Rivista "IBC" XX, 2012, 2

biblioteche e archivi / interventi, mostre e rassegne

Parma festeggia i cento anni delle sue biblioteche comunali con una mostra e due giorni di riflessioni e confronti sui progetti futuri.
Ciò che siamo, ciò che vogliamo

Giovanni Galli
[direttore dell'Istituzione Biblioteche del Comune di Parma]

Nel giugno del 1912, avviando il suo impegno per la pubblica lettura, il Comune di Parma acquisiva la Biblioteca popolare circolante, fondata poco dopo l'Unità d'Italia da un'associazione filantropica. Per ricordare questo evento, il 23 e il 24 marzo 2012, l'Istituzione Biblioteche, in collaborazione con il Sistema bibliotecario parmense - Polo SBN e con l'associazione culturale "Voglia di leggere - Ines Martorano", ha organizzato due giornate di confronto e discussione sotto il titolo "Cento anni di biblioteche comunali a Parma". Pubblichiamo l'intervento scritto per l'occasione dal direttore dell'Istituzione Biblioteche del Comune.


Il titolo di questo intervento, ricalcato per negazione della negazione sul ben noto verso montaliano, potrebbe apparire come una manifestazione di arroganza. Non è questo nostro tempo meno incerto di sé di quanto non fossero gli anni degli Ossi di seppia. E quanto più ottusa la nostra perspicacia! Eppure voglio dire del nostro essere e del nostro volere quello che mi riesce di intendere, per senso di responsabilità. Credo, infatti, che non si possa per tanti anni aver lavorato a un comune progetto, come noi tutti abbiamo fatto, senza dovere, prima o poi, non solo renderne conto, ma anche, ripercorrendone i tentativi e gli errori, rivedendo i successi e i fallimenti (in una parola, i limiti storici), prospettarne uno sviluppo ragionevole.

Credo che, in questo, una professione - quale rivendichiamo giustamente essere la nostra - si qualifichi propriamente: nell'integrare la tecnica con una deontologia che non riguardi soltanto la correttezza del proprio comportamento individuale, ma sappia valutare la convenienza sociale del servizio oggetto della sua attività. E proprio su questa convenienza sociale vorrei che concentrassimo la nostra attenzione, non per darne la valutazione definitiva e perentoria: ma perché riuscissimo a far diventare quello della convenienza sociale delle biblioteche un tema avvertito e discusso in tutta la nostra città.

Il momento è propizio e a un tempo rischioso. Camminiamo sull'orlo stretto che divide due mondi contigui ma distinti, come molti benintenzionati mi hanno fatto gentilmente osservare. E qui bisogna parlare chiaro. A noi bibliotecari non compete la definizione di una politica bibliotecaria per questa città. Ma certo compete, ancor più come un dovere che come un diritto, disegnare scenari che dal presente si estendano al futuro, comprendere bisogni, immaginare risposte. E questo non da noi soli, chiusi in una stanza, ma prospettando le nostre analisi e le nostre ipotesi a tutta la comunità che vogliamo servire, perché sia un'intelligenza collettiva a mettersi al lavoro. Sulla bocca di un giacobino incallito valgano queste parole come prudente autocritica, o forse come l'ironico commiato di un bibliotecario cerimonioso.


Ma veniamo, allora, a dir qualcosa sull'essere, passato e presente, ripercorrendo in breve il percorso narrato dalla mostra documentaria sulla storia delle biblioteche comunali a Parma.

Appena entrata la città nella Nuova Italia, un gruppo di cittadini pensosi del bene comune, non meno che della difesa del nuovo ordine nazionale, si propose di costituire una biblioteca destinata a coloro che "pur avendo imparato a leggere e a scrivere sono costretti a trascurare l'esercizio delle cognizioni acquisite per mancanza di libri", ossia per i lavoratori. L'appello venne raccolto da numerosi cittadini e, in pochi mesi, con il denaro offerto e con i libri donati, si aprì appunto una piccola biblioteca che, pochi anni dopo, passò in gestione alla Società parmense per l'educazione gratuita dei maschi.

E quando, non potendo più reggere il peso dell'impresa, questa Società la cedette al Comune, l'assessore Ferdinando Laghi così dichiarò: "Il Comune, che dà al popolo le scuole, volle dargli anche i libri che, fuori delle scuole, possono rendere la sua istruzione più varia e più completa. Mostrino, specialmente i giovani delle classi operaie, di gradire l'opera buona del Comune, chiedendo alla Biblioteca, oltreché il diletto delle amene letture, il nutrimento intellettuale necessario a esercitare degnamente i doveri e i diritti della vita moderna".

Per un lungo tratto si dispiega la politica sociale liberal-democratica, il cui spirito trascolora (a noi pare impercettibilmente, ma all'epoca fu occasione di animate battaglie) dal paternalismo filantropico al mutualismo assistenziale, per arrivare infine alla cittadinanza consapevole che i diritti culturali sono posti a fondamento di quelli sociali e politici.

"Il bisogno di cultura, come oggi si manifesta, non è più un bisogno di lusso [...] ma è un bisogno profondo e fondamentale della vita e della convivenza sociale. [...] la grande industria esige la coltura, e al tempo stesso la impedisce. [...] le crisi di disoccupazione, che fanno sentire il bisogno di cambiar mestiere, richiedono l'agilità mentale, la versatilità delle attitudini, e tutto questo non si ha quando si è cristallizzati in un solo lavoro e non si acquistano le qualità fondamentali che permettono di adibirsi a cose nuove". Sono le parole che Filippo Turati dedica, nel 1908, alle biblioteche popolari, fastigio ed epicedio insieme di quest'epoca, che sarà travolta dalla guerra, poi dalla guerra civile e infine dal fascismo.

In quegli anni, in mezzo ai nostri scaffali polverosi (erano davvero polverosi quegli scaffali, pochi infatti li frequentavano e noi sappiamo che il miglior sistema di spolveratura dei libri è la frequente lettura), fra quegli scaffali, dicevo, si è anche difesa la razza (ariana), cacciando perché giudeo il maestro Foà che faceva il bibliotecario della Popolare comunale, e si è tutelata la civiltà fascista, mandando al macero i libri che "sapevano di vecchio" ossia di "antifascista".

I libri di "lettura amena", invece, andarono al Dopolavoro, con il progetto di farne una biblioteca popolare che fosse elemento di quel particolare welfare del ventennio che sarebbe insipiente cassare dalla storia, non foss'altro per il fatto che lo abbiamo ereditato. Nulla sappiamo più di questi libri, salvo di alcuni, trovati a Langhirano dal collega Cervetti. Dispersi nel turbine della guerra? Vada ad essi un pensiero dolente e commosso: danno muta testimonianza del piacere della lettura nei suoi incunaboli, svanito nei fumi della tragedia.

Ma, dopo le inconcluse proposte degli anni Cinquanta, dobbiamo arrivare alla stagione del regionalismo degli anni Settanta perché anche a Parma si riapra un ragionamento sulla pubblica lettura, che già in tutta Italia era rifiorito di nuove speranze e molte illusioni. Duole ammettere di non aver trovato negli archivi del Comune alcuna testimonianza di quella discussione che crediamo inevitabilmente si sia svolta, allorché, nel più ampio dibattito sul decentramento comunale, si decise di collocare in uno dei centri civici in corso di allestimento, e guarda caso proprio in quello del quartiere Parma Centro, una biblioteca. Riporto, pertanto, le parole che l'allora direttore dell'Archivio storico e della Biblioteca civica, il professore Sergio Di Noto, scrisse al proposito sul mensile del Comune "PR. Parma Realtà" nell'aprile 1972:


Con l'apertura ormai prossima della biblioteca del quartiere "Parma Centro" in piazza Garibaldi (nei locali dell'ex diurno Cobianchi, opportunamente riadattati) l'amministrazione comunale di Parma assume un'iniziativa del tutto nuova per la città. Il Comune, cioè, si propone di portare il libro a livello di ogni comunità di quartiere: prepara il terreno perché ogni cittadino impari a frequentare la biblioteca e a trovare in essa la risposta ai propri problemi, collettivi e individuali; si prefigge lo scopo che le biblioteche di quartiere formino il nucleo di ogni centro civico, attorno a cui si raggruppino le attività culturali e politiche di ogni gruppo. È notorio, infatti, come l'istituto della biblioteca pubblica, enormemente diffuso presso i paesi di avanzata civiltà, serva a rafforzare la democrazia, come la presa di coscienza individuale nasca attraverso un'operazione culturale immediata, la quale, stimolando al dialogo o alla riflessione, prepari l'uomo nuovo per la società di domani.


Era il 15 dicembre 1973 quando si inaugurò la "Guanda", come Giovanna Puviani ricorda bene, essendone stata da allora fino a l'altrieri la bibliotecaria. Non ripercorrerò la cronaca delle biblioteche via via aperte, traslocate e ri-traslocate, acquisite in deposito, in parte cedute: viene documentata nella mostra. Ma alcune cose bisogna dirle.

C'è stato un disegno di decentramento delle strutture, o per meglio dire di collocazione distribuita sul territorio comunale; non troppo spinto, però: molte strutture in centro, e comunque tutte comprese in una fascia di un paio di centinaia di metri lungo l'asse della via Emilia.

È stata fatta una scelta decisa di scaffale aperto e una politica un po' fanatica di catalogazione (ricordo ancora con commosso imbarazzo la cortese ma perentoria critica di Luigi Crocetti per una classificazione Dewey a 12 cifre!).

Sulla strada dell'automazione e della cooperazione è stato realizzato un notevole impegno, i cui frutti si vedono ancora oggi nel Servizio bibliotecario parmense, caposaldo della nostra attività; un impegno che, per noi del Comune, è iniziato con un accordo con la Biblioteca Palatina, sottoscritto da Leonardo Farinelli e dall'attuale ministro Cancellieri, che allora era commissario straordinario.

Resta comunque vero che il livello dell'investimento in tutte le voci principali (spazi, personale, acquisti librari, tecnologia) si è mantenuto, nel tempo, al di sotto degli standard e dei valori raggiunti da città consimili, come Reggio o Modena. Abbastanza prevedibilmente, anche gli indici di output sono restati inferiori.


Questo è un tema su cui dovremo tornare, ma ora, più che di quantità (denaro) vorrei parlare di qualità, ossia di modelli. Che tipo di biblioteche erano, e forse in parte sono ancora, quelle del Comune di Parma?

Detta così alla buona: un posto dove si può studiare, prendere in prestito dei libri, delle cassette VHS o dei DVD, e leggere i giornali (un'emeroteca, in termini relativi, più ricca del prevedibile). Poi anche un po' di internet, ma senza esagerare e con sistemi di gestione molto precari (proprio in questi giorni il sistema è andato in tilt!).

Forte l'impegno verso i bambini e i ragazzi, mediato da un rapporto solido e fiduciario sia con le famiglie sia con le scuole: prima alla "Guanda", poi largamente alla "Pavese", e successivamente all'"Alice"; con forme e metodi diversi, qualche volta anche in conflitto tra loro, cosa che non deploro ma anzi rivendico come ricchezza. Cito per esempio il progetto "Nati per leggere".

E non dimentichiamo l'acquisizione in deposito di due biblioteche specializzate: la "Bizzozero" e la "Balestrazzi", dietro le quali aleggia l'ombra amica di Dante Salsi: la prima sta proprio ora attivando un interessante rapporto con la Facoltà di agraria; la seconda ha consolidato un ruolo nelle celebrazioni civili. E neanche la Civica "Mario Colombi Guidotti", la maggiore nostra biblioteca generalista, una scelta che ci ha fatto discutere, ma ha anche permesso di sperimentare delle innovazioni. Da ormai oltre otto anni è attiva la sua sezione adolescenti, la "Tana dell'Orso". È delle scorse settimane l'attivazione di uno sportello di aiuto all'uso di internet per trovare lavoro. E poi la Biblioteca internazionale "Ilaria Alpi", anch'essa occasione di contrasti (non dovevano essere tutte le biblioteche interlinguistiche e interculturali?), ma ciò non di meno, proprio per la sua forte identità, capace di diventare punto di riferimento delle comunità straniere, al contempo sperimentando un'interessante modalità di appalto di servizi.

E, infine, l'ultimo dei nostri servizi: quell'"HappyBook" che girando per i quartieri, frequentando le scuole, i centri di aggregazione giovanile, i centri anziani, le associazioni culturali, porta in giro l'idea stessa del servizio bibliotecario e invita tutti i cittadini a frequentare le biblioteche. Ci ha permesso, tra l'altro, di attivare un rapporto a lungo cercato con i servizi comunali per i giovani.

Allora: così le abbiamo fatte, le nostre 8 biblioteche: se bene o male, non tocca a me dire. (Ma io direi passabilmente). Nell'ultimo decennio, tuttavia, si faceva strada anche da noi, "qui in campagna", l'idea tanto dibattuta sul piano internazionale che le biblioteche, benché il canto delle sirene della telematica e poi del web ne preconizzassero l'estinzione, nella loro più solida materialità conservassero, anzi incrementassero, un ruolo importante proprio come luoghi fisici di scambio culturale e aggregativo.

Questa intuizione ci spinse a lanciare un progetto di drammatizzazione della letteratura intitolato "La piccioletta barca", e più tardi, mutato l'assetto gestionale con la nascita dell'Istituzione, ad avviare da un lato un programma di mostre documentarie e dall'altro numerose iniziative spettacolari, di cui in mostra si possono vedere i manifesti. Entrambi i consigli d'amministrazione succedutisi hanno spinto con forza in questa direzione. Promuovendo progetti che ci hanno condotto anche a intessere rapporti con altre istituzioni e associazioni culturali, prima fra tutte "Voglia di leggere", che con noi ha organizzato queste manifestazioni.

Frequente e fruttuosa l'attività rivolta ai ragazzi, come i laboratori di lettura della Biblioteca Pavese, oppure i numerosi laboratori art and craft della Biblioteca di Alice. Più limitata, invece, l'attività seminariale e laboratoriale per gli adulti.


Oggi ci sembra questa la linea del fronte: la biblioteca ricca di varie esperienze aggregative; e in questa convinzione ci confortano le dichiarazioni dei nostri utenti ma anche quelle degli utenti di altre tipologie bibliotecarie, come quelle universitarie. E questa affermazione mi conduce a riprendere il tema della cooperazione territoriale.

Il Sistema bibliotecario parmense - Polo del Servizio bibliotecario nazionale è la realtà nel cui ambito noi immaginiamo necessariamente il nostro sviluppo. Ma oramai questa formula la sentiamo un po' stretta e vorremmo rinnovarla sulla base dei risultati acquisiti (il catalogo collettivo e il servizio di prestito interbibliotecario), per conseguire altri risultati alla nostra portata, sui quali lavoriamo già da un po' di tempo. Ne cito solo alcuni: una carta dei servizi di polo; una carta delle collezioni e una politica concertata degli acquisti; il reference cooperativo; un progetto di gestione degli ebook.

Ma ci prefiggiamo anche obiettivi che vanno oltre la nostra portata, tra cui: una nuova modalità di gestione del catalogo collettivo, e più in generale del polo; un progetto di biblioteca digitale, che integri le fonti native con la digitalizzazione delle fonti storiche; un nuovo assetto qualitativo e quantitativo delle sale di studio; un magazzino librario comune. E altri traguardi più direttamente attinenti al nostro Servizio comunale: una nuova sede per la Biblioteca di Alice; un più equilibrato rapporto tra centro e periferia (con una domanda che potrebbe apparire contraddittoria: non sarebbe opportuna, anche da noi, una nuova grande biblioteca moderna, sull'esempio di Bologna, Pesaro, Pistoia, Prato e altre città?); e infine il tema dell'Ospedale Vecchio, su cui per ovvie ragioni non aggiungo altro.

Obiettivi, questi ultimi, per noi qui e oggi irraggiungibili, in assenza di un presupposto essenziale, ovvero di un'ipotesi di sviluppo culturale concertato tra tutti gli enti pubblici e d'intesa con il privato. Un progetto in cui le biblioteche svolgano un ruolo centrale e siano considerate una grande risorsa per la città. Voglio fortemente credere che, da oggi in avanti, di tutto questo si discuta seriamente.

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