Rivista "IBC" XXIII, 2015, 3

biblioteche e archivi / interventi, storie e personaggi

Per i 750 anni dalla nascita del "sommo poeta" abbiamo chiesto a uno studioso esperto della "Commedia" di raccontarci come visse l'allontanamento dalla sua città.
Dante poeta dell'esilio

Giuseppe Ledda
[docente di Letteratura e critica dantesca all'Università di Bologna]

Una vita in esilio

Nel corso di un convegno ravennate su Dante e le città dell'esilio, Mario Luzi sottolineava "il valore dello sconvolgimento e del superiore ritrovamento che l'esperienza dell'esilio ha riservato a Dante": nell'esperienza dell'esilio Dante ha scorto una "forza di rivelazione" talmente significativa da assumere tale esperienza "a immagine e a interpretazione totale del destino terreno e ultraterreno dell'uomo".

Dante in esilio ha vissuto per vent'anni. Bandito da Firenze per la sua attività politica tra i Guelfi Bianchi, quando presero il potere i Neri, nell'autunno del 1301, egli fu condannato al pagamento di una multa e alla requisizione dei beni. Non essendosi presentato, la condanna divenne a morte. Non potè più tornare a Firenze e morì in esilio a Ravenna nel 1321: lì le sue spoglie sono ancora sepolte.

Il viaggio nell'aldilà si svolge, nella narrazione del poema, circa due anni prima dell'inizio dell'esilio, nel 1300. Nel corso del viaggio, le anime dell'aldilà, potendo conoscere il futuro, annunciano avvenimenti successivi rispetto alla data del viaggio, ma precedenti la scrittura del poema o almeno di quel singolo canto. Molte di queste profezie  post eventum riguardano l'esilio di Dante.

La prima è quella di Ciacco, un fiorentino dannato nel cerchio dei golosi, che ricorda le lotte tra Bianchi i e Neri ( Inferno, VI, 43-75). Il riferimento all'esilio di Dante è qui ancora generico. Più preciso Farinata degli Uberti nel canto X dell' Inferno, il quale predice a Dante che entro cinquanta mesi si renderà conto in prima persona di quanto sia difficile l'arte di rientrare nella città dalla quale si è stati esiliati: "Ma non cinquanta volte fia raccesa / la faccia de la donna che qui regge, / che tu saprai quanto quell'arte pesa" ( Inferno , X, 79-81).

Più simpatetico Brunetto Latini, che annuncia a Dante: "quello ingrato popolo maligno / [...] / ti si farà, per tuo ben far, nimico", in quanto egli avrà l'onore di essere perseguitato da entrambe le parti. Si inizia quindi ad alludere alla solitudine di Dante e alla sua estraneità anche al gruppo dei Bianchi, a partire forse dal 1304 ( Inferno , XV, 70-72). Dante personaggio ribadisce orgogliosamente la propria capacità di affrontare con coraggio il destino che lo attende, preoccupato solo di avere la coscienza a posto: "Tanto vogl' io che vi sia manifesto, / pur che mia coscïenza non mi garra, / ch'a la Fortuna, come vuol, son presto" ( Inferno , XV, 91-93).

Le profezie dell'esilio continuano nel  Purgatorio, a partire da quella di Corrado Malaspina, nell'VIII canto. Dante afferma di aver udito lodare la liberalità, la potenza e la giustizia dei Malaspina. Corrado gli annuncia che "questa cortese oppinione" entro sette anni sarà rinforzata dalla realtà perché potrà farne esperienza diretta. L'allusione è quindi al soggiorno di Dante presso la corte lunigianese nei primi anni dell'esilio, nel 1306 ( Purgatorio , VIII, 112-139).

Nella cornice dei superbi, Odersi da Gubbio racconta di un suo compagno di penitenza purgatoriale, il senese Provenzan Salvani, che forse sarebbe stato destinato alla dannazione infernale per i suoi peccati, se non che un giorno, per raccogliere il denaro necessario a pagare il riscatto per liberare un suo amico incarcerato da Carlo d'Angiò, lui così orgoglioso, si umiliò a chiedere l'elemosina in Piazza del Campo: "si condusse a tremar per ogne vena". Ebbene, dice Oderisi "poco tempo andrà, che ' tuoi vicini / faranno sì che tu potrai chiosarlo" ( Purgatorio , XI, 133-142). Nel giro di poco tempo Dante stesso potrà capire cosa significa doversi umiliare a chiedere l'elemosina.


Mendicare la vita: il pane dell'esilio

Oltre alle profezie  post eventum, un altro strumento attraverso il quale Dante può parlare dell'esilio è quello dell'identificazione figurale. Ci presenta cioè alcuni personaggi che sono come controfigure del Dante esule. La figura più incisiva è forse quella di Romeo di Villanova, incontrato nel cielo di Mercurio, dove viene indicato dall'imperatore Giustiniano al termine del suo grande discorso sulla storia dell'impero. Romeo era il ministro del Conte di Provenza Raimondo Berlinghiere e guidò la politica estera del suo signore con grande abilità. Ma qualcuno, nella corte, mosso da invidia, iniziò a calunniarlo presso il conte. In una situazione simile Pier della Vigna, ministro dell'imperatore Federico II, si era tolto la vita ( Inferno , XIII). Romeo invece, sicuro della propria giustizia, non commette tale peccato, ma affronta la vergogna e la sofferenza dell'esilio con dignità e coraggio, mendicando il pane a tozzo a tozzo: "indi partissi povero e vetusto; / e se 'l mondo sapesse il cor ch'elli ebbe / mendicando sua vita a frusto a frusto, / assai lo loda, e più lo loderebbe" ( Paradiso , VI, 139-142).

Un altro personaggio in cui Dante si identifica è Boezio, il grande filosofo ministro di Teodorico e anche lui ingiustamente considerato un traditore del suo signore, imprigionato e giustiziato a Pavia. Mentre si trovava in prigione scrisse  La consolazione della Filosofia, che avrà grande influenza per tutto il Medioevo. All'inizio del  Convivio Dante dice che non è lecito a un autore parlare di se stesso, se non per due motivi: o per difendersi da accuse ingiuste oppure perché i propri casi personali possono avere valore e utilità più generali. Per il primo caso fa proprio l'esempio di Boezio: "E questa necessitate mosse Boezio di se medesimo a parlare, acciò che sotto pretesto di consolazione escusasse la perpetuale infamia del suo essilio, mostrando quello essere ingiusto" (I, ii, 13). Poco dopo, Dante parla del proprio esilio, e racconta di aver sofferto "pena ingiustamente, pena, dico, d'essilio e di povertate. Poi che fu piacere delli cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori dal suo dolce seno [...], per le parti quasi tutte alle quali questa lingua si stende, peregrino, quasi medicando, sono andato" (I, iii, 3-4).

Anche nella  Commedia, dove la parola  essilio appare soltanto sei volte, una tra queste è riservata a Boezio. Egli si trova tra i sapienti del cielo del Sole ed è presentato come un santo e un martire: "l'anima santa che 'l mondo fallace / fa manifesto a chi lei ben ode: // Lo corpo ond'ella fu cacciata giace / giuso in Cieldauro; ed essa da martiro / e da essilio venne a questa pace" ( Paradiso , X 124-129).

A pronunciare l'ultima grande profezia  post eventum dell'esilio, quella che conclude e chiarisce le precedenti, è Cacciaguida, l'avo di Dante morto da martire come crociato in Terrasanta. Si annunciano le sofferenze e le umiliazioni dell'esilio, ma anche i benefici che Dante avrà da parte di ospiti cortesi e generosi. Qui viene celebrata in particolare la magnificenza degli Scaligeri. Dopo aver dovuto abbandonare le cose più amate, per l'esiliato, privo di casa e di beni, viene la ricerca di ospitalità e protezione: "Tu lascerai ogne cosa diletta / più caramente; e questo è quello strale / che l'arco de lo essilio pria saetta. // Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e 'l salir per l'altrui scale" (vv. 55-60). Anche il cibo ha un sapore amaro e sgradevole per l'uomo privato della patria e della libertà, costretto a vivere da ospite e da mendicante. Il pane dell'esilio "sa di sale" perché è bagnato dalle lacrime: si tratta di un'immagine biblica, in quanto nella Scrittura il pane dell'esule è un  panis lacrymarum( Psalmi: 41, 4; 79, 6).


Il "cammin di nostra vita" e la vita come esilio

Nonostante la sua centralità tematica, il termine  essilio compare nel poema soltanto sei volte. L'occorrenza del termine pronunciata da Cacciaguida, la quarta nel poema, è l'unica relativa all'esilio di Dante da Firenze. Solo un'altra concerne l'esilio in senso politico, quello di Boezio, ma in quel caso la parola si carica di significati ulteriori. Le due occorrenze centrali della parola sono riferite all'esilio politico.

Ma, attraverso l'esperienza dell'esilio, Dante riesce a comprendere più a fondo la metafora biblica secondo cui tutta l'umanità è in esilio da quando fu cacciata dal paradiso terrestre e quindi vive lontana da Dio, sua patria. L'esilio originario è questa esclusione dalla vicinanza a Dio, alla quale tutti gli uomini sono condannati per la colpa dei progenitori. È un'immagine biblica, diffusa nel Medioevo, e Dante la fa pronunciare al protagonista, Adamo, il quale dovette vivere in esilio da Dio per migliaia di anni: "non il gustar del legno / fu per sé la cagion di tanto essilio, / ma solamente il trapassar del segno" ( Paradiso ,XXVI, 115-123).

Questa è l'ultima occorrenza della parola  essilio nel poema e tocca l'origine stessa dell'idea della vita umana come esilio da Dio e difficile viaggio di ritorno alla casa del padre. Solo seguendo la "diritta via" è possibile compiere questo percorso. Dunque ora possiamo capire meglio anche quelle immagini all'inizio del poema: "Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita". Rispetto al versetto biblico cui questo incipit allude (Is 38, 10: "In dimidio dierum meorum vadam ad portas inferi"), Dante inserisce proprio l'immagine della vita come un cammino e sostituisce l'aggettivo possessivo singolare con il plurale  nostra. Questo per dire che la vicenda raccontata non è solo quella individuale di Dante Alighieri, ma ha un significato più generale, in quanto Dante, come uomo in esilio da Dio nella vita terrena, è un uomo qualunque, impegnato nel viaggio di ritorno a casa.

Ma l'esilio dalla patria celeste per qualcuno non finirà mai. La dannazione è definita non dalle varie pene, ma dall'eterna esclusione dal ritorno a Dio, da "l'etterno essilio", come si dice per un dannato ( Inferno ,XXIII, 126), con formula che si estende a tutti, nella prima occorrenza della parola  essilio. La seconda, nel canto XXI del  Purgatorio, ricorda ai lettori, attraverso il doloroso  exemplum di Virgilio, che a questa esclusione eterna sono condannati anche gli spiriti del Limbo ( Purgatorio , XXI, 16-18).


D'Egitto in Ierusalemme

Manca solo un'occorrenza della parola  essilio, la quinta, per completare questa rapida rassegna. Le grandi storie bibliche dell'esilio del popolo ebraico, in Egitto e a Babilonia, diventano per la cristianità l'immagine dell'uomo nella vita terrena, lontano dalla patria celeste. E la liberazione dalla schiavitù, la fine dell'esilio, il viaggio verso la Terra promessa diventano immagini della liberazione dell'uomo dall'esilio terreno per tornare a Dio. Il percorso dell'anima liberata è dall'esilio e dalla schiavitù dell'Egitto alla beatitudini del ritorno alla Gerusalemme celeste. Infatti, all'inizio del  Purgatorio le anime che giungono, traghettate dall'angelo nocchiero, sulla spiaggia del purgatorio, da dove si avvieranno verso il processo di penitenza che le porterà alla salvezza, intonano il salmo  In exitu Israel de Aegypto, cioè il salmo 113, che celebra la liberazione del popolo ebreaico dalla schiavitù e dall'esilio in Egitto.

All'esilio a Babilionia si allude invece nel  Paradiso, dove si descrive la bellezza e la gloria della beatitudine: "Quivi si vive e gode del tesoro / che s'acquistò piangendo ne lo essilio / di Babillòn, ove si lasciò l'oro" ( Paradiso , XXIII, 133-135). È la penultima occorrenza del termine  essilio, e annuncia in forma di allegoria biblica il tema della vita terrena come esilio da Dio che sarà sigillato dall'ultima occorrenza, quella di Adamo. Inoltre questa occorrenza viene pochi canti dopo quella di Cacciaguida: è il segnale che anche l'esilio politico di Dante deve essere letto in chiave allegorica, che l'esilio politico deve diventare la condizione che rende possibile il ritorno non alla città terrena, ma alla città celeste.

Attraverso il sistema delle investiture profetiche, Dante personaggio scopre gradualmente che la sua missione, quella che giustifica il privilegio di visitare, ancora vivente, i tre regni dell'aldilà, è quella di manifestare agli altri uomini tutto quello che gli è stato mostrato e rivelato nel corso del suo viaggio oltremondano. Grazie alla scrittura del "poema sacro", Dante spera di poter tornare a Firenze e ricevere l'incoronazione poetica nel Battistero di San Giovanni, dove aveva ricevuto il battesimo. Sogna una fine gloriosa dell'esilio politico grazie al suo poema ( Paradiso , XXV, 1-12). Ma il poema va oltre e rovescia i termini della questione. Beatrice sottolinea nello stesso canto XXV del  Paradiso il privilegio che è concesso a Dante usando le grandi immagini bibliche: "però li è conceduto che d'Egitto / vegna in Ierusalemme per vedere, / anzi che 'l militar li sia prescritto" ( Paradiso , XXV, 55-57).

Il viaggio di Dante nell'aldilà si configura sempre più come un pellegrinaggio. Quando giunge nell'Empireo, "al divino da l'umano, / a l'etterno dal tempo era venuto, / e di Fiorenza in popol giusto e sano" ( Paradiso , XXXI, 37-40), egli è come un pellegrino finalmente arrivato nel santuario che aveva fatto voto di visitare: "quasi peregrin che si ricrea / nel tempio del suo voto riguardando, / e spera già ridir com'ello stea" ( Paradiso , XXXI, 43-45), spera cioè di compiere la missione profetica che gli è stata assegnata.

Grazie al suo poema, Dante può compiere il pellegrinaggio che dall'esilio terreno lo porta alla patria celeste, e che può condurre tutta l'umanità alla salvezza. Questa è la sua missione, o almeno quella che si assegna nel poema che scrive: condurre se stesso e l'umanità dall'esilio sulla terra, dalla schiavitù d'Egitto o di Babilonia o di Firenze, sino alla beatititudine celeste. Rispetto a Firenze si ha un totale rovesciamento dei valori: non è più la patria terrena alla quale pensare con rimpianto e nostalgia, ma è il luogo dell'esilio terreno dalla vera patria celeste. Firenze diventa anzi l'immagine finale della città terrena ingiusta e corrotta, che scaccia da sé i buoni e i giusti.

Eppure la città celeste è descritta con le stesse parole con cui Cacciaguida aveva parlato della Firenze giusta e felice dei suoi tempi, prima della corruzione attuale: "vid'io glorïoso / e giusto il popol suo ( Paradiso , XVI, 151-152). È in una Firenze terrena convertita dal "poema sacro" alla virtù e alla giustizia e ricondotta alla "pace" antica ( Paradiso , XV, 97-99) che Dante sogna di prendere il "cappello" sul "fonte" del proprio "battesmo", per poi giungere alla felicità eterna in quella Gerusalemme, o Firenze celeste, che tanto le somiglia.

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