Rivista "IBC" XX, 2012, 4
musei e beni culturali / pubblicazioni
"Vi sono le ruine della città d'Ombrìa. Gira uno miglio, si vedono ancora le rovine delle muraglie delle case in cima al monte Occa, ivi è un monte detto Barregaz, al quale si vede ancora intorno il fosso, e trinchiere intagliate, e segno che ivi era alloggiato l'essercito che espugnò detta Città...". Con queste parole i resti di Ombrìa sono descritti nel 1617 in un'opera commissionata da Federico Landi, signore del luogo. All'antico sito nell'Emilia occidentale è dedicato il primo volume della nuova collana della Soprintendenza archeologica dell'Emilia-Romagna, coordinata da Filippo Maria Gambari, che si avvale dei contributi di Elisa Adorni, Massimo Brutti, Annamaria Carini, Manuela Catarsi, Luigi Malnati, Carlo Mazzera, Sergio Mussi, Giorgio Petracco, Patrizia Raggio.
Sui resti conservati nel territorio di Varsi, sull'Appennino parmense, ma in diocesi di Piacenza, da centinaia di anni si esercitano studiosi, appassionati e dilettanti illustri, amanti di leggende e di tesori sepolti. Il volume senza nulla trascurare, e grazie a un qualificato gruppo di studiosi e ricercatori, affronta tutti gli aspetti del sito: dal mito alle più recenti interpretazioni archeologiche, dalla storia delle scoperte fra Ottocento e Novecento alle evidenze naturalistiche e geologiche. La parte centrale è dedicata alla storia degli studi e delle ricerche, dalle origini mitiche fino alle esplorazioni novecentesche.
Alle più antiche descrizioni si collegano antiche leggende che trattano di nani, di giganti, di pastori e di inafferrabili quanto straordinari tesori sepolti. Ma la prima vera campagna di scavo, nel 1861, si deve a un tedesco: Alexander Wolf. Questi, esule negli Stati Uniti per motivi politici, spinto da interessi storici approda a Piacenza, dove trova la collaborazione e il sostegno di Bernardo Pallastrelli, nobile, studioso e collezionista locale, che poi pubblica i risultati degli scavi. A fronte di manufatti scarsissimi e poco significativi (caratteristica che si evidenzierà anche in occasione delle successive esplorazioni) sono invece individuati con precisione i resti di una torre e di due muraglioni, che il Pallastrelli interpreta come le mura di una città degli Umbri. Non mancano le polemiche da parte dell'archeologia ufficiale, rappresentata dal paletnologo Luigi Pigorini, che propende per una datazione dei resti all'età medievale.
Altre ricerche seguono nel corso del Novecento, e di queste il volume ci offre una testimonianza inedita e di prima mano: il diario dello studioso parmigiano Maurizio Corradi Cervi. Il diario, trascritto e pubblicato, restituisce il vivido racconto della campagna di ricerche condotta nel luglio del 1950 da Corradi Cervi e da Giorgio Monaco, allora direttore del Museo archeologico nazionale di Parma. Gli studiosi optano per un'origine antica delle murature, messe in relazione con altri simili recinti fortificati e attribuite ai Liguri, che le avrebbero costruite tra gli ultimi decenni del III secolo e i primi del II avanti Cristo.
Occorre attendere il nuovo secolo, quando la Soprintendenza archeologica dell'Emilia-Romagna comincia la pulizia e la documentazione delle strutture per avere un puntuale e scientifico riesame dei vecchi risultati e delle nuove scoperte. Grazie anche ai moderni metodi di indagine si ricostruisce una stratigrafia affidabile della cinta fortificata e del sito, con l'individuazione di due fasi costruttive, corrispondenti a due diversi piani di frequentazione. La prima fase potrebbe essere attribuita ai Liguri, la seconda a un arroccamento militare sul limes bizantino-longobardico nell'Alto Medioevo.
Giace sepolta la città d'Umbrìa. Il più gran tesor che al mondo sia, a cura di M. Catarsi, Parma, Studio Guidotti, 2012 ("Documenti ed evidenze di archeologia", 1), 95 pagine, senza indicazione di prezzo.
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