Rivista "IBC" XIX, 2011, 1

Dossier: Segni di Unità - Il Risorgimento nel patrimonio culturale dell'Emilia-Romagna

musei e beni culturali, territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi, dossier /

Il Risorgimento come patrimonio

Roberto Balzani
[docente di Storia contemporanea all'Università di Bologna]

Che la fase più intensa della lotta per l'indipendenza italiana e per la costruzione dello Stato nazionale potesse rientrare all'interno del patrimonio culturale del Paese, il mondo liberale, uscito vincitore dalla temperie del 1859-1861, lo capì con relativa rapidità, ponendosi il tema della "monumentalizzazione" e della salvaguardia delle testimonianze d'epoca fin dai primi anni Ottanta dell'Ottocento. Scomparso nel 1878 il "Gran Re", spentosi quattro anni più tardi il "Leone di Caprera", fu allora che il dibattito pubblico cominciò a ruotare intorno al nodo del "che cosa" e del "come ricordare": questione delicata sotto il profilo ideologico e identitario, a tal punto da affaticare, fino quasi alla soglie del nuovo secolo, ceto politico e ceto intellettuale.

Esisteva infatti, in primo luogo, il tema dei "beni": quali? Gli oggetti più classici, come fazzoletti, bandiere, divise, fucili, coccarde? I documenti d'archivio, anche privati e personali? La documentazione a stampa: giornali, imagerie, manifesti? La rappresentazione artistica più "alta" (opere pittoriche, sculture, decorazioni)? La soluzione escogitata - quella dei musei del Risorgimento aspecifici e "aperti", cioè integrabili via via attraverso i lasciti dei reduci, o mercé gli incrementi che il patriottismo militante avrebbe prodotto nel tempo, in virtù dell'immancabile completamento dell'unità nazionale - tradiva l'impianto pedagogico, se non propagandistico, del primo collezionismo pubblico, inaugurato all'epoca dell'expo di Torino (1884).

Un collezionismo che sfruttava due filoni già presenti a livello privato: quello dei raccoglitori di "reliquie" laiche, spesso animati da intenti cultuali o feticistici; e quello dei "cercatori di carte", lettere in primis, attraverso le quali scrivere (o riscrivere), con intenti polemici o agiografici o ricattatori, la cronaca contemporanea. Risulta complicato, oggi, immaginare il mercato sotterraneo di documenti che nutrì gli "scoop" della stampa politica degli anni Settanta e Ottanta dell'Ottocento: eppure, basta sfogliare periodici e opuscoli per rendersi conto della durezza di uno scontro alimentato dalla scoperta o dalla fabbricazione di appositi dossier sui protagonisti, grandi e piccoli, della temperie risorgimentale.

La depoliticizzazione di questo materiale e la sua confluenza all'interno dei "depositi" istituzionalizzati della memoria unitaria (per lo più locali) si consumarono nel delicato passaggio dall'età di Depretis a quella di Crispi, quando il mondo intellettuale - Carducci in testa - si incaricò di favorire la compilazione di resoconti narrativi e "stabilizzati" dell'epopea nazionale. I toni accesi lasciarono allora il campo a rappresentazioni più sedate, a grandi scene di massa dove c'era posto per tutti, per monarchici e repubblicani, per garibaldini e giobertiani, per carbonari e cavouriani. La visione cooperativa del Risorgimento funzionò pure a livello di "statuomania" locale: ogni comune che potesse esibire i suoi quarti di nobiltà patriottica non esitò a eternare il ricordo del proprio eroe nel marmo o nel bronzo.

Fu un'autentica età dell'oro per artisti e artigiani, quella compresa fra il 1875 e il 1911: oltre trent'anni di commesse e di inaugurazioni di ogni tipo. E che gioia, poi, per notabili e deputati, per i quali il consenso raccolto con una pubblica manifestazione e con un bel discorso doveva apparire assai più a buon mercato del faticoso bussare quotidiano alle scarse fonti di finanziamento del potere centrale. Né mancarono gli "usi ideologici" dei "beni culturali" risorgimentali, soprattutto nelle terre rosse: il Capanno di Garibaldi presso Ravenna, per esempio, fu precocemente sacralizzato dalla società democratica del luogo (1867), elevato a sala di riunioni patriottiche, comparato esplicitamente, secondo la maniera anticlericale in voga, alla "capanna di Betlemme".

In verità, fino a quando, attraverso le letture scolastiche di Carducci (ma non solo), il Risorgimento non si depositò nei corsi delle scuole normali, iniettato come un ricostituente nel corpo dei maestri elementari, fu difficile patrimonializzare davvero il "blocco" storico 1815-1870: in primo luogo, perché alcuni viventi illustri (come Crispi) traevano da esso un significativo capitale di legittimazione. In secondo luogo, perché la struttura politico-sociale del Paese privilegiava, sotto il profilo identitario, la nazionalizzazione vista dalla periferia, affidando al centro una sbiadita difesa dell'imagerie ufficiale: ingessata, un po' anemica, addirittura priva di una "festa fissa" (quella dello Statuto era "mobile", confinata alla prima domenica di giugno). In terzo luogo, perché la costruzione della memoria collettiva, tarata sul canone letterario, non aveva bisogno, in realtà, di avanzare troppo verso la contemporaneità: l'Italia "eterna" già c'era, Dante e Petrarca contenevano già quanto bastava a solidificare la nazione culturale. Tutto il resto non era che una conferma.

Nonostante ciò, alcune "case natali" illustri furono poste sotto la tutela dello Stato a partire dall'ultimo decennio del XIX secolo; e proseguì, sebbene con lentezza, la costruzione del Vittoriano, monumento alla patria e contenitore della memoria archivistica e documentaria del Risorgimento. Ci vollero cinquant'anni, quindi, per capire un po' meglio che cosa fosse necessario ricordare, e dove farlo. Nel frattempo, molti si offrirono quali piccoli e grandi "cerimonieri": una pioggia di retorica e di vacuità, che tuttavia permise di salvare tanti "beni". Quelli che oggi, nel territorio, nei musei, negli archivi e nelle biblioteche, sono pronti per essere di nuovo interrogati dalla prima generazione davvero postnazionalista dell'Italia unita.

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