Rivista "IBC" XXI, 2013, 4
musei e beni culturali / mostre e rassegne, storie e personaggi
Intorno agli anni Quaranta del Novecento, ormai alla fine della sua carriera, lo scultore Arturo Martini, spirito audace e ricco d'entusiasmo, affronta una crisi creativa molto profonda. La partecipazione alla Biennale del 1942 non aveva raccolto i consensi sperati e il confrontarsi con commissioni pubbliche per alcuni progetti monumentali aveva prodotto in lui un pesante senso di costrizione e d'incapacità creativa. La crisi si acuisce celermente e, per un breve periodo, Martini decide persino di abbandonare la scultura. Nell'incapacità di una sua innovazione, la definisce, sprezzantemente, "lingua morta". Egli soffre della sua condizione d'artista costretto a lavorare assecondando logiche prestabilite. Se l'"unico compito" della scultura è "celebrare gli dei, i santi e gli eroi", essa "dunque è una forma di oratoria o nei casi migliori di eloquenza [...] schiava del suo carattere pratico [...] non può uscire dal relativo: sarà umana consolazione, ma mai linguaggio universale".1
Parole dure le sue, che colpiscono maggiormente se si considera che sono state scritte nel 1945, ossia quasi a metà del secolo che più di ogni altro ci ha abituati alle rotture e alle reazioni ai saperi prestabiliti. Un atteggiamento passivo, insomma, che genera più di un sospetto. Il Novecento, si sa, è stato un secolo di mutamenti repentini, di vere e proprie "staffette" tra uomini e continenti alla ricerca continua della novità, dello shock, di sempre nuove aggressioni al "ben pensare" comune. E l'arte, in particolar modo, ha spesso anticipato tale sensibilità, in un'ansia di sperimentazione di nuove vie, di nuove tecniche e di forme di espressività senza precedenti. Da dove nasce, quindi, questo profondo disagio dell'artista?
Egli è uno sculture, e la scultura è un mezzo di espressione "lento", che si è rivelato più volte incapace di assecondare il passo serrato della pittura. Ed è vero che è stato Gustave Courbet, quindi un pittore e non uno scultore, colui che per primo ha dichiarato guerra aperta al sistema, allestendo il suo "Padiglione del Realismo" (1855) sfidando la grande Esposizione Universale parigina. E saranno principalmente dei pittori i protagonisti del successivo Salon des refusés (1863) e delle mostre degli Impressionisti, così come risulta molto più forte e di impatto la componente pittorica delle grandi avanguardie storiche che hanno definitivamente scardinato il sistema accademico. Mosso probabilmente da queste osservazioni, Arturo Martini decide di porre la sua domanda ("Perché la scultura che può fare una Venere, non può fare un pomo?")2 proprio a un pittore, all'amico Massimo Campigli, cercando un conforto e una via d'uscita da questa impasse. E Campigli gli risponde: "Perché vuoi fare scultura di un pomo? [...] Fa una banana; vedrai che acquisterà espressione". Ma Martini non è soddisfatto e conclude: "La risposta veniva a confermare la mia tesi. La banana suscita un'immagine fallica e quindi ancora umana".
L'artista si interroga, ma in fondo, quando scrive queste parole, sa bene che la scultura era già stata ampiamente riformata. Egli è in crisi perché esita a compiere quel salto verso l'informalità a cui la sua stessa carriera lo stava spingendo, ed è questo che lo frena e lo preoccupa. Egli è essenzialmente un artista narrativo. La sua grandezza è consistita proprio nell'aver riconsegnato dignità alla scultura, rendendola "lingua viva", senza rinunciare alla sua componente descrittiva. La sua genialità è legata a una straordinaria capacità di inventatio, a un modo ineguagliabile di costruire figure ed escogitare scene sempre nuove, alla facilità estrema con cui le sue opere riescono a comunicare e a raccontare la propria storia senza bisogno di intermediazioni. La sua crisi, quindi, è più una ricerca di consensi e di conferme, perché, in realtà, aveva già dimostrato proprio con la sua opera esattamente il contrario di quanto affermava in quelle parole.3
Climax di questa ricerca di nuova espressività per la scultura è stato il periodo del "canto", come lo definisce lo stesso artista, quando, tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta, si abbandona totalmente all'istinto, in piena enfasi creativa. Sono gli anni in cui Martini risiede stabilmente a Vado Ligure, durante i quali nascono le sue meravigliose "creature", il ciclo delle grandi sculture in terracotta. Alla prima di queste sculture, Madre Folle, attualmente di proprietà della Fondazione Cassa di risparmio in Bologna, si deve l'incipit per la realizzazione di due grandi mostre allestite tra il 2013 e il 2014 a Palazzo Fava di Bologna e al Museo internazionale delle ceramiche di Faenza. Due mostre per celebrare il maestro veneto in ogni aspetto della sua ricerca.
Nelle sale del Palazzo delle Esposizioni di "Genus Bononiae" s'incontrano capolavori senza tempo come La Lupa (Anversa, Museo Middelheim), Il Cielo (Le stelle) (Roma, Galleria nazionale d'arte moderna), l'Attesa (La veglia) e L'aviatore (entrambi in collezioni private), opere realizzate tra il 1928 e il 1932 a Vado Ligure e riunite per la prima volta insieme dopo la storica esposizione della "I Quadriennale d'Arte Nazionale" di Roma del 1931, che consacrò a tutti gli effetti il genio creativo di Martini, conferendogli la vittoria e un assegno di ben centomila lire. Modellate quasi all'istante, queste sue "creature" occupano lo spazio in maniera precaria, delicate ed effimere, nonostante la consistenza del materiale con cui sono state realizzate: l'argilla refrattaria.4 Questa, di fatto, a dispetto della loro apparente fragilità, le rende molto resistenti, capaci di sopportare lunghe esposizioni all'aperto, come dimostra Il Cielo (Le stelle), conservata per molto tempo nel giardino della villa romana di Marcello Piacentini.
In totale, a Bologna, sono stati esposti tredici dei diciotto pezzi unici componenti il ciclo delle grandi terrecotte che l'artista realizza a Vado Ligure (due, L'Annunciazione e La girl, sono andati distrutti e gli altri tre sono stati ritenuti inamovibili e intrasportabili). A essi si aggiungono tre terrecotte di piccolo formato, realizzate negli stessi anni e accostate alle altre per la loro rarità. Ogni "creatura" è un'entità autonoma, una vera e propria mise en scène che racconta la sua piccola storia. Martini, come un sapiente regista, narra la scena e la psicologia del suo personaggio selezionando accuratamente i dettagli da mettere in evidenza e quelli da nascondere, conferendo ritmo alla narrazione, e creando composizioni di grande impatto e di empatia immediata.5
"Guardate e ascoltate queste opere", suggerisce la nipote dell'artista, Graziosa Bertagnin, riferendosi alla carica suggestiva di queste realizzazioni, tra gli esiti più intimi dello sculture veneto. Un'intimità messa in risalto anche dalle parole di Massimo Bontempelli, quando, in ricordo dell'amico scomparso l'anno prima, scrive: "Un momento di gioia grande penso sia stato molti anni fa, quando lui scoprì la terracotta come elemento originario, proprio come un primigenio scopre il fuoco. Dal connubio tra lui e la terracotta è nato il Martini più germinale. (Martini pensa in terracotta, come Fidia in marmo). Con tanta tenerezza per la carne, con un senso così caldo dell'epidermide, è pure la scultura di Arturo Martini la più ricca d'anima che il nostro secolo abbia prodotto".6
Se a Bologna si celebra l'artista sregolato, governato dall'enfasi creativa che si esprime di getto nelle sue splendide "creature", a Faenza, la mostra "Arturo Martini - Armonie. Figure tra rito e mito" punta a ripercorre tutti i suoi ripensamenti, la sua voglia di armonia e finitezza formale, tentando di raccontare la sua continua sperimentazione di materiali diversi, dalla sua prima opera conosciuta (il Ritratto di Fanny Nado Martini, 1905, Museo Bailo, Treviso) fino agli esiti finali del suo lavoro.
Di origini brisighellesi da parte di madre, Arturo Martini, sul finire della Prima guerra mondiale, trascorse un periodo di circa sette mesi nella cittadina romagnola. Fu un soggiorno breve ma particolarmente significativo per l'artista, una pausa di riflessione lontano dai frastuoni dell'avanguardia romana e del clamore parigino a cui era costretto per lavoro. Del suo passaggio in città sono visibili tracce nel battistero della chiesa di Rivalta e in un bassorilievo della chiesa di Sant'Ippolito raffigurante Il battesimo di Cristo, oltreché nelle tre opere a cui lavora in questo periodo, appartenenti a collezioni private ed esposte in mostra per l'occasione: La Lussuriosa, il Cavallino Innamorato, La Fiaba.
Come osserva la curatrice della mostra faentina, la direttrice del Museo internazionale delle ceramiche, Claudia Casali: "Se si analizzano le opere conosciute realizzate in questo brevissimo lasso di tempo si colgono momenti stilistici e creativi assai distanti che giustificano un travaglio interiore, necessario, in un momento di forte cambiamento. Dopo Faenza, ricordiamo, ci sarà il periodo 'classico' di 'Valori Plastici' che porterà alla riflessione sui volumi, sullo spazio, sull'assoluto della sua migliore creazione".7
La mostra di Faenza offre l'opportunità rara di poter vedere riuniti circa cinquanta lavori di Martini. Tra capolavori e opere poco esposte o addirittura inedite,8 appare chiara l'evoluzione stilistica del maestro, dalle prime prove intrise di verismo del Davide moderno(1908, Musei civici di Treviso) fino alle forme di chiara ascendenza cubista della Nuotatrice che esce dall'acqua (1943, collezione privata), passando per l'enfasi espressionista dellaFanciulla piena d'amore (1913, collezione privata). In mostra si ha anche l'occasione di vedere una delle rare sculture lignee di Martini, la Testa di Medusa (1930) appartenente alle collezioni del Musei civici di Venezia.
Note
(1) A. Martini, La scultura lingua morta: pensieri, Savona, Marco Sabatelli Editore, 2007, p. 17.
(3) La scultura lingua morta è in realtà da leggersi come un testo provocatorio, quasi una sfida che l'artista lancia ai suoi ipotetici "eredi" perché continuino le sue ricerche, come è confermato dalla frase dell'autore posta in chiusura dell'opuscolo: "Nego la paternità di qualunque pensiero io abbia espresso, da chiunque raccolto e fissato, su questo argomento, perché si tratta di parole immature contrarie alle mie conclusioni".
(4) Sono state tutte realizzate all'ILVA Refrattari di Vado Ligure, grazie alla disponibilità dell'allora direttore Polibio Fusconi, che adattò appositamente per Martini una stanza-forno per poter realizzare, in una sola cottura, sculture di grandi dimensioni.
(5) Si veda in proposito il catalogo della mostra bolognese: Arturo Martini. Creature. Il sogno della terracotta, a cura N. Stringa, Bologna, Bononia University Press, 2013.
(6) Arturo Martini, a cura di M. Bontempelli, Milano, U. Hoepli Editore, 1948, p. 12.
(7) Arturo Martini. Armonie. Figure tra mito e realtà, a cura di C. Casali, Bologna, Bononia University Press, 2013, p. 21.
(8) È il caso de La Fiaba, una delle già citate opere realizzate dall'artista durante il suo soggiorno faentino.
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