Rivista "IBC" XVIII, 2010, 4

Dossier: Sono vecchie queste regioni? - Dalla politica di Augusto all'Italia della Costituzione

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Sono vecchie queste regioni

Giancarlo Susini
[storico dell'età romana, già consigliere dell'IBC]

Questo testo è comparso per la prima volta, con lo stesso titolo, sul "Resto del Carlino" del 9 ottobre 1978. Ringraziamo la testata per averci autorizzato a riprodurlo nel decimo anniversario della morte di Giancarlo Susini.


Sono passati due anni, di questi giorni, dalla scomparsa di Gianfranco Tibiletti [nel 1976, ndr]: una fine precoce; da cinquantenne, che ha privato l'università italiana e la cultura storica di un ingegno irripetibile. Era professore di storia antica, prima a Pavia poi a Bologna, e studiava gli avvenimenti, le strutture e i "meccanismi" di venti o venticinque secoli prima; era molto prudente e si guardava dall'istituire confronti, per facili che fossero, con la storia attuale, cui era attentissimo. Pure gli è riuscito di capire le ragioni di equilibri politici e sociali e i fondamenti di istituti che solo oggi, dopo duemila anni, sembrano realtà compiute nella vita italiana. Per esempio, le regioni.

Le regioni italiane, quasi tutte quelle elencate nella Costituzione, hanno duemila anni, cioè la loro prima istituzione, come entità territoriali, indicate appunto con il nome di regiones, risale al decennio compreso tra il 28 e il 18 avanti Cristo: poiché ci sono fondati motivi per ritenere che le circoscrizioni regionali italiane siano state elaborate da Augusto con il consiglio del suo autorevolissimo ministro Agrippa, si prende l'avvio appunto dall'anno 28, quando fu iniziata la riforma dell'apparato statale romano e si considera che questo processo sia concluso dieci anni più tardi, quando Agrippa compare ancora come coreggente dell'imperatore; se avesse un senso commemorare in qualche modo tale inizio, ciò si sarebbe dovuto o dovrebbe fare tra il 1972 e il 1982.


Pochissime varianti

L'Emilia è tra le regioni che ricevettero allora un assetto territoriale quasi identico a quello di oggi: le sole varianti nei confini riguardano le alte valli del Savio e del Ronco-Bidente, che duemila anni fa appartenevano all'Umbria (mentre per il resto dell'Appennino il confine correva, pare, sul crinale: quindi niente Romagna toscana), e il corso del Po che lasciava al Veneto quasi tutto il delta. Delle altre regioni, il Piemonte aveva il nome di Transpadana e stava tutto a nord del Po inglobando però parte della futura Lombardia, Milano compresa, il Veneto aveva l'estensione (sino a Brescia) che otterrà poi la repubblica Serenissima, la Liguria contava il doppio di ora, compresa tra il Po e il mare, l'Etruria era una Toscana più grande perché giungeva a Perugia e alle porte di Roma, l'Umbria aveva uno sbocco all'Adriatico nel territorio tra Gabicce e Falconara, mentre a sud dell'Esino cominciava il Piceno che comprendeva anche il Teramano; non dissimile era la situazione delle regioni centromeridionali, se si toglie la regione numero quattro (le regioni erano tutte numerate, l'Emilia e Romagna era l'VIII, qualcuna aveva già un nome, che resterà nella tradizione sino a oggi), che raccoglieva un certo numero di popoli italici dei più riottosi: erano quelli che avevano animato la guerra sociale, tutti attorno al Pulcino e alla conca di Sulmona, e solo con molta improprietà la regione IV si potrebbe accostare all'Abruzzo. Proprio alla genesi di questa travagliata regione Tibiletti aveva dedicato uno dei suoi ultimi lavori, apparso tra i Postuma nel cospicuo volume di scritti in sua memoria, da poco licenziato dall'editore Pàtron.1

Poiché oggi viviamo una esperienza, quella regionale, nominalmente identica e addirittura entro gli stessi confini (o quasi) - per di più, con l'avvio di una organizzazione per comprensori che in molti aspetti ricalca i contorni della divisione municipale romana - vale la pena di seguire il Tibiletti nell'indagine sulla meccanica istituzionale e amministrativa delle regioni romane.

Anzitutto va colto proprio l'aspetto politico della creazione augustea, che è l'opposto di quanto si propone il legislatore corrente: nessun autogoverno, nessun magistrato regionale (modifiche positive in questo senso si ebbero invece a partire dal I secolo dopo Cristo), addirittura nessun capoluogo di regione. Le regioni erano aree utili al rilevamento statistico, per esempio ai censimenti ma soprattutto al controllo annonario, e quindi i dati che affluivano agli uffici centrali dello Stato romano erano raccolti e ordinati per regione. Ciò rispondeva senz'altro al bisogno persino meccanico di una partizione del lavoro, ma soprattutto costituiva il presupposto di ogni programmazione che il governo centrale, e solo esso, poneva in cantiere. L'intuizione di Tibiletti era proprio nell'intelligenza del presupposto della programmazione (economica e soprattutto fiscale, ma anche politica e culturale): perché, in altre parole, al fine di programmare con efficacia, il governo romano creatore allora di un sistema amministrativo aggiornato e proficuo, aveva "ritagliato" sul territorio italiano "quelle" regioni? Per quali motivi quindi ritenne di ottenere il massimo profitto da quella ripartizione?

A prima vista certe regioni parrebbero condizionate nella loro circoscrizione territoriale da elementi fisici dominanti: l'Emilia e Romagna, per esempio, sta tutta chiusa (con qualche variante, si è visto) tra l'Appennino, il Po e il mare, come dice Plinio il Vecchio; per altre regioni, come l'Etruria e il Veneto, parrebbe che il criterio circoscrizionale fosse quello etnoculturale: due grandi popoli, Etruschi e Veneti, fanno due regioni; per la regione IV, ultima fatica del Tibiletti, prevalse forse il motivo politico di lasciare assieme popoli già uniti contro Roma, battuti tutti assieme e divenuti anch'essi romani.

In verità, l'ordinamento regionale italiano attuato per la prima volta duemila anni fa (e che ha proiettato sino a noi nomi e confini) è il prodotto di una politica eccezionalmente abile, versata al compromesso, del tutto esperta delle realtà locali, ben attenta ai fattori di coesione e di dissolvenza presenti in ogni ambito. È un'alchimia, ma seria e senza termini biforcuti, realistica nel senso più rispettoso del termine.

Prendiamo l'Emilia e Romagna, la regione VIII che Tibiletti stava indagando: alle circostanze dei confini fisici si uniscono indubbiamente motivi economici che facilitano una considerazione globale e unitaria del territorio.

Frumento vino frutta e ortaggi sono i prodotti principali nell'era romana, da Rimini a Piacenza: un territorio quasi tutto popolato, un tempo, dai Galli (gli scrittori romani raccontano che si coglievano ancora le inflessioni della loro parlata) o dai Liguri delle montagne, per lungo tempo alleati ai Galli contro i romani; la conquista della regione, tra il 268 e il 176 avanti Cristo - quasi cento anni - aveva avuto un nemico unitario (ecco il fattore politico e culturale), ed era riuscita soprattutto mediante l'impianto di coloni dal centro della penisola.


Pericolosa riserva

Questi coloni avevano costituito in più tempi una formidabile, persino pericolosa riserva del partito democratico: mariani contro Silla, e infine partigiani di Antonio contro Ottaviano, l'imperatore; pregiudicatamente si intuì la forza positiva di tale potenziale unitario e si mise in atto una programmazione che lo esaltasse anziché infrangerlo: nacque la regione che già presso il popolo portava il nome della grande strada che tuttora la attraversa e la unisce. Unica eccezione, nel panorama storico, alcune vaste zone dell'Appennino romagnolo, Savio e Bidente, forse anche Marecchia e Montone, dove la popolazione era di origine umbra, con una lingua e con culture in qualche modo consonanti al latino, e che non aveva mai subìto - non era stato necessario - la colonizzazione.

Quindi, questa parte va all'Umbria, cade di là verso il Tevere, proprio come il sarsinate Plauto era sceso, due secoli prima, sino a Roma. Come si vede, una struttura al servizio del governo centrale, frutto di una approfondita valutazione delle poliformi situazioni locali, un equilibrio razionale non ignaro delle tecniche del consenso: Tibiletti lo ha inteso e descritto con quell'attenzione al microcosmo che ne hanno formato la fama di storico nel mondo, e con la mano felice (veramente, egli diceva " il piede destro") con la quale nel passato aveva indagato le legislazioni agrarie e la censura, le dinamiche che portavano al formarsi del potere.

Della regione nata duemila anni fa va ripudiato il fine per quella parte che corrispondeva al categorico interesse del centro, ma va valutata con attenzione la genesi, perché fondata su qualche elemento durevole, sull'analisi di fattori emergenti o riaffioranti nella lunga storia che maestri silenziosi e modesti, ma grandissimi, hanno messo a portata di mano.


Nota

(1) Scritti in memoria di Gianfranco Tibiletti, Bologna, Pàtron Editore, 1977 (ndr).

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