Rivista "IBC" XVIII, 2010, 4
biblioteche e archivi / immagini, mostre e rassegne, pubblicazioni, storie e personaggi
Cultore dei misteri della camera oscura, collezionista onnivoro e molto altro ancora, Bruno Evangelisti è il referente, per così dire, istituzionale della fotografia a Cesena. Sono ambite da tutti gli studiosi di storia locale le foto del suo archivio, nel quale per altro si documentano doviziosamente tecniche e procedimenti di qualsivoglia tipologia, con esemplari provenienti da tutto il mondo. Sterminato poi il repertorio degli scatti personali, di cui conserva, oltre ai negativi, anche stampe accuratissime e ricche di note, a costituire un deposito della memoria gelosamente conservato e gestito con rigore e molta riservatezza. Tra tutte le vie che Evangelisti ha praticato intorno alla fotografia nell'arco di una prolungata giovinezza, la mostra allestita tra ottobre e gennaio dalla Biblioteca Malatestiana ha focalizzato il suo interesse intorno a una stagione ben connotata, in cui si sedimentano ricerca iconografica e sperimentalismo tecnico e formale.
La vicenda biografica di Bruno Evangelisti (Cesena, 1925) è racchiusa entro due grandi passioni: la prima è l'amore ancora non sopito per la bicicletta. "Nato fra le biciclette" - suo padre Domenico è un noto meccanico cesenate - "succhiando la passione per il ciclismo insieme al latte materno", Bruno intraprende la carriera ciclistica e conosce una stagione felice di successo, che si interrompe però bruscamente, quando viene prima scelto e poi inspiegabilmente e inaspettatamente escluso dalle Olimpiadi del 1948 a Londra. Ma questa è un'altra storia, su cui è bene sorvolare, anche perché il vero amore, quello più grande, quello che lo ha salvato dalle tristezze, dalle difficoltà, dalle disgrazie della vita, rimane la fotografia.
Della prima macchina, la Balilla che appena quattordicenne ricevette dal padre come premio vinto con le "cartine Brioschi" (quelle che rendevano l'acqua gassata), parla ancora con commozione. Ma è solo negli anni Cinquanta che acquista un vero e proprio apparecchio fotografico, la famosa Voightlader di fabbricazione tedesca, esaudendo un desiderio a lungo coltivato. Gli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale sono fecondi per il risveglio di ogni aspetto della vita culturale nazionale e la fotografia non fa eccezione. Affrancata da un uso privato, quasi domestico, legato alla sfera degli affetti, la fotografia si afferma come strumento di ricerca, di documentazione, di ricognizione e di "attestazione" della realtà e come tale diviene privilegiato veicolo sia per il recupero di un passato e di una civiltà a rischio di "estinzione", sia per la conoscenza ed esplorazione di realtà sociali e ambientali diverse e lontane. Nel Paese sono in atto trasformazioni epocali che vanno in qualche modo raccontate in tempo reale: sono gli anni della fotografia realista, della cronaca, della testimonianza, a cui non di rado si associa un attivo impegno sociale.
Il fotogiornalismo italiano appunta la sua attenzione alla vita delle campagne, soprattutto di quelle del meridione d'Italia, dove problemi endemici alimentano disagio e tensioni sociali. La campagna, assai più che la città, continua a mostrarsi, per molti fotografi, attraverso il filtro di modelli iconografici ben radicati, come è evidente nella dimensione corale dei soggetti, nella costruzione ad arte delle scene, espressioni di una precisa visione ideale, che ne fanno il luogo in cui resistono alcuni valori minacciati dalla modernità. Così, accantonato l'impegno dell'inchiesta e l'urgenza della cronaca, si esalta piuttosto il mito dei campi e dei suoi umili e positivi eroi, in una rappresentazione che è eminentemente metaforica.
Non sappiamo bene su quali esperienze, oltre l'ambito locale, Evangelisti abbia maturato il suo rapporto con la fotografia, né quanto egli abbia recepito delle importanti iniziative di cui il Sud è stato occasione per tutti gli anni Cinquanta: dal fotogiornalismo dei rotocalchi, ai servizi di Emanuelli Patellani, ai reportage di Piergiorgio Branzi in Puglia e Lucania, alle immagini di Alfredo Camisa e Nino Migliori, fino a Gianni Berengo-Gardin e Mario Giacomelli, per citare alcuni nomi, fra i più noti, del cosiddetto Dopoguerra dei fotografi. Neppure sembra aver particolarmente inciso sulla sua formazione il prosieguo di quella intensa stagione, che nei decenni seguenti vede il moltiplicarsi di mostre e di volumi organizzati intorno a temi di particolare significato storico e sociale o a campagne fotografiche commissionate da regioni, province o comunità anche piccole, che desiderano una rappresentazione del proprio territorio. All'inizio degli anni Settanta il tema del paesaggio diventa in un certo senso di moda e viene interpretato da autori sempre più numerosi, a partire da Luigi Ghirri, da Atlante a Viaggio in Italia. Ma non sono i "segni" dell'uomo quelli che Evangelisti va cercando da un capo all'altro dell'Italia, né le ragioni di una persistenza umana e sociale che travalica i tempi della storia; l'immagine del Bel Paese che egli ritrae è più vicina a una iconografia pittorica di tradizionale memoria.
Anche negli anni del secondo dopoguerra, infatti, persiste una fotografia prevalentemente "lirica", che muove alla ricerca del bello estetico come forma di verità, svincolata dalla strumentalità della rappresentazione fedele del reale: una fotografia quindi "pittorica", che rielabora in qualche modo l'immagine attraverso l'uso di speciali tecniche. Questa peculiare sensibilità coinvolge una nutrita schiera di fotografi, che si associano spontaneamente in circoli amatoriali per confrontarsi tra loro e scambiarsi opinioni ed esperienze. Alcuni di questi cenacoli, come quelli riconducibili al gruppo della Gondola o della Bussola, diverranno celebri, annoverando personaggi di grande statura e di fama non solo nazionale.
Queste tendenze nazionali trovano puntuale riscontro anche a Cesena, dove si assiste a un germogliare di fermenti artistici, di discussioni, di dibattiti e, pur in una realtà periferica e provinciale, i gruppi culturali coltivano interesse per la fotografia. La "Foto Moderna" di Sergio Cortesi, nel centralissimo corso Sozzi, diviene un luogo d'incontri davvero speciali. È qui, nei locali del laboratorio dell'antico fotografo Giovannini, che si riuniscono i professionisti più affermati in città, ma anche dilettanti appassionati; è qui che nascono durature amicizie, come quella che lega Bruno Evangelisti a un altro decano della fotografia cesenate, Renzo Ravegnani. Ed è qui che Evangelisti incontra colui che, ancora oggi con intatta commozione, ricorda come suo maestro: Renzo Bertaccini. Nasce fra i due un sodalizio profondo e intenso che durerà tutta la vita.
Bertaccini, forlivese, è un professionista che ha acquisito e perfezionato le proprie conoscenze presso lo studio più famoso della città, quello dei "Fratelli Savoia". Dapprima garzone di bottega, le petit (come veniva scherzosamente apostrofato dai Savoia, di origini nizzarde) diviene "artigiano" di rara perizia tecnica; agli inizi degli anni Sessanta decide di aprire un proprio laboratorio a Cesena. Nel suo negozio convergono presto molti artisti cesenati: i pittori Bocchini, Caldari, Bertozzi, fotografi come Ravegnani, Dellamore, Morigi, e lo stesso Evangelisti. Renzo non ha segreti per Bruno e lo "inizia" ai misteri della camera oscura dove, con religioso stupore, ogni volta sorprendentemente scoprono che "pianin pianino da un pezzo di carta affiora l'immagine": una rivelazione mai banale e scontata, che sempre li riempie di rinnovato slancio e di dedizione. Da Bertaccini egli impara a stampare, a ritoccare, a colorare il positivo, ma è soprattutto la stima dell'amico che lo esorta a esprimere, attraverso lo strumento fotografico, il suo sguardo curioso e insieme affettuoso sul mondo.
E la dimensione da cui Bruno si sente più magnetizzato è quella contadina, seppure dura e segnata dalla povertà, dalla fatica e dagli stenti; è il piccolo ma grande universo frequentato da bambino presso la nonna, un universo lontano, evocato con malinconia, avvolto da un alone di sensazioni quiete e rassicuranti, rappresentato nelle immagini rurali e agresti che predilige. Con le sue macchine al collo, Evangelisti comincia a viaggiare: dapprima in Romagna, poi nelle Marche, infine in Lucania, Calabria, Sicilia, Sardegna. Pur spostandosi con l'amico Bertaccini, il suo percorso fotografico rimane del tutto personale, secondo un'indole tendenzialmente solitaria. In queste peregrinazioni, infatti, nei borghi sperduti del Sud, Bruno scopre i luoghi che, scomparsi oramai al Nord, vivono però ancora nitidi nella sua memoria. L'occhio del fotografo si ferma e viene trattenuto da ciò che il suo animo riconosce: l'adesione intima e la "compassione" amica verso quelle vite semplici, scolpite dal lavoro, cadenzate dal ritmo lento delle stagioni, dal ciclico ripetersi della semina e del raccolto.
Sono proprio queste le immagini che l'autore ha deciso di scegliere per "Bruno Evangelisti fotografie (1964-1979)", la sua prima mostra cesenate. Immagini che parlano della terra, dei suoi odori, ma soprattutto dell'uomo che la solca e attraversa. Il suo è un paesaggio costantemente "abitato": non è solo la realtà naturale né quella architettonica ad attirare la sua attenzione, ma è l'uomo che dimora dentro i muri di quelle case, l'uomo che consuma la sua esistenza sulla strada. Per questo il fotografo attende che il borgo si popoli, che sul sentiero compaia un contadino, un pastore, un vecchio. In campagna, d'altronde, è sulla strada che la gente si incontra e trascorre la vita, una vita aspra, scandita dalle distanze tra le case e dalla lunghezza di sentieri dissestati e fangosi da percorrere sotto la pioggia e la neve. In questa dimensione, "sporca di terra" e "impregnata di sudore", si dipana l'avventura terrena di donne, uomini e animali, ed è lì che Bruno li immortala. Entra in punta di piedi sulla scena, è presente e in qualche modo "condivide" l'azione, ma non vuole turbarla: una forma di rispetto evidente nei frequenti ritratti di spalle.
Evangelisti dimostra di possedere una tecnica estremamente evoluta, che emerge con particolare evidenza nelle riprese dei paesaggi innevati, dove a causa dell'elevato contrasto tra ombra e luce è facile disperdere le sfumature e l'efficacia dell'immagine. Questa abilità, che denota una notevole esperienza di camera oscura, è frutto certamente della collaborazione con Renzo Bertaccini ma anche del rapporto con un altro riconosciuto maestro, il forlivese Romolo Savoia, a cui lo lega non una semplice amicizia ma un rapporto elettivo tra un padre e un figlio, accumunati dallo stesso entusiasmo. Un rapporto costruito anche sul rispetto: il giovane fotografo, timido e riservato, non chiede consigli ma osserva, "ruba con l'occhio" dall'esperto professionista che trascorre con lui tante domeniche fotografiche.
Romolo Savoia stampa le foto di Bruno in un modo diverso, utilizzando una tecnica "speciale", una sorta di "retino" o di "texture" che trasforma le immagini, le pervade, le fa vibrare, creando un'atmosfera carica di emozione e di sentimento. Evangelisti intuisce come questa tecnica, che non esaspera i contrasti ma "sgrana" la trama fotografica in un ventaglio infinito di grigi, diffondendo e spargendo pennellate di luce e sfumandola quasi fosse un antico dipinto, sia la più idonea a tradurre in modo speciale la sua visione del mondo. Dopo anni di pazienti sperimentazioni (i segreti della camera oscura non si chiedono mai) finalmente riesce a riprodurla con risultati soddisfacenti. La gran parte delle stampe esposte nella mostra cesenate sono il frutto maturo di questa esperienza, nata certo anche in una sorta di emulazione con l'anziano maestro.
Nella scelta di questa nuova modalità espressiva incise anche la frequentazione, a Burano, di un circolo molto speciale di artisti. Ogni primavera, quando la stagione si faceva più mite e l'azzurro del cielo si confondeva con quello delle acque dei canali, il nostro fotografo si recava sull'isola ritrovando l'amico Orazio, proprietario dell'antica trattoria "da Romano". In questo luogo, rifugio già dagli inizi del secolo di letterati, intellettuali ma soprattutto di pittori, Bruno "el cesenate de Buran" viene a contatto con un ambiente culturalmente vivace, ne assorbe lo spirito e la sensibilità creativa. Incontra personaggi di spicco del panorama artistico contemporaneo - Dina Bellotti, Silvio Consadori, Mario Signori - che si rifanno alla scuola pittorica dei Chiaristi. Ad accomunarli è la ricerca di forme di espressione capaci di sfruttare valori luministici e cromatici, stemperando la plasticità della materia, attraverso le rifrazioni e le trasparenze della luce, accuratamente studiate e sapientemente riprodotte.
Pensato e voluto insieme dalla Malatestiana e dalla Soprintendenza per i beni librari della Regione Emilia-Romagna - segno della continuità di un lavoro di studio e di valorizzazione che ha prodotto nel tempo iniziative di valore, fino alle ultime, fortunate esperienze dei "Cinque fotografi per un ritratto di Cesena" (2007) e della mostra dedicata al Giro d'Italia (2008) - questo percorso appena concluso è stato stimolato dall'attualità del contesto culturale. Come si è detto, le foto di Evangelisti rappresentano un momento preciso delle vicende nazionali, quando il fervore e l'entusiasmo della ricostruzione trasformano la penisola, sradicando tradizioni, costumi, intere economie e territori. Di questa realtà che va scomparendo, di questo mondo travolto dalla storia ma ancora fiero delle sue secolari miserie e dignità, Evangelisti celebra gli ultimi brani, invitandoci a riflettere sulle radici comuni della nostra cultura e sull'identità del Paese, che è sempre stata nei fatti, nelle situazioni, negli uomini, forte oltre ogni consapevolezza. Nei volti dei pastori lucani, delle donne calabre e pugliesi, ritroviamo la stessa fierezza e umanità che leggiamo nelle facce dei pescatori della laguna veneta o dei contadini marchigiani e forlivesi, così come nelle montagne della Valtellina o nei recessi della Romagna e del Sud dell'Italia è la stessa antica comune civiltà. La storia che Bruno Evangelisti ha composto in Malatestiana, insomma, è il più bel preludio alle celebrazioni dei 150 anni dell'Unità d'Italia e insieme una riprova del ruolo vitale e non accessorio degli istituti culturali, come le biblioteche, capaci di elaborare i riferimenti entro cui inquadrare la pluralità dei segni e dei linguaggi.
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