Rivista "IBC" XIX, 2011, 4
musei e beni culturali / pubblicazioni, storie e personaggi
Pubblicare un libro interamente dedicato al disegno: questo era il progetto al quale il noto artista ravennate Giulio Ruffini stava lavorando. Un libro di disegni pensato e "disegnato" da lui. Peccato sia uscito pochi giorni dopo la sua scomparsa. Avevamo prenotato uno spazio su questo numero di "IBC" per festeggiare il suo novantesimo compleanno. Per ripensare in allegria ai bei momenti che hanno legato l'artista all'Istituto per i beni culturali. Questa dedica avrebbe dovuto essere una sorpresa. Ma Giulio adesso non è più tra noi, e non possiamo che immaginarlo contento di sapere rivelata qui la sua ultima volontà, che s'è compiuta, purtroppo, solo pochi giorni dopo la scomparsa.
Si ritiene non da oggi che il disegno (ma si potrebbe dire lo stesso dell'incisione) abbia rappresentato per Giulio Ruffini un'occupazione non secondaria rispetto alla pittura. Ne sarebbe prova la sterminata produzione di opere su carta, diffusamente distribuite lungo tutto l'arco di attività del maestro di Mezzano. Giustamente, dunque, questo volume ripercorre il cammino del disegnatore in forma antologica e retrospettiva, lasciando però libero il lettore di esplorare a piacimento lo spazio inventivo dell'artista, senza troppo arzigogolare sulla questione se, nel caso di Ruffini appunto, vien prima l'artista del colore rispetto a quello del segno, o viceversa; o se, più naturalmente, si tratti di una simbiosi.
In occasione della grande antologica ravennate del '98, su questo punto Giulio Guberti è stato molto chiaro. Per lui quelli di Ruffini pittore e di Ruffini disegnatore sono percorsi comunicanti, e basterebbe guardare gli andamenti iconografici della sua produzione. Con mezzi diversi, insomma, l'artista tenta di raggiungere lo stesso fine, quello di rappresentare allegoricamente la realtà che lo circonda. Poi, guardando più da vicino certi momenti, certi passaggi della creatività ruffiniana (pensiamo per esempio all'esordio postcubista e alla militanza neorealista) si potrebbe notare che la naturale propensione al segno ha scavato a fondo nella materia pittorica, così precisando, e a volte accentuando, effetti e significati figurativi. Ma, crediamo, non son conti da fare in un'occasione come questa, che potrebbe benissimo essere titolata all'indipendenza trionfante del segno.
Qui c'è da ammirare un talento puro, naturale, giustamente coltivato col passare delle stagioni, che ha consentito all'artista agli inizi di "dar voce a gente che voce non l'hai mai avuta", come egli stesso ha dichiarato parlando di sé; aggiungendo poi, per il seguito della propria attività: "con intersecazioni e accavallamenti, è stato anche per misurarmi con storie e tematiche diverse". Qui, semmai, con le parole dell'artista, c'è da riprendere alcune belle cose scritte nel corso del tempo sui segni ruffiniani, che a un certo punto nel foglio, come ha scritto lo stesso Guberti, "prorompono, si accostano e si scontrano, sono cascate e fuochi d'artificio".
Alla fortuna critica di Ruffini, d'altra parte, anche il disegno ha dato il suo buon contributo. Come non ricordare, su questo piano, certe riflessioni di Raffaelino De Grada nella monumentale monografia del '68, nelle Edizioni La Bottega di Ravenna. Riepilogando lo speciale realismo ruffiniano dell'immediato dopoguerra, De Grada scrive, per esempio, che: "l'impegno morale e civile implicava anche una concezione del linguaggio che cominciava dalla forte trama del disegno, dove era già detto tutto ciò che poi il colore avrebbe soltanto completato. Un disegno dove non c'è indulgenza alla sensibilità del segno, tutto serrato, istruttivo per i giovani che vogliono ricostruire, un disegno che si direbbe anticipatore, per la sua forza primordiale, del momento in cui di nuovo si guarderà a questi esempi, non come a qualcosa di superato (e poi, che c'è di superato, oltre il marchio di fabbrica?), ma di primitivo, di una realtà che è ancora da conquistare". Taluni confronti tra disegni e opere pittoriche di ugual soggetto e dello stesso periodo giovanile, come nei cicli della Madre o della Crocefissione, sembrano addirittura convincere il critico sull'esistenza di un "movimento contrario all'alienazione astratta" in atto nella pittura, là dove certe opere grafiche costituiscono invece "un passo avanti nell'indagine più approfondita della psicologia del personaggio".
Un Ruffini disegnatore, che non manca mai i principali appuntamenti espositivi, si propone dunque al giudizio della critica e del pubblico in un rapporto dinamico con il pittore. Per la mostra di Palazzo dei Diamanti di Ferrara, nel 1970, Luigi Carluccio, esaltando la moralità dolente dei quadri ultimi dell'artista, fa notare che nelle sue opere grafiche recenti "la bellezza delle cose e la loro degradazione, la festa e la morte, suscitano lo stesso rombo sonoro, provocano lo stesso scricchiolìo delle giunture, fanno esplodere gli stessi fuochi d'artificio".
A nostro avviso è proprio questo il disegnatore che di più oggi val la pena di rivedere (e ci viene facile collegare tale rivisitazione alla ricorrenza del 150° dell'Unità nazionale, di cui tanto si parla). Pensiamo che andrebbe riletto pagina per pagina, sullo sfondo della più stretta attualità, il racconto allegorico dell'artista ravennate sul paese straziato dalla sua stessa storia, dal regime della politica a quello dell'economia, con il tramonto della civiltà contadina, vera, autentica e "unitaria", la devastazione del paesaggio e lo sfiorire dell'italica bellezza.
"In questi fogli il reale e il grottesco si confondono inscindibilmente", come ha scritto Giulio Guberti. "È un flusso che scaturisce dall'inconscio e si fa segno", gli fa eco Sabina Ghinassi; che accosta la vena ironica dei fogli più recenti alla fisica e affettiva intensità dei segni d'esordio. Di certo, non v'è carta di questa odierna antologia nella quale la carica espressionista dell'autore non risulti impressa come sintesi estrema, come una scrittura dell'anima fatta per immagini, di poche parole e di tratti essenziali.
G. Ruffini, Album a disegni, testi di L. Mariani, O. Piraccini, P. Trioschi, Faenza (Ravenna), Tipografia Romagna, 2011, 220 pagine, senza indicazione di prezzo.
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