Rivista "IBC" VIII, 2000, 4

musei e beni culturali / interventi, storie e personaggi

Musei ed altro: cumuli o rendiconti della memoria?

Giancarlo Susini
[accademico dei Lincei, già docente di Storia romana all'Università di Bologna]
Giancarlo Susini ci ha lasciati il 23 ottobre scorso. Con questo testo - pubblicato sul numero 2/3 del 1993 di "IBC" e poi raccolto nel volume Sguardi di memoria. Scritti di Giancarlo Susini per l'Istituto Beni Culturali dell'Emilia-Romagna (a cura di Valeria Cicala, Bologna, Grafis, 1997) - vogliamo ricordare e sottolineare la viva attenzione con cui il professore ha per tanti anni operato all'interno del Consiglio dell'Istituto, ringraziandolo ancora una volta per la grande generosità con cui ha sempre collaborato a questa rivista.

Mi prendo un libro tutto da leggere e me ne sto in casa. Lo si pensa pressappoco con lo stesso umore col quale si decide di andare al museo - ma in un grande Museo, dove c'è di tutto - per goderci un'intera giornata: tra vetrine, biblioteca, documentari, ristoro. Come può accadere al Louvre, o al Metropolitan, o in modo più sbilenco agli Uffizi.
Sentimenti simili sono una declinazione del domestico nel collettivo, e si appaiano al gusto orgoglioso di ammirare le radici di paese, o gli attrezzi di mestiere, quando invece si tratta di musei "piccoli": sono gli spicchi visibili di un interesse per i musei che colma di pagine di periodici, induce a legiferare, alimenta una consapevolezza del "bene culturale" che tocca recupero e tutela (e interpretazione) dei paesaggi, dei tessuti demici, coinvolge i problemi dell'educazione, eccetera. Lo sappiamo tutti, come comprendiamo la fatica del politico quando deve arrestare - e gli tocca di farlo - i processi di recupero, tutela e ripristino per lasciare posto a ciò che è nuovo, nella collettività, e risulta necessario.
Qui si pone però un problema altrettanto perentorio: grandi musei - per così dire, centrali - o musei "della città", o "del territorio" (ma quale scelta fare tra i tanti territori storici o antropici o di paesaggio possibili?), o addirittura, ove possibile, un museo "patrio", di casa o casale o borgata, o di laboratorio, di bottega, di stalla? Certo, si dice oggi, i musei, più o meno grandi che siano, si collegano tra di loro in sistemi itinerari, unitamente ai tessuti urbani o di villaggio, agli spaccati naturali, alle cosiddette emergenze monumentali, come si trattasse di un solo grande museo; un museo del territorio, o degli usi o stili di vita, ma si ripropone la domanda: cos'è il territorio? e si comincia da capo.
Ne risulta che il grande museo resta per tanti una tentazione insopprimibile: anche perché solitamente il grande museo si compone e si mescola di episodi importanti e rispettabili delle passioni del passato. Con le "raccolte" e le "collezioni" si è fatta la storia della cultura del passato, dei diversi momenti di acculturazione: certamente, è vero che una collezione di ritagli di fronti d'urnette da colombario, murata sulla parete di un grande palazzo divenuto poi museo (come quello urbinate dei Montefeltro) rappresenta un cumulo di "beni" che non si riesce a decrittare nel suo criterio compositivo senza una o più specifiche chiavi di lettura - senza cioè che il cumulo, come un ripostiglio, diventi un archivio classificato in modo comprensibile -, ma è altrettanto e sicuramente vero che quelle scritte (quelle, comunque raccolte, e non altro) insegnarono per secoli la scrittura capitale a visitatori di palazzo (spesso quindi non gente qualsiasi), a maestri e a tipografi. Allora va subito preposto che la raccolta o la collezione si deve rispettare come tale. E cioè come? Lasciando le cose come stanno, rispettando un presunto immaginario del passato - che è storia anch'esso - o rimovendo e ricollocando in maniera più spaziosa (come si è fatto ad Urbino) per una migliore filologia del pezzo, oppure sbaraccando e riordinando tutto, magari rispedendo alle rispettive "patrie" i monumenti che ne provennero, e documentando invece, anche con sistemi di visualizzazione informatica, la circostanza della collezione?
Ecco, la documentazione: spietata, onnivora, molecolare e cosmica assieme. Se vogliamo razionalizzare i musei, nell'accezione davvero grandiosa di "paniere" dei beni culturali, dobbiamo ricorrere alla documentazione ed alle visualizzazioni: da conservare e trattare a loro volta come un bene culturale, perché i metodi seguiti ed i limiti inevitabili d'ogni documentazione vanno sottoposti a critica corrente, di pari passo alla definizione di ciò che si apprezza come bene culturale o no. Anche questo impegno, purché sia chiaro, è compito del politico della cultura.
Quindi, scopi e profili chiari, nel definire l'assetto museale della società (non importa se composto di memorie del territorio, della memoria creativa di un artista, di ragguagli su assetti tecnologici e scoperte della scienza): ma è possibile, meglio è utile, limitare i grandi musei solamente a cumuli di memorie divisi per collezioni? Non è il caso di trovare legittima la voglia di chi cerca un suo appagamento nell'apprezzamento di una civiltà tutta intera, o di un modo d'essere generalizzato, cioè entro un grande e tradizionale museo, a tempo libero?
Vale la pena di riflettere ad una esperienza culturale che è divenuta frequente negli ultimi decenni (e ben prima, ma per cadenze commemorative "esaltanti"), cioè alle mostre. Il bisogno di fare il punto su una cultura o civiltà (oppure lo stimolo a considerare cultura e civiltà ciò che magari fu solo una filigrana eclettica) ci ha donato ammirevoli mostre sugli Etruschi, sui Traci, sui Celti, sui Fenici, eccetera: se poi si riesce a far intendere che una cultura fu protagonista di quel che definiamo Europa, tanto meglio. E se più culture di là dall'oceano tornano in memoria da quando iniziò il rapporto con gli europei, cioè dal tempo di Colombo, ancora meglio. Ecco, il vertice della soddisfazione si tocca quando una mostra santifica una cadenza centenaria, millenaria: come per Milano capitale, o per il bimillenario augusteo, su cui torneremo. Naturalmente ci sono mostre che si agganciano a episodi della scoperta e del restauro, per divenire poi parte o patrimonio di musei (i bronzi di Riace, la toletta al Marcaurelio, la Fortuna maris comacchiese, termine logoro ma di sicura appropriazione da parte della gente). Poi ci sono mostre che vogliono fare il punto sulle conoscenze di una cultura in un territorio anche ampio (e che servono magari per chiarire le idee ai museografi, ai loro progetti): a Bologna, tra Archiginnasio e vetusti locali dell'Ospedale della Morte, si sono gustati i romani nella Cisalpina, gli etruschi ibidem, e poi ancora la civiltà urbana, cioè la formazione della città, tanto che sembrava ad un momento che da Bologna fosse passato Plinio il Vecchio a ripeterci che Felsina era princeps Etruriae. Anche queste mostre, che rappresentano comunque un bisogno culturale non effimero, si presentano per un aspetto come i grandi musei, cioè assemblano opere di provenienza lontana e diversa, avulsa nella mostra, fortunatamente in modo temporaneo - dal suo contesto ambientale, strumentale e persino epocale. Con spese e rischi considerevoli, come sappiamo.
Però delle mostre non sapremmo, oggi, fare a meno: c'è da dire anzi che in qualche caso sono davvero insostituibili, per esempio quando pongono in vetrina un artista e le sue opere, dove la "mano" non può essere sostituita da una copia, pur perfetta. Quel filamento di tinta su un affresco non è la stessa cosa di un blocco lapideo romano con iscrizione (dove lo scalpello si rivela a luci infrarosse, può essere documentato da un video: a palpare di mano o di labbra gli antichi caratteri sono solamente personaggi compassionevoli), cioè non può farsi considerare che ad occhio nudo, ammirato, scaltro e imbambolato. Poi, ci sono le ricorrenze, centenarie o millenarie, di nascita, produzione e morte, accompagnate da convegni, premi, commemorazioni. Forse il sociale ha bisogno di rendiconti facili, sulle dita cioè di dieci in dieci, pressappoco come in ogni tempo si è cercata o indovinata l'arché, o la ktísis di un'epoca, di una cultura, l'inizio di un movimento, di una storia; e se ne è cercato l'ecista, il fondatore: come Romolo, o Colombo.
Il secolo XX (prima si contano pressoché solamente le esposizioni "universali") ha conosciuto, attraverso le mostre (e i convegni, le feste, persino i musei) due versanti delle commemorazioni bimillenarie di certi personaggi: per esempio, Virgilio, Orazio ed Augusto erano nati nel tempo di una repubblica discussa, e sono stati evocati, nel bimillenario della nascita, in tempi di monocrazia; morirono poi quando il mondo era già un impero romano e vengono così commemorati, oggi, in discussa repubblica. Non so se queste liturgie siano davvero inevitabili, ma oggi sono una sindrome molto diffusa. Prendiamo un caso complesso, istruttivo, quello del rendiconto (o mostra, o museo, con tanto di bimillenario) della civiltà romana, che è stato bene messo a punto da una raccolta di scritti, Roma capitale. Dalla mostra al museo (Venezia, Marsilio, 1983).
Tutto comincia con il rendiconto dei primi cinquant'anni di unità nazionale: nel 1911 si fece un'apprezzabile mostra di archeologia romana alle Terme di Diocleziano. Ma nel 1927, e poi due anni più tardi, la mostra si scompose, si ricompose e si allargò per divenire il Museo dell'Impero Romano, in due sedi successive: quando si poteva, le cerimonie si tenevano per il Natale di Roma. Dalla mostra al museo, si misero da parte tanti calchi o gessi che erano stati raccolti o compiuti per fornire, nell'esposizione, una visione globale: siamo già nel cuore del problema. Qualche anno più tardi, nel 1938, al 23 di settembre cadeva il bimillenario del primo vagito di Augusto: ai suoi tempi - ma ce ne siamo accorti di recente - quella data si conosceva bene e si riveriva, tanto che nel campo Marzio era stato montato un obelisco a far da gnomone di una meridiana che sulla piazza buttava l'ombra esatta al punto giusto quando ricorreva la nascita e persino quando ricorreva il concepimento. Allora, nel 1938, nel palazzo delle Esposizioni il fondatore dell'impero di allora inaugurava la "Mostra Augustea della Romanità", cui peraltro si era provveduto con tanti calchi e riproduzioni da ogni parte. Sappiamo poi che, ancora dilatata nella documentazione, si progettò dapprima un'Esposizione per il Ventennio, quindi all'incompiuta EUR, poi davvero all'EUR si creò il Museo della civiltà romana, aperto nel 1952.
Questa vicenda merita di essere considerata perché dai suoi scopi e dalle sue inevitabili contraddizioni si ricavi qualche proposta in più per quell'aspetto del nostro vivere che siamo avvezzi a sintetizzare con il termine "museo". Il Museo EUR, composto di calchi e immagini, riesce a restituirci una certa idea, criticabile ma documentata, del tratto di storia che va sotto il nome di civiltà dei romani: in questo modo i monumenti veri restano a casa loro, a fare la storia autentica dei territori. Però, proprio perché di esemplari fittizi, la raccolta risponde a un cliché intenzionalmente sintetico, cioè a un pregiudizio. Ad Atene invece delle riproduzioni ci sono tanti monumenti entro il Museo nazionale, e la presentazione del "tratto greco" della storia umana è forse più vivace, ma i territori davvero autonomi, anche nelle culture, delle singole póleis risultano defraudati di elementi vistosi della loro anamnesi. Al Louvre si ricava un'immagine del mondo come lo hanno visto e goduto i francesi (studiosi, raccoglitori, generali) ma nella vicina St Germain-en-Laye il Musée des Antiquités Nationales riproduce le perplessità ateniesi. Al Metropolitan c'è una finestra sul mondo. Forse tempi nuovi per i musei (forse anche per le mostre) si aprono quando si progettano stabilimenti e circuiti fedeli alle "patrie", pur con specifici aspetti (cultura rurale, terziario), quando si rispettano - ed è ovvio, speriamo - le sequenze delle collezioni e degli assetti "storici" nei grandi musei, e quando grandi musei saranno concepiti per osservare e rivoltare culture ritenute epocali o grandi tratti di civiltà, ma con un ricorso spietato alla documentazione onesta, cioè totale, parossistica, ipercritica: di modo che chi vi passa una bella giornata sappia di disporre di visualizzazioni serie, di banche dati appaganti (e poi qualche originale lo sfiderà a riconoscersi come tale).
Poiché non c'è angolo del mondo che non serbi sorprese eccellenti al raccoglitore di documenti, dovrebbe accadere che di grandi musei ne esistano diversi, non necessariamente di storia della cultura romana, o iberica, o sumera o maya, ma di rendiconto tematico: tecnologie, letture del mondo come le fanno i fisici, i biologi. Purché i cumuli siano ordinati come archivi seri e comprensibili, e che siano sempre disponibili, da monitor o meno, i rendiconti.

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