Rivista "IBC" XX, 2012, 2
Dossier: Le case delle parole - Viaggio nella Romagna dei poeti e degli scrittori
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Sulla riva di Ponente, affacciata sul Porto Canale "che divide sinuoso le case in due striscie quasi uguali", a capo del "ponte dai balaustrini lindi" che allaccia le due rive e che aveva sostituito quello antico a schiena d'asino... Ho sempre pensato alla casa di Marino Moretti, che frequento da quasi quarant'anni, come a una sorta di misteriosa conchiglia, piena di risonanze, di suggestioni, di vibrazioni impercettibili e segrete. Non soltanto perché essa conserva, per chi sappia ascoltarli, il rumore e il respiro del mare, invisibile ma vicino, insieme con "qualcosa della vita d'un tempo che non si stanca d'insistere e d'accordarsi con non so qual sussulto del cuore", per usare ancora le parole dello scrittore; ma anche perché in queste stanze, fra questi mobili, rimasti in gran parte immutati, su queste pareti, con la stessa capricciosa arbitrarietà delle rime care al poeta che volle tesserne l'elogio, si ripercuotono gli echi di un'esistenza eccezionalmente lunga e operosa, di una voce letteraria che oggi riconosciamo, per generale consenso, come una delle più originali e resistenti dell'intero Novecento.
Pensate un po', quasi un secolo di storia letteraria, di viaggi testuali, in versi e in prosa, di percorsi della creazione, di relazioni e corrispondenze epistolari, racchiuso non già in un manuale scolastico, ma nelle quattro mura di una "casetta di paese": da Pascoli e D'Annunzio ai Novissimi, da Neera e Grazia Deledda ad Andrea Zanzotto e Tonino Guerra, passando per quasi tutti i nomi che contano della letteratura italiana del Novecento. E come non ricordare poi la lunga consuetudine di Marino con artisti quali Adolfo De Carolis o Filippo De Pisis?
Il cuore romagnolo della casa (che batte spesso, però senza enfasi e senza mai indulgere ai luoghi comuni, anche nell'opera poetica e narrativa di Moretti), è rappresentato, al piano terreno, soprattutto dalla cucina, debitamente provvista di aròla, di matra (la madia), del testo per la piada. Ma essa è, prima di tutto, una casa per scrivere: "La casa sa ch'io sono uno scrittore, / sa come scrivo, conosce il mio stile". Sempre al piano terra è ospitata la biblioteca, la "libreria casalinga" della poesia eponima de Le poverazze: "Quanti, in casa, i tuoi libri? Cinquemila? / [...] / È molto se ne ho letto uno su dieci. / Qualcuno invece l'ho letto e riletto / ed anche amato. L'ho portato a letto".
Al piano superiore, accanto alle camere da letto, lo studio dimesso e disadorno, i cui sparsi elementi sembrano quasi voler significare una programmatica, deliberata professione di poetica antidannunziana, a cominciare dallo scomodo "tavolino senza cassetto" (in rima con "stretto"), più simile a un banco di scuola che a una scrivania, sul quale lo scrittore ha scritto e riscritto a penna, con una grafia nitida e regolare, cartella dopo cartella, tanta parte della sua opera. Né mancano sul tavolino, accanto al calamaio d'inchiostro sbiadito e alla cannuccia, "le grandi forbici lucenti e il barattolo della colla. Lo scrittore deve scrivere, ma anche tagliare e incollare".
Passando dal chiasso festoso e vacanziero della riva assolata all'ombra e al silenzio della casa, anche il visitatore occasionale, come già l'autore dell'Ultima estate, non può non essere divorato dall'"archivio dei ricordi", non può non lasciarsi trasportare dall'incanto di questa mescolanza di realtà e memoria: "Filze di scatoloni alle pareti, / lettere e vecchie carte. / Ecco i compagni d'arte / con loro ansie segrete".
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