Rivista "IBC" XXII, 2014, 1

biblioteche e archivi / mostre e rassegne, pubblicazioni

“Ai confini della scienza. L’alchimia nei fondi della Biblioteca Universitaria di Bologna”, Bologna, Atrio dell’Aula Magna dell’Università, 13 febbraio - 3 maggio 2014.
Alchimia, o la casta meretrice

Zita Zanardi
[IBC]

La “casta meretrice”: così Giovanni Tritemio definisce l’alchimia, perché “ha molti amanti, ma tutti delude e a nessuno concede il suo amplesso. Trasforma gli stolti in mentecatti, i ricchi in miserabili, i filosofi in allocchi, e gli ingannati in loquacissimi ingannatori”. Con questo pensiero lievemente inquietante mi avvio verso l’atrio dell’Aula Magna dove è stata allestita la mostra “Ai confini della scienza: l’alchimia nei fondi della Biblioteca Universitaria di Bologna” e come sempre, quando varco quelle mura, mi si apre davanti agli occhi uno scrigno di gioielli. L’esposizione è piccola ma con un altissimo “peso specifico”: non essendo possibile in questa sede descrivere tutti i quaranta libri esposti, l’unica alternativa è quella di rimandare al catalogo che con le sue schede redatte con cura e dovizia di particolari da Rita De Tata (i manoscritti) e Patrizia Moscatelli (le edizioni a stampa), consente una conoscenza approfondita dei criteri di scelta degli autori e delle opere presenti. Non si pensi però che il catalogo possa sostituire la visita alla mostra: il piacere di vedere da vicino questi preziosi e non consueti volumi è ineludibile.

Il percorso espositivo comincia curiosamente con una donna: il piccolo manoscritto cartaceo, all’apparenza modesto, racchiude infatti il Liber Mariae soror Moysys, contenente uno dei testi fondamentali dell’alchimia, opera dell’ebrea Maria, creduta per molto tempo la biblica sorella di Mosè e Aronne. Vissuta invece probabilmente nel III secolo dopo Cristo, è la prima alchimista identificata con un nome reale: a lei si devono invenzioni basilari come l’alambicco e la cottura “a bagnomaria”.

Passando da un libro all’altro lentamente, per coglierne quanto più possibile il senso e l’importanza, appare subito evidente nel suo significato l’affermazione dello scienziato persiano al-Razi, “liber librum aperit”: nonostante l’apparente eterogeneità, ogni opera è legata indissolubilmente all’altra e si colloca esattamente al suo posto nell’universo ermetico che costituisce la materia alchemica. Persino un autore come il teologo spagnolo Raimondo Lullo, che non si è mai espresso a suo favore, trova una sistemazione logica in questo contesto, anche per il solo fatto che gli siano poi stati attribuiti numerosi scritti sull’argomento, non dichiaratamente suoi ma indirettamente riconducibili a lui. Sta di fatto che la struttura dei trattati alchemici, all’apparenza semplice, è in realtà oscura e nasconde il vero significato delle parole.

Nell’introduzione al catalogo, Biancastella Antonino, direttrice della Biblioteca e curatrice della mostra insieme con De Tata e Moscatelli, sottolinea che ciò che “separa definitivamente l’alchimia dalla scienza è il modo di comunicare e diffondere le teorie e il sapere. Il linguaggio dell’alchimia al pari di quello della magia e dell’astrologia deve rimanere ambiguo e allusivo, una verità riposta o un segreto non possono essere espressi con chiarezza e devono rimanere riservati ai soli iniziati”. Questo è quindi il vero motivo per cui l’alchimia “non è sopravvissuta alla sua stessa fama”, pur essendo molto più vicina alla scienza di quanto possa cogliere o anche solo ammettere il pensiero razionalista; per l’alchimia “conoscere” – spiega ancora Antonino – “significa non appropriarsi di una realtà data e oggettiva, ma addentrarsi nella materia attraverso azioni tese a purificare, a liberare dal caso materiale il semplice elemento cercato [...]. Essa percorre insomma la via di una conoscenza, che non è quella verificabile e astratta come la intendiamo dal Settecento in avanti, ma quella che è anche salvezza e liberazione”.

L’ultimo volume esposto è il Cours de chymie di Nicolas Lemery, nell’edizione parigina del 1697: siamo alle soglie dell’età dei lumi e l’autore ha il pregio non tanto dell’originalità dei contenuti, che sono modesti, quanto di avere anticipato il linguaggio e il metodo della nascente scienza chimica. Confesso che a questo punto mi assale una punta di malinconia, ripensando ai volumi che lo hanno preceduto, non ultimo il codice cartaceo del 1476, dove, fra i vari scritti raccolti in miscellanea, si può leggere la ricetta per la realizzazione dell’aurum potabilis, l’oro dei filosofi, che una volta distillato e raffinato, fino a diventare più puro di quello reperibile in natura, sarebbe stato in grado di ringiovanire chiunque avvicinandolo all’immortalità.

Preferisco quindi lasciare la mostra pensando con piacere alle parole di Paolo Coelho: “Per questo esiste l’alchimia. Affinché ogni uomo cerchi il proprio tesoro e lo scopra e poi desideri essere migliore di quanto non fosse nella vita precedente. Il piombo svolgerà il proprio ruolo fino a quando il mondo non ne avrà più bisogno. Ma poi dovrà trasformarsi in oro. È quanto fanno gli alchimisti: dimostrano che, ogniqualvolta cerchiamo di essere migliori di quello che siamo, anche tutto quanto ci circonda diventa migliore”.



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