Rivista "IBC" XVIII, 2010, 3
Dossier: Le lingue di un incontro - L'Emilia-Romagna parla con Cuba
territorio e beni architettonici-ambientali, biblioteche e archivi, dossier /
La traduzione del volume Leggere e guardare l'Emilia-Romagna. Leer y mirar Emilia-Romaña è stato un dialogo e un esercizio di cooperazione fra studenti universitari cubani e italiani: una esperienza intensa, nata dall'esigenza di tradurre alcune testimonianze sulle città e sui paesaggi, esterni e interiori, di una regione d'Italia.1 È stato quindi, un laboratorio di traduzione e interpretazione del paesaggio attraverso le corrispondenze delle parole e delle cose: trovando ciò che unisce ma riconoscendo le differenze.
Una discussione sulle problematiche linguistico-traduttive riguardanti la comunicazione letteraria del paesaggio emiliano-romagnolo a un pubblico di lettori ispanoamericani non può che prendere le mosse dall'estrema complessità del concetto stesso di paesaggio, con il quale ci si può riferire al territorio in sé, allo sguardo d'insieme che si posa su di esso o all'immagine che di questo si ripropone. Nel tentativo compiuto con questo volume pare evidente una maggiore affinità con l'ultima accezione del termine. Si tratta, infatti, di un'antologia di testi letterari incentrati sulla percezione del paesaggio, dove il lettore è invitato a percorrere l'Emilia-Romagna attraverso la lente emotiva fornita da una decina di autori che sono nati e cresciuti in questa regione, interiorizzandola.
Il dialogo messo in atto con il pubblico ispanoamericano ha preso, così, la forma di una sorta di tour guidato attraverso la regione, lungo sentieri verbali che di lineare e nozionistico non hanno nulla, e che anzi si dipanano in modo del tutto labirintico, suggestivo ed emotivo. Tradurre il paesaggio ha significato, quindi, spaziare dalla piazza Cavalli di Piacenza (con Sandra Petrignani) alle grandi pianure del Po che stanno scomparendo (con Gianni Celati), dalla nebbia di Parma (con Luca Goldoni) alla piazza Maggiore di Bologna (con Maria Giuseppina Muzzarelli o Roberto Roversi), dalla luna di Modena (con Edmondo Berselli) alla magia di Ferrara (con Roberto Pazzi), da una Rimini già scomparsa (con Piero Meldini attraverso Pellegrino Artusi) ai vini dell'Emilia-Romagna (con Mario Soldati).
Tradurre il paesaggio significa cercare le parole che possano iscriverlo dentro di noi, creando un'immagine che è quasi un ricordo. Significa interpretare questi paesaggi, saperli leggere e guardare: leer y mirar Emilia-Romaña. Perché "ciò che chiamiamo paesaggio" - scrive Ezio Raimondi - "vuole da parte nostra un guardare profondo, un saper vedere che è nello stesso tempo un interpretare, un dare senso". Così, a chi affronta questi testi, l'Emilia-Romagna viene proposta come un paesaggio del tutto organico, composto da parti distinte di cui, procedendo nella lettura, si riconosce l'unitarietà al di là dei numerosi particolarismi locali: lo stesso carattere antologico del volume (di cui ciascuna parte, come un organismo vivente, è funzionale a quelle che la seguono e la precedono) rispecchia proprio questa visione dello spazio, tanto geografico quanto letterario, che è, al tempo stesso, frammentato e coeso, singolare e universale.
Più che insieme complesso di elementi naturali o artificiali, il paesaggio (tanto in generale, quanto in particolare quello emiliano-romagnolo) si fa piuttosto stato d'animo, cultura proiettata sull'ambiente circostante. Poco cambia, in realtà, se ciò su cui si posa lo sguardo sia la riva di un fiume o un campo arato, una pianura nebbiosa o un centro storico dal sapore medievale: ciò che conta è la maniera del tutto peculiare di osservare il paesaggio, di interpretarlo, e, infine, di riproporre all'altro da sé il frutto di questa operazione ermeneutica. Chi vive in un dato territorio si identifica, infatti, con esso: si riconosce, cioè, più o meno consapevolmente, come un vero e proprio prodotto culturale della terra che lo ha nutrito e in cui affondano le proprie radici e tradizioni.
La questione della lingua riemerge, così, con prepotenza: proprio nel momento in cui siamo costretti ad ampliare il concetto di paesaggio fino a includere in esso questa innegabile e fondante funzione gnoseologica, antropologica e culturale, ci rendiamo conto con chiarezza del fatto che lo spazio letterario presentato dai nostri autori contiene ben poco di geografico e naturale: esso rappresenta piuttosto un punto di vista prettamente umano sull'ambiente; si costituisce, cioè, come una precisa scelta percettiva e interpretativa nei confronti di questo ambiente.
E l'idea di scelta e di interpretazione ci riconduce naturalmente al nostro ambito linguistico: se le immagini dell'identità territoriale che ci corrisponde sono costituite da testi letterali, e quindi da parole, i lettori ispanoamericani a cui si offrono possono sfruttare una possibilità concreta per aiutarci e aiutarsi in questo processo di reciproca autocoscienza, proprio attraversando il ponte tra i due mondi operato dalla mediazione traduttiva. Da un versante all'altro di questo ponte, s'intuisce facilmente quanto siano significative non solo le scelte stilistiche e lessicali operate dagli autori che hanno redatto i testi originali, ma anche la traduzione in lingua spagnola operata dai colleghi cubani.
La nostra revisione finale, operata proprio ai fini di limare le discrepanze e gli inevitabili fraintendimenti connaturati all'incontro tra due lingue e culture diverse, ha consentito, poi, di gettare un ulteriore sguardo proprio nello scarto tra i nostri due mondi, scarto in cui risiede la ragione e la necessità stessa di questo confronto. L'essenza ultima della cultura si annida, cioè, in ciò che appunto non è di immediata comprensione, in ciò che genera dubbi e forza il traduttore a soluzioni alternative, in ciò che non è possibile modellare in modo del tutto soddisfacente perché non esistono equivalenze o corrispondenze istintive tra le due lingue, in ciò che viene del tutto o in parte frainteso e in ciò che, infine, va definitivamente perso nel trasferimento linguistico, il cosiddetto lost in traslation.
La zona nebbiosa tra le due realtà linguistico-culturali sarà così l'oggetto delle prossime righe, in cui presenteremo riferimenti derivanti dalla prima traduzione propostaci dai colleghi cubani, proprio per poter riflettere sul profondo valore gnoseologico del "cono d'ombra" esistente tra due culture distanti che, stimolate a un avvicinamento, non possono compierlo se non attraverso un percorso tentennante, fatto di continue e inevitabili approssimazioni. Questo modo di procedere, infatti, non può non produrre sfasamenti semantici di differente entità: si va dai lievi appiattimenti di sfumature che non possono essere percepite interamente, fino ai veri e propri macrofraintendimenti culturali che provocano rese linguistiche totalmente improprie rispetto al testo originale.
Ciò che è culturalmente distante, ciò che non si conosce e di cui, quindi, pesa l'assenza di un corrispondente corpus semantico di riferimento, induce il lettore (e il traduttore prima di lui) a un'istintiva operazione di riconduzione al noto: è un processo inverso, ma analogo, all'interiorizzazione del Nuovo Mondo all'interno di schemi conoscitivi e di classificazioni già consolidati nell'immaginario di partenza, messa in atto dagli stessi conquistatori spagnoli che nel XVI secolo si trovarono dinnanzi agli occhi realtà e luoghi mai immaginati in precedenza. Anche le scelte operate dai traduttori cubani alle prese con elementi paesaggistici europei completamente estranei alla loro esperienza diretta, infatti, mostrano le tracce di un simile e istintivo processo di adattamento linguistico. Nel tradurre il paesaggio, in certi tratti, i nostri colleghi hanno inconsapevolmente creato un territorio immaginario intermedio tra Cuba e l'Emilia-Romagna: una sorta di terra di mezzo, in cui la distanza fisica e mentale si riduceva in virtù di un'onirica mescolanza di elementi appartenenti a entrambe le culture. Con tocchi quasi surreali, la versione spagnola dei testi precedente alla nostra revisione ha dato vita, così, a un paesaggio emiliano-romagnolo popolato da animali e piante tipicamente caraibici.
Scendendo ora maggiormente nel dettaglio, facciamo riferimento ai testi dell'antologia, confrontando la versione originale italiana con la traduzione dei colleghi in un caso che testimonia proprio l'inevitabile approssimazione insita nel processo di assimilazione culturale del diverso. Tutte le sottili distinzioni gastronomiche ed enologiche presenti nel testo, per esempio, non potevano essere agilmente recepite da un lettore non italiano, e tantomeno potevano essere fedelmente mantenute nella traduzione in una lingua che non si è plasmata sulla medesima tradizione culinaria. Una tradizione che, come noi sappiamo bene, è fatta di innumerevoli ricette piene di variazioni sottilissime, tutte ugualmente e orgogliosamente "tradizionali" e, proprio per questo, in netta e campanilistica contrapposizione tra loro. Così non ci si stupisce della scelta di un termine generico come ravioles, che agli occhi di un traduttore cubano è stato ritenuto adeguato per riferirsi, indistintamente, tanto ai tortellini bolognesi quanto agli anolini parmensi.
Quanto sia arduo ottenere una trasposizione linguistica accurata di una realtà geografica lontana, le cui dinamiche e stratificazioni socioculturali non sono ben note al traduttore, è stato evidente durante il nostro lavoro di revisione. La cultura cubana è evidentemente caratterizzata da una maggiore omogeneità nazionale rispetto a quella italiana, in cui a distanza di pochissimi chilometri, in centri urbani da un certo punto di vista del tutto analoghi e contigui, si preparano però piatti diversi, si celebrano feste religiose differenti in più o meno dichiarato antagonismo con quelle dei paesi vicini e le espressioni linguistiche e dialettali si tingono di colorature nettamente distinte. La miriade di sagre di paese che punteggiano l'Italia di suoni, odori, colori e sapori non è, evidentemente, una peculiarità del territorio emiliano-romagnolo immediatamente assimilabile al substrato culturale del traduttore cubano.
Due parole, infine, sulla resa dell'aspetto linguistico più strettamente legato al territorio non solo nel contenuto ma nella forma stessa del linguaggio: il dialetto. Per avvicinare il lettore cubano alla presenza dialettale, così fondante nell'esperienza culturale italiana e in quella specificamente emiliano-romagnola, si è scelto di corredare il testo con alcune note che indicassero la traduzione delle espressioni in dialetto, lasciando queste in originale anche nella versione spagnola del testo.
La più grande difficoltà del tradurre non è, come si può credere in un primo momento, di carattere lessicale o terminologico. Certo, trovare il termine giusto, più consono o adeguato, è un esercizio fondamentale, al quale ogni traduttore deve sottoporsi, ma prima ancora di questo livello linguistico, sussiste un altro piano, quello della realtà referenziale che le parole descrivono. Nel caso dei testi di cui abbiamo supervisionato le traduzioni, la specificità dell'argomento era tale che spesso rimaneva sostanzialmente irriducibile entro i termini di una lingua altra, che non fosse l'italiano o addirittura il dialetto locale. La principale difficoltà dei testi tradotti è consistita dunque nell'esprimere, nel rendere visibili e tangibili, paesaggi, luoghi, atmosfere, sapori, odori tipici di una terra lontanissima dai paesaggi caraibici e tropicali a cui sono abituati i lettori cubani. Sono loro, infatti, i primi destinatari di Leggere e guardare l'Emilia-Romagna. Leer y mirar Emilia-Romaña. Se la traduzione è uno strumento per tendere ponti, per avvicinare, per creare un legame culturale, il lavoro del traduttore non può che essere un'attività di mediazione tra mondi, lingue e culture reciprocamente "altri".
Nota
(1) Leggere e guardare l'Emilia-Romagna. Leer y mirar Emilia-Romaña, a cura di M. G. Muzzarelli, con la collaborazione di A. Campanini, V. Cicala, V. Ferorelli, M. Spinazzola, postfazione di E. Raimondi, Bologna, Regione Emilia-Romagna, 2010.
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