Rivista "IBC" XXII, 2014, 2

Dossier: Storia dal "quotidiano"

musei e beni culturali, dossier /

La Pompei del Nord

Giancarlo Susini
[storico e archeologo, già consigliere dell’IBC]

Pressappoco due secoli e mezzo fa, nel 1747, in una contrada di collina del Piacentino - e precisamente vicino alla pieve di Macinesso, nell'alta valle del Chero - avvenne un'eccezionale scoperta archeologica: alcuni contadini tirarono fuori da un campo una grandissima tavola in bronzo, in più lamine, di una superficie di quasi 4 metri quadrati. Si pensò subito, come sempre, che celasse un tesoro, il terreno fu frugato inutilmente. Se ne interessò il pievano, poi sopraggiunge un canonico erudito: sulla grande tavola vi è scritto di latino, un testo lunghissimo. Interviene il governo, che è quello dei Borboni di Parma: ci si trova infatti nel territorio del ducato parmense. Si comincia a decifrare la scrittura, la scoperta fa rumore tra gli eruditi in Italia, e subito in Europa. Il grande bronzo finisce al museo di Parma, dove tuttora è esposto all'ammirazione e alla lettura: solo per breve tempo, in coincidenza con il dominio napoleonico, la tavola migrò a Parigi.

Così venne in luce quella che a ragione può essere definita la più grande iscrizione in bronzo dell'evo antico, la cosiddetta tavola alimentaria (correttamente, in latino, la tabula alimentaria), il più esteso catasto romano che si conosca, redatto e inciso ai tempi dell'imperatore Traiano, quindi nei primissimi anni del II secolo dopo Cristo, con fini espliciti di politica fiscale e sociale. Cominciò così, con un monumento di storia, la scoperta di un'antica città romana, Veleia: il capoluogo amministrativo e culturale di un territorio collinare e montano amplissimo, esteso dalla valle del Trebbia sino a lambire la Lunigiana e a versarsi nel cuore della Liguria.


Quel casolare chiamato Vellè

Sul sito, prima della scoperta, s'era persa la memoria della città antica; gli studiosi si accorsero poi che un casolare nei pressi era chiamato Vellé, certamente un nome "fossile", ma con due "elle": ancora oggi la toponomastica ufficiale usa Velleia, perché questa forma è più consona alla fonetica locale, ma anche - così mi viene fatto di supporre - perché Velleia evoca silenziosamente il latino velle, cioè "volere". C'è un tanto di retorica inconscia, forse, che induce a preferire Velleia a Veleia, come invece la città antica si chiamava prendendo il nome da una grande etnia ligure che popolava il suo territorio anche molto prima dei romani. Ma Velleia, con due "elle", sa più di latino, come latino è il nome di Piacenza; anzi Velleia è addirittura un nome eroico, come Parma, anch'essa città antica: e parma, si sa, era lo scudo rotondo dei legionari.

Quindi a Veleia, a partire dal recupero della grande tavola alimentaria, cominciarono ricerche e scavi regolari: prima ancora al tempo dei Borboni, poi con Maria Luigia; infine l'amministrazione archeologica operò con nomi famosi: citiamo solo, del passato, Luigi Pigorini, Giovanni Mariotti, Salvatore Aurigemma. Si scoprirono edifici pubblici, dall'età di Cesare all'impero avanzato, raccolti attorno al foro, sul cui pavimento si legge tuttora il nome del magistrato che provvide alla lastricatura (proprio come a Roma, nel Foro romano); vennero in luce altre tavole iscritte (con i regolamenti giudiziari che i romani applicavano alla Cisalpina). Nell'antica basilica era raccolto un insieme di statue, collocate in più momenti, che raffigurano anche personaggi della dinastia giulio-claudia: proprio come in tante città dell'impero, a Corinto per esempio, a Leptis Magna, a Samo, a Glanum in Provenza. Poi si sono scoperte alcune abitazioni, di un certo decoro, non molte però: Veleia era un importante capoluogo, ma non un grande centro urbano.

Come accadeva per il versante romagnolo dell'Appennino con il centro di Mevaniola, in val Bidente (nelle vicinanze di Galeata), Veleia forniva i servizi per un'ampia popolazione sparsa: ne costituiva il centro politico, e vi risiedevano i funzionari e gli addetti agli uffici e ai santuari. L'abitato di Veleia giungeva tuttalpiù al cosiddetto anfiteatro, un edificio circolare tanto ridotto da servire semmai per una partita di pugilato: forse si trattò di una cisterna.

Con simile tradizione di scienza e di prestigio Veleia si appronta per una nuova campagna di scavi, condotta dalla Soprintendenza archeologica per l'Emilia-Romagna. Perché, si badi bene, la famosa tabula alimentaria (sulla quale ora lo storico Nicola Cirinti ha prodotto un libro magistrale) fu scoperta proprio un anno prima dell'inizio degli scavi regolari di Pompei, voluti nel 1748 da un altro Borbone, Carlo III re a Napoli, fratello di Filippo I duca di Parma. Veleia e Pompei assieme, nella ricerca archeologica, e in spirito di emulazione: non a caso si sottolinea che proprio alla metà del Settecento vennero istituiti, per volontà dei due sovrani, i due musei destinati a raccogliere i monumenti strappati al sottosuolo delle due città, il Museo di Parma e il Pompeiano di Portici. Accadde però subito che Pompei ebbe una fama maggiore: la si conosceva già in dettaglio dagli scrittori antichi, e leggiamo ancora con passione il racconto della morte di Plinio il Vecchio, soffocato dai fumi del Vesuvio sulla spiaggia di Stabia; tanto è celebre Pompei, la città che gli dei avevano stroncato con il fuoco e nel fango, che il suo nome divenne un epiteto per ogni altra città antica: così Veleia, che si era spenta quietamente sul finire del tempo dei romani, venne più volte indicata come la Pompei del Nord.

Anche perché l'archeologia di Veleia è "datata" dal tempo in cui tutta l'archeologia divenne una scienza moderna, e poiché gli archeologi hanno operato a Veleia in lunghe stagioni di scavi per oltre due secoli, gli studenti di oggi si trovano ad affrontare compiti delicati al fine di risolvere qualche problema di fondo: per esempio verificare l'estensione effettiva dell'abitato romano, e operare sondaggi e stratigrafie per delineare definitivamente le fasi edilizie. Tra Sette e Ottocento accadeva di solito che un monumento (una base, una dedica, una statua) venisse rimesso e trasferito in una raccolta o in un museo senza quell'attenzione microscopica ai contesti architettonici o topografici. Si potrà forse chiarire un interrogativo che gli storici si sono posti di sovente: perché il capoluogo di un territorio così vasto - un municipio romano, fors'anche colonia al tempo di Augusto: l'ipotesi è stimolante ma in genere gli studiosi l'accantonano -, di un territorio addirittura pari per estensione a due o tre nostre province fu ubicato proprio a Veleia?

La scelta, prima dei romani, fu di quella grande etnia di cui si è detto, che portava proprio il nome di Veliantes, e che tanto filo da torcere diede alle milizie romane al tempo della sottomissione della Liguria, nella prima metà del II secolo avanti Cristo. Ma Veleia non si presta a costituire una cittadella, anche l'urbanizzazione romana tenne conto della morfologia collinare, in lieve declivio. Eppure Veleia fu la capitale di un orizzonte fittamente abitato; per l'età romana ne fa fede proprio la più volte ricordata tabula alimentaria: sappiamo da quel testo (che concerne anche parte dell'antico territorio piacentino) molto più di quanto comunemente si conosce per tanti altri territori, perché vi compaiono centinaia di nomi di pagi, cioè di piccoli borghi collinari, e di fundi, cioè di entità poderali e produttive, che ancora oggi si identificano, o almeno si discutono.


Anche in archivio c'è da scavare

Per fare un solo esempio, si apprende tanto dagli antichi possessori di Testanello, nel territorio di Borgo Val di Taro: i loro nomi, il valore dei loro poderi in sesterzi, e addirittura l'esistenza di una proprietà in consorzio. Quindi, perché proprio quella contrada in val di Chero fu scelta come capoluogo di un territorio produttivo tanto considerevole? Indubbiamente si ubicava nei pressi qualche miniera; e poi sembra che non mancassero, proprio lassù, sorgenti salutari, acque miracolose: attorno al 1765 fu trovata una grande dedica romana alle ninfe, cioè alle divinità custodi delle acque, e alle forze della natura. Purtroppo non si capisce con certezza a quale monumento apparteneva, non bastano le cronache stilate al tempo della scoperta.

Tuttavia, per gli scavi del tempo può venire in aiuto degli archeologi e degli epigrafisti il patrimonio di lettere (e relative minute) che si scambiavano i Borboni di Parma e un sovrano assai colto, innamorato delle antichità, quale era il re di Polonia Stanislao Augusto Poniatowski. Allora le corti erano spesso focolari di cultura umanistica. Ebbene proprio quell'archivio è stato in parte rimosso a Varsavia con i ribaltoni seguiti al 1939; molte casse cariche di carte preziose sono altrove, e vengono ora riscoperte (per esempio a Kiev, in Ucraina): un altro scavo quindi, ma in archivio. Si sa, gli epigrafisti sono i segugi delle pietre e dei bronzi iscritti, ma anche delle vecchie carte dove i dotti del passato riferivano le loro scoperte e trascrivevano gli antichi testi. C'è lavoro per tutti.


[articolo di Giancarlo Susini; "il Resto del Carlino", 3 agosto 1994]



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