Rivista "IBC" XXII, 2014, 2

Dossier: Storia dal "quotidiano"

musei e beni culturali, dossier /

Habemus aquam

Giancarlo Susini
[storico e archeologo, già consigliere dell’IBC]

BOLOGNA - L'acqua del Duemila ha duemila anni. Con questo slogan l'Istituto per i beni culturali dell'Emilia-Romagna - con la collaborazione di vari enti e istituzioni locali - ha organizzato una grande mostra, "Acquedotto 2000", che collega il primo acquedotto romano (costruito a Bologna in epoca augustea attorno al 15 avanti Cristo) all'acquedotto del Reno che porterà acqua a Bologna e ad altri 52 comuni fino al 2015. La mostra, in corso presso il Museo civico archeologico di Bologna, resterà aperta fino alla fine di giugno. La rassegna è articolata su tre sezioni. La prima presenta la ricerca compiuta dall'Istituto di storia antica dell'Università di Bologna sull'acquedotto romano che ancora oggi appare un prodigio dl ingegneria: il condotto, 18 chilometri in galleria e con una pendenza media dell'1%, assicurava l'acqua giornaliera a 35.000 abitanti. La seconda sezione illustra la riscoperta e la riattivazione dell'opera nel 1881. La terza sezione si occupa infine del grande acquedotto del futuro, già in parte in esercizio. "Acquedotto 2000", con il lavoro di archeologi, studiosi di antichità e tecnici, offre uno spaccato originale di duemila anni di storia di cui dà conto qui sotto il professor Giancarlo Susini.


Raccontano i miti che Giove era invidioso di Prometeo perché aveva carpito il segreto del fuoco e lo aveva donato agli uomini; certamente, gli dei dovettero invidiare di molto i romani, perché furono padroni dell'acqua, perché la piegarono a tutti gli usi, la portarono a dividere i campi che irrigavano nelle loro bonifiche (i "rivali" erano i vicini di campo, divisi dal medesimo rivo), se ne servirono per le loro concerie, per le fornaci, le fonderie e le fulloniche, la trasformarono persino in forza motrice - in alternativa all'energia delle braccia umane (schiavi, non schiavi) e dei traini animali -, come è dimostrato dalla recente scoperta del molino a sedici mole mosso da una caduta d'acqua presso il Barbegal in Provenza o dalla recentissima ricostruzione di una turbina idraulica a Chentou in Tunisia. E infine i romani imprigionarono l'acqua entro lunghi condotti, quasi sempre su filari monumentali di archi - un simbolo della civiltà romana - e la condussero nelle città, alle fontane pubbliche e nelle case, dove l'acqua giungeva attraverso tubi di piombo.

Con i romani tramonta quindi l'abitudine di seguire la capra o il cinghiale che attraverso il sottobosco si dirigono verso una sorgente, metodo una volta infallibile per trovare l'acqua, e nelle città la gente - le donne, soprattutto - non si muove più per raggiungere, con l'anfora sul capo, il torrentello fuori delle mura.

La rivoluzione romana recupera tempo e fatica: tanto che uomini e donne scopriranno nei bagni pubblici, nelle terme cioè, i vantaggi del "tempo libero". Una rivoluzione per il benessere quindi, una rivoluzione non empia, perché le sorgenti e le fontane continuano a essere popolate di ninfe, e l'acqua - la prima risorsa dell'uomo - è anche per i romani un segno perenne, un segno corrente del divino. Ma la novità, con i romani e rispetto alle altre culture antiche, consiste nel considerare l'acqua un servizio pubblico.

È quello che accadde anche a Bologna, al tempo dell'imperatore Augusto, quando l'intero piano urbano fu rinnovato, in occasione dell'invio di nuovi coloni: ciò avvenne nel 27 avanti Cristo o poco dopo, e siccome le ricerche ora concluse hanno dimostrato che per scavare l'acquedotto romano (tutto in galleria, quasi 18 km, come il tunnel della Direttissima) ci vollero dai dodici ai quindici anni, non si va molto lontani dal vero quando si dice che l'acquedotto di Bologna, il primo, compie duemila anni. (Altri bimillenari cadono in questi anni, come quello del primo ordinamento regionale italiano, la prima Emilia-Romagna o il primo Veneto o la prima Umbria).

Certo, l'acquedotto di Bologna non è famoso nel mondo: per la ragione semplicissima che non si vede, non costituisce un epidermide monumentale o archeologica; lo conosce invece la gente, che lo chiama "del Reno" perché segue per gran parte quel fiume, o "del Setta" perché prende le acque da quel torrente: finita l'antichità, un rigagnolo corse sempre nel condotto, pur interrato e non spurgato, tanto che più volte (nel Trecento, nel Cinque, tra Sette e Ottocento) si utilizzò parte dei suoi impianti per le fontane di città, fino a quando, più di un secolo fa, il comune risorto a Bologna dopo l'unificazione nazionale lo riattivò del tutto.

La gente tornò quindi a bere l'acqua del Setta così come tuttora cammina per le strade del Mercato di mezzo nel centro della città, che ripetono in parte lo schema e le misure dell'impianto romano: continuità di comportamenti e di usi, anche fisiologici, che costituiscono la spina dorsale della storia della città, da allora - con i suoi trentamila abitanti, quanti ne prevedeva appunto l'impianto idrico romano - a oggi.

Si è detto di nuove, razionali ricerche. Gli antichisti hanno esplorato passo passo il condotto (s'è accorto qualcuno in città che durante gli ultimi due anni, specie d'agosto, s'interrompeva il flusso e il condotto veniva svuotato?), ne hanno rilevato i moltissimi segni lasciati dalle antiche maestranze, servendosi per ciò delle sofisticate attrezzature del Laboratorio epigrafico dell'Università di Bologna, e hanno ripreso migliaia di immagini, le stupende foto a colori di Adalberto Cencetti.

Con ciò, si è proseguita una folta tradizione di studi dal XVIII secolo a oggi: Calindri, Gozzadini, Zannoni, Coccolini, Bergonzoni. Con ciò si è dato l'avvio a numerosi studi tecnici ed epigrafici, dei quali un primo approccio si legge nel volume Acquedotto 2000 (Grafis, 1985), e nella mostra che si è aperta nei saloni del Museo archeologico (donde partirà per altre città italiane per altri Paesi).

Mostra dunque per celebrare un millenario? Niente affatto: sono stati i tecnici di oggi a cercare l'acqua per un nuovo acquedotto, capace di dissetare i bolognesi per qualche generazione; e - come prima tappa di un progetto destinato a coinvolgere altri bacini appenninici - hanno preso di nuovo l'acqua del Setta e hanno seguito lungo il Reno, sulla sponda opposta, il tracciato romano.

La mostra quindi, promossa dalle aziende consorziali per la gestione degli acquedotti e pilotata dall'Istituto regionale per i beni culturali, comprende tre settori, dopo il preambolo sulla cultura dell'acqua: l'acquedotto romano, quello ripristinato dal comune più di cento anni fa, e le realtà nonché i progetti di oggi e del Duemila.

Che il condotto romano fosse un gioiello di ingegneria si sapeva bene: ma la nuova ricerca ha rivelato tutti i segreti messi in opera per garantire il flusso regolare, e tutti gli artifici della tecnica antica. È un'autentica antologia di storia del lavoro.

Inoltre è stato possibile, attraverso l'esame degli infiniti segni numerici e degli schizzi di programmazione tracciati sulle pareti, scoprire il numero delle squadre che assieme, da pozzi diversi, hanno affrontato l'opera, e i tempi impiegati; talvolta, al punto di incontrarsi le squadre scoprivano di essere in errore di direzione e correggevano la rotta: come è accaduto anche nell'acquedotto di Colonia in Germania, che i tecnici del museo di Bonn presentano come confronto nella mostra bolognese.

Ma non sono solo gli studiosi tedeschi a interessarsi del monumento bolognese: a giorni verranno gli spagnoli, poi i francesi, gli jugoslavi, i polacchi, e molti altri. A considerare tutti una pagina ineguagliabile della cultura antica: con operai che sapevano scrivere e fare di conto, e avevano cura di segnare, laggiù al buio (e in ginocchio), il proprio nome sulla roccia.


[articolo di Giancarlo Susini; "il Resto del Carlino", 4 maggio 1985]



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