Rivista "IBC" XIX, 2011, 4

territorio e beni architettonici-ambientali / pubblicazioni, storie e personaggi

Dialogo semimmaginario sulle sorti dell'architettura urbana.
Parlando di città

Piero Orlandi
[IBC]

Tre architetti italiani, carichi di lunga militanza critica, accademica e professionale, dialogano tra di loro, a tiro delle nostre orecchie. Ecco quel che si dicono. Inizia a parlare il più anziano di loro, che appartiene a una generazione precedente rispetto agli altri due.


Vittorio - Non so a voi, ma a me sembra che oggi architettura e città abbiano, come in passato, un destino comune, ma in negativo. Assediate dalla periferia diffusa, sembra che siano affette da un'indifferenza grave per il loro disegno. Accettano in modo troppo pedissequo il mito del caos e dell'instabilità come valore. È una controutopia, una specie di abdicazione volontaria a qualsiasi tentativo di ordine, anche se alternativo alle tradizioni consolidate. È una sconfitta per il progetto, e per l'etica che al progetto è sottesa. Un'etica che richiede un misto di impegno, di speranza positiva, di volontà di progresso. Viene da domandarsi se esiste ancora un ruolo per noi architetti, o se a decidere sulle forme della città sono solo gli attori politici, economici e tecnologici. Quelli che un tempo si ponevano in dialogo con noi, non si sostituivano a noi. Io credo che, ormai, sia venuta meno l'idea di città.

Stefano - Ma di quale città stiamo parlando? Bisogna che ci mettiamo d'accordo. Io non so cos'è oggi la città. Conosco un'estensione degli spazi abitati, che è comune a tutto il territorio europeo. Un'estensione pluridiretta, non originata solo dal centro storico delle città maggiori, ma dalla crescita di tutti i nuclei urbanizzati. Quella che abbiamo chiamato la "città diffusa", o anche la "città generica": è questa l'unica forma di città esistente oggi. Quali siano i suoi margini, la sua densità, i suoi caratteri morfologici... è un discorso lungo. Difficile, se non impossibile.

Pippo - Un ruolo per noi architetti? Magari fosse! Io non credo che sia facile trovarlo. Per prima cosa, in Italia siamo troppi: nel 2010 eravamo più di centoquarantacinquemila, a fronte dei francesi o degli inglesi, che si aggirano sui trentamila. Tant'è che la mobilità internazionale, a cui per fortuna, grazie agli "Erasmus", abbiamo cominciato a partecipare anche noi, diventa poi, dopo la laurea, un'emigrazione secca, alla ricerca di un lavoro che qui non c'è. Mentre di architetti stranieri che vengono a lavorare in Italia nemmeno l'ombra: stanno a casa loro o vanno dove di architettura se ne fa davvero, salvo i casi dei grandi nomi a cui i sindaci nostrani affidano incarichi per ragioni "di prestigio". Un po' ovunque ci sono due tronconi diseguali: le "archistar" che girano il mondo come piloti di formula uno, e poi "tutti gli altri", obbligati ancora e sempre a confrontarsi con le convenzioni e a negoziare con le regole delle varie comunità dove lavorano.

Ma ditemi un po': queste vostre "anticittà" e "postmetropoli" sono la stessa cosa? Perché non vedo grandi differenze nei vostri punti. Sono d'accordo che le città hanno perso la forma, e mi pare però che questo sia il segnale più evidente del fallimento dell'urbanistica e della programmazione pubblica. Dell'architettura non si è occupato mai nessuno. Chi poteva farlo, per esempio le soprintendenze, ha avuto un occhio solo per l'architettura esistente e storica, non per quella da costruire, ben più importante per la qualità del nostro paesaggio.

Vittorio - È vero, a me piace parlare di "postmetropoli", un termine che poi è già entrato in uso da oltre un decennio. Forse il prefisso "post" è un espediente un po' generico: più che spiegare ciò che è venuto o che verrà, sancisce la fine di qualcosa che c'era prima, la metropoli, la città-madre, la grande città capitale di imperi. Per prendersi cura delle grandi città, nell'Ottocento è nata l'urbanistica moderna. Bisognava soprattutto evitare il rischio di decomposizione delle città ormai prive del limite sicuro delle fortificazioni: una decomposizione per estensione. All'inizio del ventunesimo secolo, le città occupavano il due per cento della superficie del pianeta. Oggi, invece, l'idea di sviluppo infinito e di discontinuità senza memoria sembra essere quella largamente dominante. Un realismo della rinuncia, lo definisco io, un'ideologia dell'antideologia.

Stefano - In questa stessa condizione è nata l'"anticittà". Che non è la periferia, intendiamoci. Del resto, cos'è la periferia? Non certo ciò che sta intorno al centro, come vuole il significato vecchio del termine, ormai obsoleto. La banlieue di Parigi è uno dei pochi casi in cui l'emarginazione sociale corrisponde all'ultima cintura edilizia prima della campagna. A Napoli la periferia è nel centro, nei quartieri spagnoli. E così è a Marsiglia, a Genova, a Barcellona; e ad Atene, a Rotterdam, a Zurigo, intorno alle stazioni ferroviarie. La periferia oggi, nelle città europee, è una condizione mobile, nata dalla frustrazione e dall'omologazione. La frustrazione del precariato, della mancanza di mobilità sociale, dei redditi produce una reazione rabbiosa contro l'omologazione delle credenze, degli stili di vita e delle aspettative. Migliaia di persone tagliate fuori dalla vita culturale, dagli scambi economici, dalle relazioni istituzionali, danno vita a un antagonismo spesso violento, che costituisce il nucleo dell'anticittà. Le amministrazioni pubbliche oggi hanno soprattutto questo difficile compito: capire cosa vuol dire fare politica, "fare città", nell'epoca dell'anticittà.

Pippo - Sono convinto che questa comunità di destini tra architettura e città, di cui parlava Vittorio, sia stata un grande vantaggio per noi architetti italiani, e oggi però si rivela un grande handicap. Quella visione unitaria che nel glorioso passato rinascimentale, e persino ottocentesco, ha prodotto il paesaggio urbano italiano, oggi è scomparsa: è proprio la sparizione di un'idea di città, travolta dai cambiamenti sociali ed economici dell'ultimo scorcio del Novecento e dell'inizio del nuovo millennio, che ha spazzato via le basi della costruzione logica della nostra architettura, fondata da sempre sul dialogo con la città e la storia. Non a caso, le biennali più interessanti degli ultimi anni sono state dedicate all'emergenza urbana, quella di Fuksas del 2000 e quella di Burdett del 2006.

Vittorio - Forse abbiamo dimenticato che il nostro compito come architetti non è solo o tanto di occuparci del singolo edificio, ma dello spazio tra le cose costruite, per non accostare gli oggetti in modo casuale, per studiarne i rapporti, e progettarne appunto gli spazi di relazione, riempiendoli di abitanti dotati di un senso civico, di un senso di appartenenza. Oggi, al posto dello spazio pubblico, esistono i non luoghi. E come sappiamo, ci piaccia o non ci piaccia, sono molto frequentati, hanno successo. Ma uno dei grandi temi rimasti per ora senza risposta è proprio come trasformare positivamente lo sprawl della città diffusa, come riscattarlo dal suo anonimato.

Stefano - Oggi, nell'indifferenza e nell'omologia dello spazio, piuttosto che percepire la fisionomia delle città riusciamo ad accorgerci di quelli che a me piace chiamare i "superluoghi", creati dalla cronaca, dal pensiero religioso, dalle retoriche del turismo globale: Ground Zero, Chernobyl, Piazza Tien-An-Men, il Muro del Pianto, le Petronas Twin Tower. E, ovviamente, il Museo Guggenheim di Bilbao, che ha sostituito nell'ultimo quindicennio il mito architettonico parigino del Beaubourg. Siamo capaci di accorgerci di questi luoghi, mentre il resto è uno spazio grigio, privo di riconoscibilità: aggregati di case e capannoni. Ma è così in tutta Europa, non solo in Italia.

Pippo - Però in Italia è come se ci fossimo complicati le cose ulteriormente... Quella che è certa e documentabile è l'ostilità che qui, negli ultimi decenni, l'architettura (o almeno il tentativo di farla) ha subìto da parte di comuni, soprintendenze, e perfino della gente comune. In Italia non è nato niente di paragonabile al Centre Canadien d'Architecture di Montreal, al Netherlands Architecture Institute di Rotterdam, al Museum of Modern Art di New York, al Centre Pompidou. Adesso possiamo guardare con speranza all'attività del MAXXI di Roma, visto che finalmente anche in Italia abbiamo un grande museo per l'arte contemporanea. Anche perché è dall'arte, e in particolare dalla fotografia, che gli architetti italiani hanno tratto negli ultimi vent'anni i maggiori insegnamenti sullo stato del paesaggio, e dunque sul contesto in cui realizzare le proprie opere. Pensiamo ad autori come Ghirri, Basilico, Barbieri, maestri nel tradurre in immagini il paesaggio senza architettura di cui parliamo.

Stefano - Date retta a me: bisogna inventare una nuova urbanistica, l'urbanistica che combatte l'anticittà. È l'unica strada. L'urbanistica non può accontentarsi di essere com'era venti o trent'anni fa, fondata su un'etica dell'azione. Quella che stabiliva una relazione aprioristica, e non modificabile in corso d'opera, tra intenzioni dichiarate e politiche attivate. Oggi dobbiamo basarci su un'etica della responsabilità, e misurare le effettive conseguenze delle idee, anche se sono diverse dalle intenzioni iniziali. Dobbiamo essere capaci di monitorare gli effetti delle idee, avere il coraggio di guardare dentro le cose che abbiamo pensato, vedere se reggono alla messa in pratica. È anche per mancanza di verifiche coraggiose che negli ultimi tre decenni abbiamo inglobato nelle aree urbane il doppio del territorio agricolo e naturale rispetto a paesi come la Francia e la Germania. Non è sufficiente lavarsi la coscienza incentivando, a parole, politiche di sviluppo dell'agricoltura di prossimità e di demineralizzazione urbana. Bisogna lavorare sodo, sporcarsi le mani, invertire le rotte in modo radicale! Dobbiamo convincerci che la natura animale e vegetale ha una sua autonomia, e che non è soggetta ai bisogni dell'uomo!

Vittorio - Hai ragione. Oggi non si parla quasi mai di qualità architettonica degli ambienti urbani. Si parla invece, in modo un po' generico, di congestione del traffico, di inquinamento, di costi degli alloggi, di sicurezza personale. Tutte cose molto importanti, ma che devono essere trattate insieme con la questione della morfologia urbana. In caso contrario, della forma urbis, presi dalle altre urgenze, ce ne dimentichiamo. Io credo che siamo vittime di una cultura constatativa di massa, che deriva essenzialmente dall'eccesso della comunicazione e dalla conseguente disabitudine al giudizio estetico. Il progetto non è solo un rispecchiamento dello stato delle cose; la constatazione non deve trasformarsi direttamente in una forma del progetto. La grande architettura deve al tempo stesso sorprendere e apparire come se ci fosse sempre stata.

Pippo - A questo punto mi chiedo se, in questi scenari così poco entusiasmanti di cui parliamo, ci sia un futuro per l'architettura. Voi che ne dite? Se c'è, a me però non pare che stia nell'ovvio e ossessivo insistere sui temi ecologici e bioclimatici, che da soli non sono in grado di produrre orientamenti stilistici chiari e decisivi. Sono altre le strade da seguire. Alcuni architetti, oggi, lavorano con buoni risultati sulle nuove alleanze dell'architettura con l'arte, il cinema, le scienze sociali, l'universo digitale. Altri si muovono nel solco dell'architettura impegnata, dedicandosi all'housing e allo spazio pubblico, al low cost e alla small scale, come recita il titolo di una mostra del MOMA del 2010. Ma la ricerca più attuale e interessante, a mio parere, è quella che si propone di riutilizzare in modo intelligente l'enorme quantità di edificato, soprattutto industriale, che ci troviamo tra i piedi. Il riciclaggio creativo e la rinaturalizzazione sono scenari pieni di spunti da cogliere per gli architetti, e sono anche un po' l'ultima spiaggia per le nostre città. Siete d'accordo?


Colpiti da alcune delle affermazioni dei tre architetti, lasciamo che la loro conversazione continui mentre si allontanano, e noi ripensiamo a quello che abbiamo ascoltato. Ci pare che tra i beni culturali trovi posto non soltanto l'architettura già realizzata nei secoli scorsi, ma anche quella da realizzare d'ora innanzi, perché è opera d'arte, perché modifica il nostro paesaggio storico, perché è frutto della nostra cultura e quindi della nostra storia, perché deve conseguire a un progetto che comprende ragioni estetiche ma anche sociali e civili. E, dunque, questo dialogo è molto pertinente al nostro lavoro, ed è stato utile prendervi parte, anche se in modo passivo.

Quella che abbiamo trascritto è una conversazione che si può definire immaginaria perché, così come riportata, non è avvenuta nella realtà. Tuttavia è una conversazione possibile, o almeno non è impossibile, perché riflette, con i necessari adattamenti, il pensiero messo su carta dagli autori nelle pagine di tre libri sull'architettura e la città italiana (e non solo), tre volumi usciti tutti nel 2011, densi di interpretazioni e di prospettive. Il testo che avete letto, dunque, è una scelta di concetti tratti liberamente da: Stefano Boeri, L'Anticittà, Roma-Bari, Laterza, 2011; Pippo Ciorra, Senza architettura. Le ragioni di una crisi, Roma-Bari, Laterza, 2011; Vittorio Gregotti, Architettura e postmetropoli, Torino, Einaudi, 2011. Chi scrive è ovviamente responsabile di eventuali e involontari travisamenti delle opinioni espresse dagli autori nelle opere citate.

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