Rivista "IBC" XIX, 2011, 1
musei e beni culturali, biblioteche e archivi / linguaggi, progetti e realizzazioni, storie e personaggi
Nell'aurea mediocrità delle sue Memorie, scritte fra il 1876 e il 1887, fin quasi alle soglie della morte che lo avrebbe colto il 9 luglio di quell'anno, Francesco Zambrini offrì ampio spazio alla propria operosità editoriale, alla rassegna delle letture, delle occupazioni, dei pubblici uffici, fino a quando l'impresa di governare la Commissione per i testi di lingua non ne assorbì ogni energia e finì con l'identificarsi con la sua stessa persona.1 Da tempo, egli s'era dedicato ad avventure letterarie e a esperienze editoriali. Allo stesso modo, con uno scrupolo morale che discendeva dall'abito stesso dell'erudizione e della filologia, si era adoperato per il pubblico bene, senza frapporre nessuna cesura fra la tecnica artigianale del filologo di provincia e l'orizzonte patriottico di un intellettuale defilato, ma pugnace.
Dopo tutto, per cogliere il municipalismo di Zambrini nella sua giusta dimensione storica, giova forse rammentare che, nella frammentazione politica del territorio, in Emilia-Romagna, lo "spazio del campanile e del circondario", come ci ha insegnato Roberto Balzani, "ha rappresentato a lungo [...] non solo l'unica fonte riconosciuta quale produttrice di identità collettive, ma una risorsa strategica permanente da giocare nel confronto col potere centrale".2 La ricerca zambriniana di un purismo non circoscritto ai testi letterari, ai volgarizzamenti, al canone insomma della Crusca, ma esteso a scritture strumentali, a contesti pratici e plurimi, dischiudeva nuovi orizzonti alla prassi filologica.
Per un attento cronista come Enrico Bottrigari, la nascita della Commissione avveniva "con l'ufficio di indagare nelle biblioteche pubbliche e di cercare dalle private i codici e le edizioni rare dei testi di lingua", da riproporre ai lettori "procurando la collazione con manoscritti e stampe di altre biblioteche fuori delle nostre provincie".3 Zambrini, nelle Memorie, non mancava di osservare che, alla nascita della Commissione, era "già redenta l'Italia, ed avea scosso il giogo degli stranieri, quando il nuovo governo, tra le diverse utili istituzioni, fondò eziandio quella che dovesse sostenere e proteggere la lingua nazionale". Questi aspetti (dei quali soli, in questa sede, ci vogliamo occupare: non della serie delle pubblicazioni prestigiose, che proseguono sino a oggi) rappresentano la svolta autentica del purismo linguistico italiano e determinano il carattere e le finalità della Commissione per i testi di lingua.4
Con perfetta concordia d'intenti con le Deputazioni di storia patria (esse pure dovute alla sapienza del Farini), la cognizione dei testi e delle loro testimonianze, dovendo portare alla restauratio della lingua nazionale documentata nelle sue antiche testimonianze, doveva, per ciò stesso, scaturire da una "collazione" - Bottrigari, si noti, usa il termine tecnico - con testimoni collocati "fuori delle nostre provincie". Lo scavo filologico-erudito, muovendo dalla tradizione culturale e linguistica municipale, si allargava pertanto a un territorio realmente nazionale. Nella storia, persino in quella linguistica, dei singoli "campanili" si cercava e illustrava non la tradizione localistica delle rispettive comunità, ciascuna gloriosa di sé e dei propri cimeli, ma il retroterra (romano e medievale, comunale e rinascimentale) che ne salvaguardava e testimoniava un retaggio solidale, suscettibile a sua volta di nutrire un destino politico unitario. A un anno dalla sua costituzione, infatti, il 4 marzo 1861, la Commissione avrebbe deciso che i suoi socii venissero scelti "abbracciando tutta l'Italia".
Non vi fu, quindi, nella Commissione per i testi di lingua un'inclinazione, per così dire, alla normatività, tanto che ciò si tradusse nell'assenza protratta di uno statuto: "Nessun Regolamento speciale o Statuto governa questa istituzione". Dopo la morte di Zambrini e di Carducci, la presidenza passò nelle mani del "reggente" Olindo Guerrini. Quando il letterato, umorista, bibliotecario scomparve nel 1916, il governo della Commissione proseguì una volta ancora nell'alveo carducciano, trascorrendo (a partire dal 1918) nelle mani di Giuseppe Albini. Il ministro della pubblica istruzione Luigi Rava, il 15 ottobre 1907, aveva scritto al Guerrini per rassicurarlo di non voler fondere la Commissione con altre istituzioni, come, per esempio, l'Accademia delle scienze dell'Istituto di Bologna. "È mio intendimento", proseguiva il ministro, "che la Commissione, avendo uno scopo unico e ben determinato [miei i corsivi]", conservi "la piena indipendenza che ebbe dal suo istitutore": essa, se "non poté sorgere che come regionale", fu tuttavia "nazionale di fatto sin dal principio".
Discusso e accettato dai socii nella seduta del 18 gennaio 1920, lo statuto, sottoposto allora al ministro Anile, fu approvato (in 24 articoli) il 19 aprile 1922. L'Italia, allora, nelle vicende della politica e della cultura, stava avventurandosi nel dramma progressivo del fascismo, dove l'idea stessa di un'autarchia linguistica collideva fortemente coi princìpi direttivi della Commissione. Il metodo stesso, recitava lo statuto, doveva essere "saggio", nel rifiuto programmatico di ogni dogmatismo filologico: "Naturalmente l'età, l'indole e l'importanza de' testi suggeriranno giuste differenze ne' criteri del pubblicarli". Soppressa dal ministro Gentile l'11 marzo 1923, la Commissione avrebbe presto ripreso vita e vigore.
Giuseppe Albini, dopo il decreto di Giovanni Gentile, si adoperò per la Ricostituzione della Commissione per i Testi di Lingua, con un articolo affidato al "Resto del Carlino" il 15 gennaio 1924. Di quelle speranze, nel frattempo, si era fatto portavoce Umberto Puppini, allora sindaco di Bologna. Ingegnere, cattolico, fascista, personaggio inquieto e non del tutto omologato al governo, egli osservò che la Giunta municipale aveva deliberato che il Comune facesse "quanto in passato faceva lo Stato nel provvedere al mantenimento della vetusta istituzione", con lo stanziamento di 3600 lire per tre anni.5
Le vicende istituzionali della Commissione, le sue difficoltà, divengono così uno specchio della storia del Paese. Come già con la soppressione voluta da Gentile, così pure con la profonda difficoltà attraversata, dopo la morte di Albini e quella di Gino Rocchi (che la resse dal 3 febbraio 1935 fino al giorno della morte, il 30 novembre 1936), e con il passaggio a Igino Benvenuto Supino, che la governò dal 17 giugno 1937 a quando dovette dimettersi per l'applicazione delle leggi razziali, il 27 dicembre 1938. In ogni momento critico, la travagliata vita della Commissione dimostrava la sua coerenza con la tradizione risorgimentale e, insieme, la sua resistenza a qualsivoglia omologazione con le strategie culturali del regime.
La vicenda di Supino fu così ricordata da Raffaele Spongano: "Vittima di queste persecuzioni, egli dovette nel 1938 abbandonare la presidenza, come se non l'avesse degnamente, come se, da un giorno all'altro, egli non fosse più quel valentuomo e insigne studioso, amante del pubblico bene, che era sempre stato. Come si possa tentare di spegnere la vita spirituale di un uomo per pregiudizi di ordine politico, mascherati per giunta di un obbrobrioso dottrinarismo razziale, ancora oggi noi ci domandiamo con sgomento".6
Con la presidenza di Calcaterra, eletto il 18 aprile 1939, la passione civile si rispecchiava nella prassi filologica nell'atto stesso di procedere, come già in passato nel campo venatorio della Commissione, alla "rottura dei confini aurei" (così Contini).7 Non solo il XVI secolo: con libertà di movimento e di caccia stabilita dal dettato stesso dello statuto, anche il passato prossimo diveniva ora soggetto di sperimentazione filologica e di conoscenza storica, col proposito di "cercare nelle biblioteche pubbliche e private e preparare per la stampa e pubblicare testi di lingua dalle origini a tutto il secolo XIX". In questo cammino è da additare il ruolo essenziale che fu di Olindo Guerrini: raccogliendo l'eredità ingombrante di Carducci, egli decise di riportarsi alla origini zambriniane e, così facendo, estese la corrispondenza coi socii residenti in tutta Italia, ribadì il carattere nazionale e non regionale delle scelte editoriali e ravvivò le pubblicazioni della collana maggiore, dedicate alle "Opere inedite o rare". Calcaterra, affiancato da Albano Sorbelli (che aveva retto la Commissione nella vacanza successiva alle dimissioni di Supino), rinnovò dalle fondamenta l'istituzione, con "un calore e un fuoco insostituibile", come gli riconoscerà Spongano. Lo statuto venne di nuovo modificato e, nella nuova forma, fu approvato il 23 novembre del 1940.
Eppure, ancora una volta, il vento della storia irrompeva nel silenzio operoso della Commissione. Albano Sorbelli venne a mancare nel 1944. Calcaterra morì il 25 settembre 1952 (dal 9 gennaio di quell'anno, sino al 20 dicembre 1970, ne fu segretario Ezio Raimondi) e ben presto (dal 29 novembre 1953) il governo della Commissione passò a Raffaele Spongano (fino al 1986), il quale, una volta di più, come dopo di lui Emilio Pasquini (presidente in carica), seppe rinnovarla iuxta propria principia.8 C'è, tuttavia, un elemento distintivo della Commissione che, per il futuro, occorre forse tenere presente e che la differenzia dalla Crusca, così orgogliosamente remota dalla storia politica nella sua aristocratica spezzatura: da Zambrini a Carducci, da Guerrini a Supino, da Calcaterra a Spongano a Pasquini, le ragioni del metodo filologico, come pure la scelta dei testi da pubblicare, acquisiscono una loro specificità in rapporto alle condizioni storiche del Paese e in costante dialettica con i fermenti della cultura coeva (quando Raimondi fu segretario della Commissione, era già uno studioso di fama internazionale).
Il metodo insomma si rinnova, o dovrebbe rinnovarsi, quando la filologia non smarrisce la propria forza rivoluzionaria e non diviene disciplina di mera conservazione accademica. Quella della Commissione fu, sin dagli inizi dell'avventura, una filologia metodologicamente aperta, dischiusa a una pluralità di metodi coincidenti, secondo un abito autenticamente scientifico-empirico, con la molteplice natura dei testi da riproporre ai lettori curiosi.9 Lo storico, allora, avverte forse l'esigenza che vadano proposte opere del primo Novecento (fino al discrimen di metà secolo), che, come s'è accennato, ha conosciuto alcuni dei fatti più fortemente drammatici, ma altamente "identitari", della Commissione per i testi di lingua. La prosa stessa di Raffaele Spongano appartiene alla tradizione che la Commissione intende promuovere e proteggere, come la tradizione tutta del giornalismo letterario dell'inizio del XX secolo, come la critica accademica, letteraria, musicale e artistica della stessa epoca.
Calato nella realtà odierna, Francesco Zambrini sarebbe un mite, ma strenuo sperimentatore. Mentre oggi cresce il compianto per la perdita di prestigio della tradizione filologica, egli si sarebbe domandato quale ruolo possa rivestire la filologia per la società, e se, a questo ruolo, corrisponda o meno la disciplina che professiamo. Mentre ci si interroga sulle condizioni della filologia, insomma, Zambrini avrebbe cercato di interrogarsi, con rigore e cordialità, sulla filologia, o, meglio, sulle filologie (su una "filologia come sintesi di più filologie", per dirla con Ezio Raimondi),10 poiché l'unica, realistica certezza odierna è quella di una pluralità di metodi, che tuttavia nei nostri dipartimenti non è ben rappresentata. Una pluralità che riguarda non soltanto la tradizione letteraria, ma il mondo del cinema, dell'arte, dei "beni culturali": ognuno di questi ambiti restituisce alla filologia la severa e onnivora curiosità che fu l'orgoglio, e insieme il vessillo, della creatura di Francesco Zambrini.
Note
(1) F. Zambrini, Memorie sulla mia vita, edizione critica a cura di A. Antonelli, premessa di E. Pasquini, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1999.
(2) R. Balzani, Il tricolore e il Risorgimento, in M. Montanari, M. Ridolfi, R. Zangheri, Storia dell'Emilia-Romagna. Dal 1650 al 1900, 4, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 66-87.
(3) E. Bottrigari, Cronaca di Bologna, a cura di A. Berselli, III (1860-1867), Bologna, Zanichelli, 1961, p. 40.
(4) M. Veglia, "Placet experiri": divagazioni sul carattere e le finalità della Commissione per i testi di lingua, in Archivio della Commissione per i testi di lingua (1841-1974), a cura di A. Antonelli e R. Pedrini, con premessa di E. Pasquini, "Biblioteca dell'Archiginnasio", III, 2, pp. 13-67.
(5) A. Antonelli, R. Pedrini, La Commissione per i testi di lingua: lineamenti istituzionali e vicende storico-archivistiche, in Archivio della Commissione, cit., pp. 69-116: 83-85.
(6) R. Spongano, I cento anni della Commissione per i testi di lingua, "Bologna. Rivista del Comune", 1 aprile 1960, p. 68.
(7) G. Contini, "Serto di olezzanti fiori", "La Nazione", 20 marzo 1962 (poi in Idem, Altri esercizî, Torino, Einaudi, 1972). Si veda: E. Pasquini, Storia e caratteri del "Propugnatore", ora in Idem, Ottocento letterario. Dalla periferia al centro, Roma, Carocci, 2001, pp. 101-122.
(8) Il 1952 fu uno spartiacque per la cultura letteraria italiana: morirono, in quell'anno, oltre a Calcaterra, Silvio d'Arzo, Attilio Momigliano, Giorgio Pasquali, Benedetto Croce, Pietro Pancrazi.
(9) Gianfranco Contini, scrivendo a Emilio Cecchi il 12 novembre 1932, affermava di credere in una filologia che fosse "un paesaggio di variazioni di metodo: per ogni testo affacciare un criterio nuovo". Raffaele Spongano organizzò, con questo fine, il monumentale convegno "Studi e problemi di critica testuale", che si tenne a Bologna fra il 7 e il 9 aprile 1960. Recente è invece il convegno "Studi e problemi 1960-2010. Per i 150 anni della Commissione per i Testi di Lingua", tenutosi a Bologna dal 25 al 27 novembre 2010.
(10) E. Raimondi, Costruire una letteratura europea, negli atti del convegno La cultura latina nell'unità europea, a cura di A. Varni, G. M. Anselmi, P. Cacchioli, B. Damini, Bologna, Libri Arena, 2002, p. 35.
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