Rivista "IBC" XXIV, 2016, 2

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali / mostre e rassegne, pubblicazioni

Il deserto che abitiamo

Piero Orlandi
[architetto]

 

Gianni Celati fu tra i promotori, giusto trent'anni fa, di un osservatorio multidisciplinare - fotografia e scrittura - sull'impoverimento del paesaggio umano (del territorio e della società in cui vivono gli uomini) che produsse i testi e le immagini di un bel libro, Traversate del deserto, edito nel 1986 per cura di misteriosi figli del deserto, tra i quali era anche Giovanni Zaffagnini. Memore dell'impresa di allora, oggi Zaffagnini, fotografo di Fusignano che più volte ha collaborato con l'Istituto per i beni culturali, per dare seguito a una idea del sindaco Nicola Pasi, ha coordinato l'organizzazione di una replica di quelle osservazioni tematiche, chiedendo ad alcuni giovani autori (italiani, cinesi, svizzeri, americani, belgi), scelti attraverso una rigorosa selezione in ambito internazionale, di esprimere il loro punto di vista sulla desertificazione ambientale e culturale.

Una prima notazione: nel 1986 si poteva ancora pensare di dover soltanto attraversare il deserto, oggi lo abitiamo più o meno tutti. Trent'anni fa c'erano ancora molte aree di libertà, di vivibilità, abbastanza consistenti da costituire il rifugio di alcuni milioni di persone. Probabilmente molti altri abitavano già il deserto, rendendosene poco o per nulla conto. Ma erano una minoranza. Oggi la minoranza è diventata maggioranza, il deserto non è più solo ciò che ci circonda ma ciò che abitiamo.

La caratteristica più terribile del deserto di cui parliamo la spiegava molto bene il sociologo francese Gilles Lipovetsky nel libro del 1986. E cioè, il fatto che non ci si doveva salvare solo da catastrofi ambientali più o meno gravi e da urbanizzazioni che ci portano via parti sempre più estese di territorio, ma anche e soprattutto dalla desertificazione culturale, antropologica, dalla morte dei sentimenti di una umanità senza i quali non può sopravvivere come tale - diventa una specie diversa e peggiore - o non può sopravvivere tout-court e si autodistrugge. Lipovetsky elencava lo sradicamento delle popolazioni rurali e insieme la desolazione interiore di Antonioni o i personaggi morti-vivi di Beckett, i genocidi e gli etnocidi, Hiroshima e i milioni di tonnellate di bombe riversate sul Vietnam. Come si spiega, si chiedeva Lipovetsky, che nella stessa epoca che venera l'accumulazione capitalistica si sia tanto attratti dal nulla esistenziale del nostro habitat? Il troppo pieno e il troppo vuoto così vicini, così necessari l'uno all'altro?

Il commento visivo di queste riflessioni, scritte da autori come Baudrillard e Scabia, Agamben e Celati, fu allora affidato a giovani e ancora non notissimi fotografi, come Olivo Barbieri, Vittore Fossati, Guido Guidi, Luigi Ghirri e altri. Con risultati assai efficaci: dalla "qualsiasità" di Guidi, a visioni più ansiogene ad opera di Barbieri o soffuse di malinconia o addirittura di rimpianto, come alcune di Ghirri.

Tornando oggi sul tema, Zaffagnini lo precisa con una citazione di Antonio Tabucchi da Viaggi e altri viaggi: "Un luogo non è mai solo quel luogo: quel luogo siamo un po' anche noi [...] Dipende da come leggiamo quel luogo, [...] se siamo allegri o malinconici, euforici o disforici, giovani o vecchi, se ci sentiamo bene o se abbiamo il mal di pancia. Dipende da chi siamo nel momento in cui arriviamo in quel luogo".

E così, per rintracciare un punto medio di interpretazione nel lavoro di molti, il fotografo romagnolo ha invitato nove narratori e nove fotografi under 35 e ha chiesto loro di mostrare dove, come e quando si incontrano tra loro il deserto della mente e il deserto visibile. E conclude - lui, Zaffagnini, guardando come concludono il loro lavoro i suoi diciotto invitati - con un pensiero che è una sua convinzione profonda, e che già altre volte ha esposto e difeso: "Il degrado diventa il punto di partenza per una riconciliazione col mondo circostante attraverso uno sguardo rinnovato e costruttivo, esente da intenti consolatori o di facile denuncia. Uno sguardo che riconosce forme e spazi dove trovare nuovi spunti per correggere e migliorare l'esistente e orientare le scelte future. Non si cura il presente tornando al passato. Possiamo arginare il deserto conoscendo il suo volto, senza girare lo sguardo dall'altra parte sperando che qualcuno provveda". E cita un altro autore amato, Robert Walser, "raffinato poeta-camminatore che sapeva osservare le cose dalla giusta distanza con consapevole candore: 'Mi fermai affascinato da quanto vi era di bello in questa assenza di bellezza, incantato dalle speranze in mezzo a tanta disperazione'". Nonostante tutto, c'è ancora tanta bellezza da preservare, dice Zaffagnini, e questo vogliono dirci anche gli autori. Come ce lo dicono?

La declinazione del tema, abitare il deserto, fatta dai fotografi (Nicola Baldazzi, Davide Baldrati, Marina Caneve, Francesca Gardini, Richard Max Gavrich, Massao Mascaro, Domingo Milella, Mattia Parodi, Xiaoxiao Xu) sembra molto larga. La assenza di didascalie, abitudine inveterata dei fotografi contemporanei, rende a volte difficile capire dove sono con la loro fotocamera e dunque che cosa esattamente vogliono dirci con le loro immagini. Convinti che la didascalia sia qualcosa che impoverisce il messaggio fotografico e ne svilisce la autonoma capacità comunicativa, ci offrono vedute del deserto mute, che consistono in raccordi stradali, case più o meno qualsiasi, formazioni geologiche fuori dell'ordinario e ghiacciai, vecchi camion, recinzioni, cantieri edili, disordini urbani di vario genere. Cerchiamo allora le corrispondenze di tutto ciò negli scritti, e troviamo molte conferme e anche alcune spiegazioni. Le case abitate da piante infestanti che si avvolgono sui muri franati (Franca Mancinelli), i tinelli con mozziconi spenti e i ladri negli appartamenti (Maddalena Lotter) ci portano proprio là dove pensavamo volesse portarci il titolo della mostra e del libro. E così i paesaggi urbani pieni di lavanderie, bancomat, coltelli nei vicoli e mari mediterranei paragonati a perdite idrauliche estese e verdognole (Orso Jacopo Tosco) e i giardini dismessi, le altalene vuote di bambini, le serre svetrate e le saracinesche (Yari Bernasconi). Ed è molto forte la visione di case che sudano cemento in un mondo di piante perpetue, forse metalliche, che si potano con le frese e non si annaffiano ma si lubrificano (Jacopo Narros); vicine ad altre che vivono di anidride carbonica, e altre ancora che sono solo immaginate nella nostra testa e che dunque si adattano a ogni clima, mentre quelle vere sono già morte quasi tutte. Chi abita queste città "non distende quasi mai lo sguardo" (Jacopo Ramonda) e cammina con gli occhi a terra, "misero prototipo-campione| di umanità| il mio status corrente di innocuo bombo radiocomandato" (Bernardo Pacini). I pendolari che viaggiano su treni regionali (un topos della contemporaneità...) vivono una solitudine che non è percepita "unicamente come stato d'animo [...] ma come un luogo: un deserto in costante espansione". Parliamo di gente che non sa nemmeno più "dov'è l'Italia.| La immaginano vicino alla Grecia.| Attraversata dal Rio de la Plata.| Al confine con la Cina". (Damiano Sinfonico). E anche il deserto dell'Italia di provincia è agghiacciante. Ci vive un turnista non assunto ma fiaccato dal proprio lavoro straordinario, che recrimina sulla sua scelta di averla lasciata andar via, lei, in Danimarca. Recrimina, lavora e si rende conto che in quel deserto in cui abita, "su questa terra qui, a me non mi resta altro che aspettare". (Luigi Filippelli). 

Mostra: Abitare il deserto
A cura di Giovanni Zaffagnini, con la collaborazione di Silvia Loddo e Cesare Fabbri
Museo San Rocco, Fusignano (Ra), Via Monti 5
dal 3 Settembre al 6 Novembre 2016

Catalogo: Abitare il deserto, a cura di Giovanni Zaffagnini, Osservatorio fotografico, 2016, pp. 88, ill. 45.

 

 

Link

http://www.radioemiliaromagna.it/programmi/mostre/deserto.aspx

http://ibc.regione.emilia-romagna.it/appuntamenti/2016/a-fusignano-la-mostra-abitare-il-deserto

 

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