Rivista "IBC" XX, 2012, 1
musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali / progetti e realizzazioni, restauri, pubblicazioni, storie e personaggi
Il 22 novembre 2011 si è spento don Sergio Livi. Lui avrebbe detto che quello è il giorno del suo compleanno in Cristo. La comunità di Santo Stefano e tutta la città di Bologna perdono un fratello, un amico e un instancabile assertore della necessità che le Sette Chiese siano un centro di spiritualità e di vita attiva. All'impegno di don Sergio si deve, alla fine degli anni Ottanta, la ripresa dei lavori di restauro del complesso monumentale, con il sostegno assicurato dalla legge regionale 6 del 1989. In un volume che fu edito nel 1997 a cura dell'Assessorato regionale programmi d'area e qualità edilizia, Livi ha descritto il progetto di restauro e riuso degli spazi conventuali a cui ha dedicato vent'anni della sua vita.1 Ripubblicare quel testo ci pare l'occasione migliore per ricordarlo e ringraziarlo di un'opera che deve proseguire e completarsi con lo sforzo di tutti.
Quando il cardinale Giacomo Biffi fece il suo ingresso in città per iniziare il suo ministero episcopale, su suggerimento del vescovo ausiliare monsignor Vincenzo Zarri (attuale vescovo di Forlì) fu reintrodotta l'antica consuetudine che il corteo facesse dell'antica Gerusalemme bolognese la stazione di inizio di un pellegrinaggio fino alla sede di San Petronio Zama nella cattedrale di San Pietro, madre di tutte le chiese della Diocesi. L'impatto del nuovo arcivescovo con le antiche mura e i misteriosi silenzi fu la molla per la nascita della più felice descrizione di questi luoghi: "qui palpita il cuore antico della Bologna cristiana".
È proprio così: emozioni, storia e fede dell'antica Felsina nel suo accogliere l'Annuncio evangelico. Qui è la memoria dei protomartiri Vitale e Agricola, qui la sede di Petronio; qui i convertiti Longobardi e i raffinati Franchi lasciarono il segno della loro breve presenza. Ma qui soprattutto, a partire dal 983, si insediarono misteriosi monaci benedettini che per due secoli e mezzo allestirono una "fabbrica" che generò un complesso, esempio più unico che raro, di rispetto per il passato e proiezione per il futuro. L'arte del tempo si coniuga, con rispetto alle diverse stagioni dell'arte dei secoli precedenti, senza necessariamente appiattirsi su una memoria ormai senza carne, bensì si plasma attualizzandola e proiettandola nei secoli a venire.
Il risultato fu quello che oggi ammiriamo e continueremo ad ammirare, poiché (caso unico nel panorama europeo) ogni stagione, ogni moda religiosa e culturale, ogni superbo vezzo degli uomini non ha osato stravolgere questo archivio monumentale di Bologna.
Ma se questo vale per la parte sacrale del complesso - quello che potremmo definire il "santuario della Gerusalemme bolognese" - non altrettanto si può dire del luogo che ospitò i monaci di mille anni fa. L'antica abbazia benedettina, già a partire dalla seconda metà del XVI secolo, subisce l'assurda presenza dei cosiddetti "Abati commendatari", quindi l'ingombrante protezione del Comune, l'affermarsi dell'anticlericalismo illuminista, la problematica gestione dei monaci stessi fino alla Rivoluzione francese e ancora la devastante presenza di una discutibile e avida "Fabbriceria". Dell'antica e gloriosa abbazia urbana, dicevo, non rimane, sul finire del XIX secolo, quasi più niente, divisa così: l'antico dormitorio monastico trasformato in appartamenti; alienati tutti i campi e orti officinali, venduti i locali di servizio per la vita e l'attività dei monaci; spariti misteriosamente biblioteca, sala capitolare eccetera.
Rimane, dalla seconda metà di questo secolo, con il ritorno dei Benedettini, solo il "condominio" riconvertito lentamente e con fatica in dormitorio monastico, il refettorio e qualche imprecisato e fatiscente locale. Tutto qui.
Si aggiunga che da molti decenni la competente Soprintendenza volgeva gli sguardi altrove e si comprenderà allora quali sono state le molle che hanno messo in moto la laboriosa, felice e speranzosa operazione di recupero di quello che pur rimane potenzialmente uno dei rari esempi di monastero benedettino urbano con vita autonoma e specifica e non come custode sic et simpliciter di un santuario pur prestigioso come il nostro.
Poiché è affondando la ricerca nella natura stessa del monachesimo benedettino che non si può non far riemergere quelle laboriosità che il detto popolare ora et labora ben sintetizza. Va bene la custodia e il servizio a Dio e ai fedeli nella preghiera comunitaria, ma altresì con pari, equilibrato e bilanciato peso è necessario riprendere in mano il lavoro per crescere armoniosi, liberi e completi.
Nasce da queste considerazioni il primo agire attraverso scambi e confronti di idee con l'allora presidente della Regione Emilia-Romagna, Pierluigi Bersani. Nel refettorio monastico, per la festa di San Benedetto, fraternamente uniti da "cultura umanistica" noi monaci e Bersani, e Dario Lodi (assessore all'Edilizia) e il capogabinetto Piero Manganoni e Antonio Zini, Piero Orlandi, Roberto Scannavini, discorremmo di una "ricostruzione" del monastero a mille anni di distanza. Con tutte le distinzioni del caso sembrò allora di rivivere la stagione di fine millennio, quando dopo l'ultima devastante invasione barbarica (Ungari) la speranza di un mondo nuovo fece rimboccare le maniche agli uomini di buona volontà e unì braccia e menti per creare un modo di vivere che recuperasse i valori consolidati del mondo antico, aprendosi nel contempo a nuove forme di vita.
Quel metodo di intervento su quello che restava della Gerusalemme bolognese è stato alla base del progetto attuale. Sono emerse, allora, alcune considerazioni valide a tutt'oggi.
1) Il complesso stefaniano è costituito da due elementi, da rispettare equamente, pena svilirne l'identità: il santuario religioso e l'abbazia benedettina.
2) Come già detto, la progressiva emarginazione dell'insediamento monastico ha avuto molti responsabili, fino ai nostri tempi, e questo spesso per ignoranza culturale, più raramente per calcolo interessato.
3) L'intervento pubblico della competente Soprintendenza è stato pressoché nullo fino all'attuale gestione dell'architetto Elio Garzillo, che ha messo mano a un intervento globale protratto nel tempo.
4) Non è possibile più accettare una situazione di dipendenza ad nutum per il finanziamento della manutenzione straordinaria.
5) Quindi è necessario e improrogabile che ogni monumento, sia esso religioso o civile, si dia strutture tali da garantirsi un'autonomia finanziaria.
6) Riguardo a questo autofinanziamento, la soluzione "ticket", valida per i monumenti civili, si presta a difficoltà oggettive per quelli religiosi.
7) Quindi questi ultimi devono darsi, con l'aiuto delle istituzioni, forme alternative di autofinanziamento, all'interno di un sistema fiscale e amministrativo in deroga alla norma.
Applicando dunque questi punti alla particolare situazione del complesso stefaniano è stato ideato, progettato ed è in via di realizzazione questo progetto.
Sono stati identificati locali smessi, fatiscenti e dimenticati, che fino all'avvento degli abati commendatari erano serviti a laboratori monastici.
Partendo da esperienze consolidate nella tradizione monastica e attingendo a esperienze scientifiche adeguate di persone amiche del monastero, sono stati elaborati alcuni progetti che occuperanno al compimento la dimensione-lavoro nel monastero. Innanzitutto il settore erboristico unito alla moderna scoperta del laser nelle sue diverse applicazioni. È stato sperimentato che in diverse patologie dermatologiche, infiammatorie, artritiche e di microchirurgia, l'uso di determinati prodotti a base di erbe e componenti naturali potenzia in un rapporto reciproco l'azione del laser chirurgico e terapeutico. Circa 200 metri quadrati dei locali recuperati saranno adibiti a questo scopo, sia come laboratorio che come ambulatorio.
Altri 150 metri quadrati serviranno ad allestire un centro a elevata tecnologia per il restauro scientifico di documenti e libri antichi. Ulteriori 100 metri quadrati permetteranno di sistemare il museo di Santo Stefano e di portarlo così a complessive quattro sale, con ulteriori due locali più piccoli e uno spazio originale all'aperto. Circa 100 metri quadrati saranno occupati dalla segreteria del Centro internazionale della voce e dalla redazione della rivista bimestrale "Settechiese".
Tutto questo, secondo la più classica tradizione monastica, sarà ubicato nel piano terra adiacente al Chiostro e quindi al di fuori della clausura. Nel piano superiore, e comunque fuori dal dormitorio dei monaci, sarà realizzata una foresteria debitamente attrezzata di cinque camere con servizi privati, laddove un tempo c'era l'appartamento dell'abate commendatario.
Il quadro generale e conclusivo si presenterà così armonico rispetto alla struttura stessa di un monastero benedettino, comprendendo: la parte claustrale composta di 12 camere e servizi, luogo privato per l'ascesi personale (a cella ad coelum, dicevano gli antichi!); una parte a pianterreno accessibile ai laici e riservata al lavoro (erboristeria, restauro del libro, segreterie, ambulatori), che dovrà svolgere anche una funzione di aiuto alla formazione professionale; e una parte di mezzo, dove ci saranno i luoghi di vita comunitaria non strettamente claustrali (refettorio, biblioteca, sala per conferenze, eccetera). Il tutto collegato con ascensore. Questo, per ciò che riguarda il monastero, che è in fase avanzata di recupero e di sistemazione.
Non può sfuggire chiaramente il costo finanziario di una siffatta operazione, che al suo compimento ridonerà alla città un'oasi monastica facilmente fruibile da tutti: la collocazione stessa dei laboratori, con le seicentesche finestre che danno sul chiostro e dalle quali si potrà vedere il lavoro e gli accessi sul chiostro stesso, lasciano facilmente pensare a un domani totalmente nuovo eppur vecchio per la gloriosa abbazia.
La cifra iniziale dalla quale si è partiti fu di 610 milioni [di lire, ndr], di cui 200 da parte della Soprintendenza ai monumenti, 105 impegnati dalla Comunità monastica e 305 dalla Regione Emilia-Romagna, che attivò allo scopo la provvidenziale legge 6, con l'identificazione dell'intervento sul lato sud del chiostro (recupero strutturale finalizzato anche a sostegno del chiostro romanico, oggetto a sua volta di un mirato maquillage diretto dagli esperti degli uffici statali e realizzato dall'Impresa Montanari).
Durante i lavori c'è stato un ulteriore finanziamento di 200 milioni dal Ministero e ancora un terzo finanziamento di 300 milioni per lo più destinati al chiostro.
I complessi lavori hanno svelato situazioni di grave emergenza, dovute alla negligenza, ma soprattutto a scelte assurde fatte a cavallo degli anni Trenta; la posa, per esempio, di lapidi-memoriali dei caduti della Grande Guerra ha portato l'inevitabile conseguenza di chiudere i tre accessi ai locali, ora in corso di recupero con cinque finestre inferriate. I calcoli sbagliati dal Dotti nel 1700 e ultimamente la "criminale" (ci si perdoni il termine) chiusura dei collegamenti fognari con il pozzetto di raccolta, con conseguente dispersione di tutte le acque piovane e di scolo nel sottosuolo del complesso monumentale, avevano creato una situazione sull'orlo del collasso, che ha necessariamente costretto ad allargare l'intervento. È venuta quindi in aiuto per la seconda volta la Regione con uno stanziamento di 150 milioni, mentre la Soprintendenza si sta attivando per un ulteriore finanziamento nel bilancio 1997 del Ministero, che però deve essere ancora approvato.
All'atto dell'approvazione risulterà così un impegno finanziario totale di circa 1700 milioni al momento spesi o disponibili sui 2000 ipoteticamente necessari; ai quali se ne dovranno aggiungere altri 200 circa per l'allestimento dei macchinari e per l'inizio dell'attività, che logicamente spetteranno a questa comunità monastica con le agevolazioni di credito previste dalle leggi regionali e provinciali per le quali ci si è già attivati.
Ci si può chiedere, arrivati a questo punto, come la spesa sia potuta così lievitare (da 610 a 2000 milioni). È presto detto. Nessuno poteva immaginare che cosa si nascondesse dietro l'apparente normalità, ma soprattutto si è presentato agli occhi degli esperti un evidente precollasso dell'intera struttura, ben mascherata dalla cultura dell'"effimero edilizio" che caratterizza per larghi strati la Bologna del Settecento e dell'Ottocento. L'intervento, quindi, si è dovuto ampliare alle strutture limitrofe, a pena di scombinare le interazioni e gli equilibri consolidatisi nel tempo. Certamente i risultati si cominciano a vedere e quello finale trasformerà il volto di quella parte di Santo Stefano che tanto ha voluto dire per il santuario e per la vita stessa della città.
Da più parti è stato affermato che il progetto che si sta realizzando segnerà una svolta e un momento culturale di eccezionale importanza. Credo proprio di sì, se si considera la globalità del progetto, che non è fine a sé stesso ma teso al recupero e restauro di opere proprie di un monastero benedettino. Non si sta operando per recuperare spazi e restaurare elementi. Non si restaura solamente per conservare, ma per far rinascere quell'elemento proprio e originale del panorama religioso che è il lavoro monastico, che ha una sua valenza intrinseca costitutiva, insieme alla preghiera, di un modello alternativo di società. L'Europa uscita dal millennio attraverso la rinascita dell'artigianato, del commercio e la formazione delle libere corporazioni e quindi dei comuni, proseguì quell'organizzazione del lavoro che si era venuta formulando nei monasteri durante il periodo di mezzo, e che obbediva ai princìpi indicati da san Benedetto, per un lavoro teso alla libertà dell'uomo, alla sua realizzazione, alla felicità, e che insieme alla preghiera occupasse la giornata al fine di rendere gloria a Dio (ut in omnibus glorificetur Deus).
I secoli successivi sono stati un progressivo aggravarsi del distacco tra il monachesimo e il lavoro, con una ricaduta negativa sulla lettura stessa del lavoro all'interno della comunità cristiana; si è giunti alla clericalizzazione del monaco. Ciò ha prodotto anche una tendenza a ridurre il monastero a solo luogo di preghiera e credo che questo abbia stravolto la natura stessa della realtà monastica disincarnandola dalla storia e dall'uomo. È diventato naturale, in questa situazione, propendere più verso l'elemosina, l'offerta, il contributo, che verso il lavoro come forma di sostentamento.
Partendo da queste considerazioni, ecco quindi la motivazione iniziale al nostro progetto. Scrivevamo al presidente della Regione: "Non ce la sentiamo più di stendere la mano per elemosinare danaro al funzionario di turno" al fine di poter intervenire sulla manutenzione straordinaria di Santo Stefano, "chiediamo che ci siano consentiti gli strumenti per poter lavorare" e con il lavoro intervenire, dignitosamente, perché questo "cuore antico della Bologna cristiana" sia sempre più segno di una storia e di una umanità nuova.
È partito così un progetto che va ben oltre il restauro sic et simpliciter, ma tende a ridonare alla città e alla chiesa un'abbazia con tutte le sue componenti, le attività culturali e produttive proprie della tradizione monastica e le possibilità di autofinanziamento per la custodia e la manutenzione di un così articolato e complesso monumento. È superfluo annotare la spiccata originalità del progetto e, in ultima analisi, l'oggettivo investimento del danaro pubblico (Stato e Regione) in opere che torneranno di riflesso a favore della res pubblica.
Nota
(1) S. Livi, Un caso di riuso di spazi all'interno di un complesso monumentale: Santo Stefano a Bologna, in Conservazione, riuso e programmi complessi. Dieci anni di studi, piani, restauri, a cura di P. Orlandi, L. Vecchi, A. Zanelli, Bologna, Regione Emilia-Romagna - Assessorato programmi d'area e qualità edilizia, 1997, pp. 236-242.
Azioni sul documento