosciuto l’Istituto Cavazza di Bologna.

Il confronto con la realtà ha imposto la tessitura di una trama di sperimentazioni che ha portato anticipatamente a dovere affrontare scelte non semplici. La biblioteca cartacea, ad esempio, è stata abbandonata già alla fine degli anni settanta, per diventare completamente digitale già nei primi anni ottanta.

L’istituto nel corso degli anni diventa sempre più luogo di produzione di hardware e di sviluppo tecnologico in anticipo sui tempi, per rispondere a esigenze di accessibilità alla cultura e alla conoscenza. Centrale dunque è il tema delle tecnologie rivolte alla scrittura/lettura.

 

La collezione

Al museo è sempre stato riconosciuto il ruolo di conservare le opere d’arte; questa qualità ha contribuito a costruire l’aura che fino a poco tempo fa si portavano dietro solo gli originali e che ormai da tempo si estende a tutto il museo e alla sua esperienza.

Qualsiasi museo deve contenere un’idea di originalitàche, se non si trova negli oggetti, deve trovarsi nell’esperienza che viene offerta al visitatore.

Nel museo ciò che conta ora è l’esperienza del visitatore, che non solo osserva ma partecipa.

L’istituto Cavazza attraverso i suoi oggetti incontra alcune storie fondamentali, individuali e universali.

Il Museo Tolomeo, nel raccogliere i contenuti che lo compongono, non si ferma a cercare all’interno delle sue mura beni di un qualche valore economico, ma beni che nell’insieme, e proprio per la loro compresenza, rappresentano un’occasione unica, e quindi originale, rispetto ad altre istituzioni cittadine.

Non raccoglie solo beni materiali ma anche sostanze immateriali: a fianco di opere d’arte, ritratti, oggetti di qualche collezionismo troviamo storie ed esperienze che declinano la storia più ampia della città di Bologna, secondo altri punti di vista.

Un ambiente dove raccontare in forma emozionale la storia dell’istituto Cavazza, attraverso il patrimonio degli oggetti usati nel corso degli anni, ma anche degli avvenimenti di cui sale e corridoi sono stati testimoni.

 

L’origine

A partire da fine Ottocento, il conte Francesco Cavazza, insieme alla moglie Lina Bianconcini, intraprende un percorso di rinnovamento della città di Bologna che passa attraverso molteplici iniziative.

Nella loro dimora in via Farini – Palazzo Cavazza – riuniscono attorno a sé gli uomini più rappresentativi della cultura bolognese del tempo: Rubbiani, Carducci, Panzacchi, Murri, Ciamician e Righi, con i quali costituiranno i cosiddetti “salotti del giovedì” per discutere di arte, politica, letteratura e scienza. Fin da giovane, Francesco Cavazza ha infatti avuto un interesse particolare per la storia di Bologna, e per la conservazione del suo patrimonio artistico.

Insieme ad Alfonso Rubbiani, viene per questo costituito il “Comitato per Bologna Storica e Artistica”, per rispondere all’esigenza di tutelare l’antico impianto urbano della città, proponendo interventi di conservazione e ripristino per gli antichi edifici, con un concetto di restauro che può essere considerato, oggi, troppo interpretativo, ma sempre rispettoso delle caratteristiche stilistiche emergenti.

Fin dalla sua fondazione, l’Istituto dei Ciechi Cavazza ha svolto un ruolo storicamente importante nell’emancipazione culturale e sociale dei ciechi italiani, operando quasi esclusivamente nell’ambito della formazione scolastica, seguendo gli studenti ciechi attraverso i diversi gradi del percorso formativo dalla scuola primaria, fino al conseguimento del diploma di laurea.

In seguito alle riforme scolastiche, sul finire degli anni Settanta l’Istituto, pur rimanendo presente come struttura di supporto all’istruzione scolastica, ha orientato il proprio interesse verso la formazione professionale, con particolare attenzione per le professioni tradizionali dei ciechi (come l’operatore telefonico), ma concentrando inoltre la propria attenzione verso il mondo dell’informatica e le sue molteplici applicazioni dando vita, per primo in Italia e in Europa, a un corso di informatica per non vedenti, aprendo in questo modo nuovi sbocchi professionali e nuove opportunitàoccupazionali.

Dal 1979 l’Istituto realizza con cadenza annuale un corso per operatori telefonici e per circa vent’anni ha realizzato un corso per programmatori elettronici indirizzati ai non vedenti, determinando una ricaduta culturale diffusanell’ambito dei ciechi che si sono progressivamente avvicinati a questo mondo, innalzando sensibilmente il livello della qualitàdella propria vita.

Il Cavazza ha nel suo DNA la storia che contiene domande e risposte. Dall’essere Istituto, e quindi un territorio in qualche modo extra-storico, fuori dal tempo della dinamica storica, all’essere partecipe della storia e protagonista della sua dinamica come riferimento per forniture di servizi culturalmente e scientificamente qualificati allo sviluppo individualizzato: il percorso dalle domande alle risposte. Inoltre, l’Istituto ha capito che la sua forza è nella qualificazione di competenze da mettere in rete.

Il Cavazza è quindi il luogo ideale dove poter sperimentare linguaggi e metodi di rappresentazione per raccontare storie; è il luogo dove sperimentare nuove forme di museo che sul tema dei nuovi pubblici non si concentra solo su chi normalmente non può accedere, ma su chi, pur andandoci, non è abituato ad attivarsi all’interno dell’esperienza museale.

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