Rivista "IBC" XXI, 2013, 4

musei e beni culturali / mostre e rassegne, pubblicazioni, storie e personaggi

Agli albori del ciclismo bolognese. Agonismo, turismo e quotidianità tra '800 e '900, Bologna, Bononia University Press, 2013.
La felicità va su due ruote

Ivan Orsini
[IBC]

"O amor et studium o magna insuperata voluptas / Labentis saecli, saeclis tradenda futuris; / O cunctis suprema salus mortalibus aegris, / Salve o, atque iterum, divina Bicyclula, salve". Con questi esametri torniti termina - ce lo ricorda Ennio Dirani in Luigi Graziani tra Carducci e Pascoli - il poemetto di 557 versi di cui fu autore il professore del Liceo di Lugo Luigi Graziani nel 1899. Bicyclula, questo il titolo, celebrava con toni roboanti e forme linguistico-letterarie sorprendenti il nuovo mezzo di locomozione che stava appassionando sempre più gli italiani, e non solo loro, alla fine dell'Ottocento: la bicicletta.

Era ed è rimasto l'unico mezzo che si sposti grazie solo all'energia motrice umana. La sua genesi bruciò le tappe: il "velocifero", due ruote tenute insieme da un asse, senza manubrio né pedali, frutto dell'ingegno del marchese francese Mède de Sivrac (1791!), subì un'impressionante evoluzione nel corso dell'Ottocento. Già nel 1816 il tedesco Drais vi aggiunse i componenti sopra citati creando la cosiddetta "draisina" o "velocipede"; inoltre rese mobile la ruota anteriore per consentire una maggiore maneggevolezza, creò il telaio in ferro e introdusse un freno in corrispondenza di una ruota.

Poi, nel 1855, il francese Michaux diede alla luce l'omonima "michaudina" o "biciclo": l'estrema diseguaglianza nelle proporzioni tra la ruota anteriore e quella posteriore, assai più piccola, rappresentava il tratto saliente di questo vettore. Disponeva anche di pedali sulla ruota anteriore e della sella. Infine, nel 1869, il tedesco Meyer ebbe la grande idea di applicare a questo settore il meccanismo della catena di trasmissione, già adottato nell'orologeria: così, con il "bicicletto", il mezzo avrebbe assunto dimensioni più vicine alla nostra bicicletta intorno agli anni Settanta di quel secolo. Da qui alla versione odierna il passo fu molto breve: già l'ultimo decennio dell'Ottocento vide la proprie strade percorse dalla bicicletta, dotata di tutte le caratteristiche che oggi le riconosciamo.

Grazie alla mostra "Agli albori del ciclismo bolognese. Agonismo, turismo e quotidianità tra '800 e '900" - organizzata dai Musei civici d'arte antica di Bologna e allestita al Museo Davia Bargellini dal 14 settembre al 17 novembre 2013 - si è avuta l'opportunità di ripercorrere questa parabola creativa osservando esemplari dei modelli poc'anzi ricordati, e di formarsi un'idea di quella passione per le due ruote che investì, trasversalmente, l'intera società, coltivata in diversa misura a seconda della disponibilità economica del singolo. L'Italia fu tra i paesi più entusiasti: il clima e la conformazione fisica dei territori permettevano di godere al meglio di lunghe pedalate turistiche, come anche di tragitti casa-lavoro. Le biciclette, quando possibile, venivano acquistate, ma spesso, al principio, solo noleggiate.

Nella seconda metà del XIX secolo fiorirono le corse individuali e a squadre, sia a livello locale sia nazionale e internazionale. Il palcoscenico bolognese non ebbe nulla da invidiare ad altre piazze. Tra i primi circuiti utilizzati per le competizioni ricordiamo la Montagnola, che vide sfrecciare, in breve volger di tempo, bicicli, bicicletti e biciclette. Tra i concorrenti si mise presto in luce Antonio Pezzoli: la sua famiglia di agiati commercianti di canapa gli consentì di coltivare con agio la passione ciclistica. I risultati non tardarono a giungere: conseguì il primo premio e buoni piazzamenti in numerosissime competizioni in Emilia-Romagna e in altre regioni. L'esposizione bolognese ha potuto avere luogo grazie alla disponibilità di collezionisti e proprietari di cimeli, a volte parenti dei personaggi "storici", come appunto è il caso il Stefano Pezzoli, nipote di Antonio. Tra i prestatori ricordiamo anche, oltre alla Biblioteca dell'Archiginnasio, Antonio Alberoni, Luigi Bazzani, Paolo Cassoli, Alessandro Fanti e Chiara Galletti.

Altro grande esponente del ciclismo bolognese dei primi anni del Novecento fu Adriano Vignoli. Arrivò al ciclismo come parecchi altri suoi coetanei: le buone capacità di resistenza e di corsa sui pedali che emergevano nella quotidianità del viaggio casa-lavoro lo condussero alla pratica della disciplina sportiva, prima come dilettante e poi come professionista. Il miraggio di discreti guadagni che potessero quanto meno aumentare le scarse entrate rappresentò di certo un valido incentivo. Lungo una carriera iniziata tardi e durata oltre un quindicennio, dal 1931 al 1947, Vignoli vinse gare di una giornata e tappe di giri, in Italia e in Francia. Fece parte delle squadre più blasonate dell'epoca. Furono gli anni Trenta, prima dell'interruzione agonistica dettata dallo scoppio della guerra, gli anni in cui la vigoria fisica di Vignoli poté conseguire i maggiori traguardi.

Nel 1947 riprese le gare ma fu una stagione breve e avara di soddisfazioni. Però non perse la passione per la bici: aprì a Casalecchio di Reno, subito fuori Bologna, un negozio di riparazioni di questi velocipedi e rimase nella comunità dei cicloamatori. Una comunità che potrebbe riconoscersi nelle parole di Éric Fottorino, già direttore del quotidiano francese "Le Monde" e grande appassionato di ciclismo: "Ogni volta che risalgo in bicicletta, davanti ai miei occhi torna a formarsi il plotone dell'amicizia. La mia memoria fa l'appello."


Agli albori del ciclismo bolognese. Agonismo, turismo e quotidianità tra '800 e '900, Bologna, Bononia University Press, 2013, 90 pagine, 20,00 euro.

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