Rivista "IBC" XXI, 2013, 2

musei e beni culturali, biblioteche e archivi / mostre e rassegne, pubblicazioni, storie e personaggi

Sibilla, Graziella, Margherita, Clelia... Nella vita dello scrittore romagnolo Alfredo Panzini la presenza femminile è centrale. Nel 150° della sua nascita Bellaria Igea Marina la mette in mostra.
Sibilla e le altre

Marco Antonio Bazzocchi
[docente di Letteratura italiana contemporanea all'Università di Bologna]

Dal 14 giugno 2013 all'8 settembre 2014 Bellaria Igea Marina celebra il centocinquantesimo anniversario della nascita di Alfredo Panzini con un'esposizione dedicata ai rapporti dello scrittore con il mondo femminile. La mostra "Alfredo Panzini e lo stile delle donne", allestita nella Casa Rossa (www.casapanzini.it), racconta alcune delle figure che hanno accompagnato la carriera pubblica e la vita privata del celebre autore delDizionario moderno: le intellettuali Margherita Sarfatti, Sibilla Aleramo, Ada Negri da una parte, la moglie Clelia e la figlia Matilde dall'altra. L'iniziativa è promossa dal Comune di Bellaria Igea Marina in collaborazione con l'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia Romagna, che ha pubblicato il catalogo nella collana "Immagini e Documenti": da esso è tratto questo testo, che riprende la parte iniziale del saggio scritto dal curatore della mostra.


Sul "Corriere della Sera" del 15 luglio 1927 Alfredo Panzini pubblica un racconto, o meglio una specie di ritratto femminile, dal titolo Lo scaldabagno di donna Graziella. La testimonianza sembra così viva e diretta che, anche senza che lo scrittore lo dica, potrebbe essere lui stesso ad aver raccolto le notizie di cui si parla. E cioè di una pittrice, donna Graziella, còlta nell'abitudine mattutina del bagno, necessario a mantenere la bianchezza nivea della sua pelle. La stessa candida purezza si riflette nelle attitudini dell'artista che ogni sera, sollevando le coperte, pone le mani a croce sul petto e rivolta al cielo supplica: "Signore, fammi morire!". Lo sguardo del testimone comincia lentamente a incrinarsi, si aprono le prime leggere pieghe nel suo resoconto: questa artista francescana, verrebbe da dire di un francescanesimo postdannunziano, è ridotta in miseria, e vive di stenti in "una grande soffitta a due spioventi dove si arroventava la state e si gelava d'inverno", cui si aggiunge il disagio prodotto da "un finestrone così ampio che per gli sconquassati vetri entrava il vento notturno". Ma Graziella preferisce soffrire vento e gelo, non ha potuto comprare una bella imbottita "perché aveva comprato uno scaldabagno, oggetto di lusso, di cui non poteva però fare a meno". Non ha neanche lenzuola sue, perché quelle che usa sono il prestito pietoso di un'amica, non ha orologi, ed è il sole a svegliarla non appena si affaccia alla grande invetriata del tetto.

Ma la povertà qui non sembra una virtù. O almeno non così ce la vuole presentare chi racconta, perché quello scaldabagno, quell'oggetto di comfort moderno [dal Dizionario moderno: "comfort indica quel complesso di agiatezze, informate non tanto al fasto e all'agiatezza, quanto all'uso e all'igiene di cui gli inglesi furono maestri."] sono il segno di una proterva concessione alle mode, ai bisogni superflui, al lusso che si fa strada anche dentro la miseria assoluta. E così la parabola di Graziella giunge, con sottile ironia, al momento inevitabile in cui non arriva più una tazza di minestra dalle mani amiche, non ci sono più colori né tele, e la pittrice si abbandona, per l'ennesima volta, nelle mani di un Dio che dovrebbe, pietosamente, farla morire. Ma la morte non arriva. E allora, adornandosi con l'ultimo vestito che le rimane, lavata da un ennesimo bagno mattutino, Graziella si rivolge a un commerciante di quadri e gli propone la vendita di tutte le sue opere.

Entrato nella soffitta, senza essere preparato adeguatamente, il commerciante vede quadri di angeli e Madonne, e li rifiuta, disprezzandoli in nome di un gusto nuovo che vuole "quadretti stuzzicanti", "donnine ultimo stile abbracciate con angeli moderni", e cose simili: altro che soggetti sacri! Graziella deve accettare l'umiliazione: prende mille lire dal mercante, firma un impegno, e promette nuovi quadri entro la fine del mese. La promessa si rivela però impossibile da mantenere. L'ispirazione della pura Graziella è tale "che pur volendo disegnare figure mondane, non riusciva che a dipingere angeli e santi". Legge sul giornale di una certa Maria Letizia, donna "che per tutta la vita non fece altra cosa che amare". Si mette a dipingere, e inevitabilmente Maria Letizia diventa Maria Maddalena, "che languiva d'amore per il suo Signore Gesù Cristo". Non le è possibile compiere peccato. Un segnale di salvezza celeste, probabilmente.

Ma così arriva la rovina, i notai e gli uscieri che sequestrano i pochi beni rimasti. Allora Graziella, con un moto d'orgoglio, invia al commerciante l'ultima cosa preziosa che le rimane: lo scaldabagno! "Signore, - diceva un biglietto di Graziella, - la sola cosa di valore che io posseggo, è questo scaldabagno. Èccovelo e sia pace fra noi". A questo punto, però, sopraggiunge realmente la salvezza. Il commerciante rimanda indietro l'oggetto prezioso, si reca di persona nella soffitta e comunica a Graziella di volerle comprare tutti i quadri di soggetto religioso: è venuto il tempo della "verecondia", bisogna moralizzare il mondo. Solo nelle ultime righe il narratore ci rivela le ragioni del miracolo, l'improvviso rivolgersi in direzione positiva del fato. Dall'America il commerciante ha ricevuto notizie che, dopo le devastazioni prodotte dal materialismo, si ritorna alla Religione. Occorre spedire là interi stoccaggi di quadri con santi, angeli e angioletti. Ancora una volta la moda ha prodotto il grande cambiamento, l'inaspettato. E Graziella può comprarsi lenzuola, un'imbottita calda, e tornare a mangiare. Lo scaldabagno ha funzionato da oggetto magico: unico bene voluto da Graziella, in nome di un'eleganza mai ripudiata, ritorna indietro e porta con sé il ribaltarsi della fortuna.


Non sarebbe facile indovinare le intenzioni segrete di Panzini dietro a questo raccontino divertente e malizioso, dove sembra esser presa di mira una castissima pittrice e invece viene ritratta, con il segno della ferocia ironica, una scrittrice non del tutto casta. E precisamente Sibilla Aleramo, che nel '27 vive in effetti in povertà, in una dignitosa povertà, e approfitta di un sussidio concessole direttamente da "Sua Eccellenza Benito Mussolini", mille lire al mese e cinquantamila lire come premio dell'Accademia d'Italia. La vera identità di Graziella (un nome gozzaniano, a dire il vero) la ricaviamo proprio da una lettera che Sibilla scrive ad Alfredo, una delle tante che oggi possiamo leggere nell'archivio dello scrittore.

Il 2 marzo del '27 lei lo invita ad andarla a trovare nella soffitta. È uscito Amo dunque sono, il romanzo dove Sibilla mette in scena l'amore con Giulio Parise, creando un diario composto di quarantatre lunghe lettere attraverso le quali viene analizzato lo stato d'animo di una donna separata per trenta lunghi giorni dal suo amante. Sibilla ha saputo da Baldini che Panzini è interessato al romanzo, e subito lo incalza, tirando in causa due anni di "eclissi d'amicizia", a parer di lei "tristissima" e "immeritata". Proprio per questo, per riallacciare un rapporto, lei lo invita ad andare nella soffitta romana (via Margutta 42, III piano, è l'indirizzo scritto in grande alla fine della lettera). Sempre che lui (e l'azzardo è indicativo di voci che giravano su Sibilla, sulle sue malattie amorose, ma in bocca a lei sa di sfida a un uomo malizioso come Panzini), sempre che lui non tema veramente di "appestarsi", frequentandola. Una stoccata, una provocazione. Andata comunque a segno, se in effetti la visita c'è stata, e ha prodotto l'articolo sul "Corriere", che così possiamo leggere come un ulteriore gioco di allusioni: la santa Graziella, la pittrice di Madonne e angeli, e dietro l'"appestata" Sibilla, la scrittrice che ha fatto dei suoi tanti amori oggetti di analisi letteraria.

E così Sibilla, il 16 luglio, allude all'articolo uscito il giorno prima sul "Corriere": "Caro Panzini, ora che la mia soffitta e il mio scaldabagno e qualcosa anche della mia psiche vi hanno offerto lo spunto per una deliziosa pagina, penso sentirete ancor più forte le necessità di mantenere la promessa, e scrivere sul mio libro - no? Donna Graziella vi ringrazia. Donna Sibilla attende. Affettuosamente, S. A.". Pervicace, spiritosa, pungente. Troppo per Alfredo. E infatti la recensione non arriva. Anche se Sibilla, come altre donne intellettuali, scrittrici, o artiste, compresa la stessa moglie Clelia, aveva visto molto in profondità dentro la personalità dello scrittore. E aveva visto innanzitutto la curiosità continua, assidua, millimetrica con cui Alfredo esplorava il mondo femminile, ne faceva oggetto di pagine che costellavano tutti i suoi romanzi, lo analizzava attraverso i reperti linguistici del Dizionario moderno, dove moda, abitudini, oggetti, atteggiamenti delle donne e della loro mutazione dall'inizio del secolo costituivano ampi ambiti di definizione.

E poi basta scorrere i suoi titoli: SantippeLa Madonna, di MamàNovelle d'ambo i sessi,Trionfi di donnaIo cerco moglie!SignorineDonne madonne e bimbiLa pulcella senza pulcellaggioLe damigelleLa sventurata Irminda!, e, infine, La Penultima moda. Le donne sono parte costituiva dell'opera di Panzini, scorrono dentro le pagine in mille forme diverse, oggi possiamo osservare il mondo femminile come l'ossatura su cui Panzini ha costruito una trama di osservazioni e considerazioni sempre variata, che difficilmente possiamo ricondurre allo stereotipo (pur presente, non c'è dubbio) del "Panzini misogino", "Panzini passatista", "Panzini laudator temporis acti" eccetera.


Eppure c'è in questa attenzione una molteplicità di ragioni che non possiamo semplificare, né liquidare con giudizi semplici o avventati.

State a sentire cosa gli scrive Sibilla, da Parigi, molti anni prima dell'episodio dello scaldabagno. Siamo nel dicembre del 1913, deve ancora scoppiare la guerra, Mussolini è di là da venire. Ancora una volta lei lo invita, vuole fargli conoscere la città, probabilmente il legame è nato quando Panzini ha cominciato a intrattener rapporti con Giovanni Cena, che dirige la "Nuova Antologia" e che è uno dei primi amori della scrittrice, quello che la spinge a pubblicare il primo inarrivato successo, Una donna, nel 1906. "Decidetevi. Chiacchiereremo. Ho tanto bisogno di discorrer ancora con voi, che siete ormai il mio confidente, e che avete voluto esserlo, no?". "Voluto" viene sottolineato: un'allusione al ruolo preciso che Panzini ha assunto nella vita di lei (infine, solo 13 anni li separano: Panzini è del 1863, lei del '76).

Un consigliere? un maestro di virtù? o è solo l'interesse che la fa parlare così? o la riconoscenza per qualche mediazione ai tempi dell'amore con Giovanni Cena? Oltretutto, Sibilla allude a Santippe, il romanzo greco dove si parla di un rapporto matrimoniale burrascoso come quello di Socrate con la moglie, e poi gli chiede di 15 giorni in I classe, che esce sulla "Nuova Antologia" e poi diventa Viaggio di un povero letterato. Ma il passaggio più interessante, dove viene fuori l'intuito critico di Sibilla, è quando lei racconta di aver conosciuto d'Annunzio: "Vedete che non vi dimentico? E sì che in questi giorni ho conosciuto l'uomo più opposto a voi e ne ho sentito tutto il fascino: D'Annunzio. È stato con me d'una grazia perfetta: con una semplicità e una letizia di fanciullo... Magico!".

Che Sibilla individuasse in d'Annunzio una tipologia maschile del tutto opposta a quella di Panzini è di sicuro segnale di un buon intuito. Anche se poi va detto che in lei continuava ad agire in profondità un istinto dannunziano, il bisogno di fare letteratura trasfigurando in direzione elevata le proprie esperienze, considerando la pagina scritta il luogo dove riporre ogni segreto dell'esperienza vissuta: "Un libro, il libro... - scriveva in Una donna - Ah, non vagheggiavo di scriverlo, no! Ma mi struggevo, certe volte, contemplando nel mio spirito la visione di quel libro che sentivo necessario, di un libro d'amore e di dolore, che fosse straziante e insieme fecondo, inesorabile e pietoso, che mostrasse al mondo intero l'anima femminile moderna, per la prima volta, e per la prima volta facesse palpitare di rimorso e di desiderio l'anima dell'uomo, del triste fratello...".

Non era solo all'opposto di d'Annunzio, la ricerca letteraria di Panzini, ma all'opposto anche di Sibilla: di fronte a pagine come questa, di sicuro Alfredo avrà reagito sorridendo, scuotendo la testa, facendo brillare gli occhi dietro gli occhialini tondi. Scrittura imbellettata come una donna che cerca di attirare le attenzioni maschili, avrà pensato. Trucco, rossetto, cipria, henné [Dizionario moderno: "In italiano, henna. È la Lawsonia inermis, pianta dell'Arabia a fiori odorosissimi, a cui Avicenna diede il nome di al-kanna. Le foglie, seccate e ridotte in polvere e in pasta, servono alle donne orientali per tingere i capelli, le palpebre, le labbra, le unghie; e anche alle occidentali; ma esse usano la voce francese"].

Tutto il contrario di quanto Panzini sta sperimentando nelle sue opere, dove il filo narrativo serve spesso come legame per una serie di considerazioni morali condotte sul crinale dell'ironia e dell'allusività, con continue digressioni che spostano l'attenzione dal presente al passato, con un andamento magmatico e irregolare che fa pensare non tanto a un narratore novecentesco quanto alle posture di un moralista classico come Montaigne travestito con i panni ispidi di un fattore di campagna. "Naturale argomento del Panzini è la sua propria vita, naturale espressione del suo spirito è il soliloquio e la meditazione" aveva scritto nel 1910 Renato Serra, il giovane di Cesena ammirato con un affetto straordinario.

E adottando la prospettiva della bisbetica Santippe, Panzini aveva fatto parlare così una donna antica, secondo modalità esattamente opposte a quanto abbiamo visto nella pagina di Sibilla: "Infame razza prepotente, ipocrita, di uomini! rimasta tal quale! Ah, a voi torna comoda la donna, oca di Strasburgo e ingrassata pel vostro egoismo! A noi le gravi cure! Noi siamo uomini! - Tu torna, o donna, all'ago e al pennecchio infra le ancelle; e ti ricorda che niuna cosa rende più brutta la donna come la inverecondia. E poi le vanno a cercar fuori le donne con gli occhi cerchiati di inverecondi pallori!".

Dunque Sibilla poteva sperare in una continuità di amicizia, ma non in una sottoscrizione di intenti letterari. Altro cercava Panzini, altro era il suo cammino dentro un mondo segnato inevitabilmente dalla fine dei grandi modelli letterari e destinato a vivere di magre illusioni. Non c'era più posto per le donne nevrotiche e artificiali di d'Annunzio, ma neanche per quelle che aspiravano a salire verso le glorie letterarie come Sibilla.

[...]


Nota

Lettere e documenti sono citati dall'Archivio Panzini, conservato presso la Biblioteca comunale "Alfredo Panzini" di Bellaria Igea Marina. [...]

Ho inserito nel mio discorso, per testimoniare la coerenza concettuale di Panzini e qualora fosse utile anche a fini chiarificanti, le citazioni dal Dizionario moderno, tra parentesi quadre.

[...]

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