Rivista "IBC" XVIII, 2010, 3

musei e beni culturali / didattica

Prima di lamentarsi per la scarsa presenza dei visitatori nei musei, non sarebbe meglio testare i pannelli, le schede e le didascalie messi a loro disposizione? E verificare se sono leggibili?
A chiare lettere

Cristina Bianchi
[Ufficio comunicazione, relazioni esterne e istituzionali della Regione Lazio]

La destinazione pubblica costituisce, oggi, una delle caratteristiche essenziali del museo, che ha seguito il processo di democratizzazione delle società occidentali ed è divenuto uno degli strumenti attraverso cui i cittadini esercitano il loro diritto alla cultura nell'intero corso della vita. Ma se il museo deve sollecitare l'incontro tra il pubblico e la memoria che conserva, se deve stimolare un dialogo con gli oggetti esposti da cui nascano pensieri, idee, emozioni proiettate verso il futuro, è necessario agevolare in tutti i modi questo dialogo formativo, adottando più che mai delle forme di comunicazione piane e intellegibili.1 Nei musei, in altre parole, il pubblico ha il pieno diritto di capire cosa c'è dentro, e cosa c'è dietro. I linguaggi adoperati dovrebbero cambiare di conseguenza e, senza nulla perdere di serietà e di scientificità, occorrerebbe elevare il loro livello di "leggibilità": condizione necessaria per fare di queste sale dei libri aperti, fonti di sollecitazione visiva, descrittiva e narrativa.

Se consideriamo, invece, il quadro complessivo delle attività didattiche svolte nei musei italiani, emergono la prevalenza della visita guidata (che talvolta è l'unica attività proposta) e la carenza nell'offerta di materiali stampati di supporto: pubblicazioni per bambini, schede informative per gli insegnanti, fascicoli didattici per gli studenti e prodotti specifici per gli adulti. Tuttora, quindi, non è facile orientarsi tra i moltissimi oggetti esposti e attraverso sale che ospitano collezioni ricchissime, anche perché la comunicazione dentro il museo, per come è concepita e per come viene vissuta da molti visitatori, non è pensata a partire da chi visiterà ma dal contenuto specifico che il curatore ritiene prioritario comunicare. Di conseguenza il processo comunicativo, dalle guide alle didascalie fino allo stesso allestimento, rimane fortemente monodirezionale e improntato alla passività del visitatore, che subisce il sistema di interpretazione e di mediazione del museo, avendo a disposizione scarsi margini di manovra per costruire un proprio, spontaneo e "alternativo" modo di raccolta, utilizzo e rielaborazione dei contenuti.2

Si tratta, inoltre, di un processo quasi sempre monodimensionale, perché pensato per un "visitatore modello": mediamente preparato nella materia, in grado di condividere lo stesso contesto di riferimento e molto motivato alla comprensione. Al contrario, nella realtà del visitatore medio, come è naturale che sia, ci sono notevoli differenze di background, di aspettative e di atteggiamento, per non parlare delle esigenze poste dalle persone più distanti dalla definizione astratta di "visitatore modello": gli occasionali, gli stranieri e il cosiddetto "non pubblico", ovvero coloro che non hanno mai o quasi mai visitato un museo e non sentono l'esigenza di farlo. La comunicazione dovrebbe essere pensata proprio in funzione della molteplicità dei visitatori (tanti, diversi e con diverse esigenze e aspettative) e nel rispetto della molteplicità di significati e di percorsi realizzabili da ciascuno. E anche questo richiede molta attenzione alla qualità comunicativa e non solo scientifica degli specifici media utilizzati: per fornire più livelli di lettura, per agevolare la costruzione individuale del significato da parte del visitatore, per accompagnarlo senza costringerlo a un'unica ipotesi di percorso.

Il museo è stato definito una forma di comunicazione non verbale, che ha nei suoi oggetti le proprie specifiche "parole".3 Ma altre parole accompagnano gli oggetti esposti: sono quelle scritte sui cartelli, sui cartellini e nei cataloghi, quelle ascoltate dalla voce delle guide e delle audioguide. Da sempre il cattivo visitatore è considerato colui che, di fronte all'opera, si limita a leggere il cartellino e procede oltre. Eppure, da quel breve testo scritto, che spesso si limita a dare un nome a ciò che abbiamo di fronte, l'occhio è attratto irresistibilmente.

La maggior parte dei visitatori trae le sue interpretazioni proprio da quanto legge sul cartellino. Nella progressiva acquisizione della realtà, il "che cos'è" viene prima del "perché": il bisogno di classificazione è un bisogno di sicurezza. Se riconosciamo l'autore, o il soggetto, ci sentiamo rassicurati. Se il nome che leggiamo crea in noi il vuoto mentale, quando l'oggetto non ci attrae o non ci incuriosisce in modo particolare, ci sentiamo autorizzati a procedere oltre. Se invece, grazie al cartellino, riconosciamo di essere di fronte a un'opera importante, a un oggetto significativo, ci sentiamo partecipi di una scoperta. Quando poi sul cartellino leggiamo soltanto "Senza titolo" o una didascalia criptica come "Variazione n. 5", sperimentiamo un senso di frustrazione.

Due sono, in genere, le accuse mosse ai cartellini: di essere incomprensibili o di essere poco esaurienti. Cartellini incomprensibili purtroppo esistono, e possono essere addebitati alla disattenzione o a un tratto "sadico" dei curatori. Quando la parola che viene letta non si trova su un comune dizionario enciclopedico, o se un termine tecnico non viene spiegato, qualcosa non funziona. Che "opistografo" significhi "scritto anche sul rovescio" è qualcosa che non a tutti è dato sapere.4

Michel Laclotte, che a Parigi ha realizzato tra il 1978 e il 1986 il Musée d'Orsay e tra il 1981 e il 1992 il Grand Louvre, ricorda con nostalgia i "grossi cartelli ottocenteschi su legno dorato, perfettamente visibili da lontano, con i nomi e le date degli artisti chiaramente leggibili, insieme al soggetto del quadro".5 Secondo Laclotte sarebbe necessario parlare del soggetto, definire brevemente il tema dell'opera, perché non si può dare per scontato, per esempio, che il pubblico conosca gli episodi mitologici raffigurati. Se, nel caso di una mostra temporanea, un'informazione in più può rimandare utilmente al contesto specifico dell'esposizione o all'argomento trattato, nel caso di una raccolta permanente decidere i contenuti è più difficile. Soprattutto davanti a un'opera d'arte, si ha la sensazione che il non detto sia più importante di quello che si racconta. Qualunque sia la scelta del curatore - che si aggiungano le notizie sulla tecnica o sul soggetto, sull'artista o sulla storia di chi ha collezionato l'opera - qualcuno resterà comunque insoddisfatto.

Passando alle indicazioni operative, ancora prima che comprensibili i cartellini dovrebbero essere leggibili. Non ha senso che i visitatori siano messi in difficoltà con caratteri dal corpo minuscolo, con cartellini trasparenti (in cui il testo si confonde con lo sfondo retrostante) o stampati su materiali riflettenti, posti troppo in basso (addirittura sul pavimento) o troppo distanti dall'oggetto a cui si riferiscono. Quanto ai cartelli, innanzitutto va detto che in genere, potendolo evitare, nessuno legge un libro, un giornale o una rivista stando in piedi, e dunque non si dovrebbero obbligare i visitatori di una mostra a leggere in piedi testi lunghissimi. Le duemila battute, ritenute da alcuni misura ideale per un pannello didattico, sembrano ancora troppe, eppure spesso sono ampiamente superate in cartelli che sono vere e proprie pagine di catalogo, ingrandite e attaccate alla parete.

Quanto al linguaggio usato nei pannelli, un generico invito alla chiarezza non è sufficiente. Non stupisce che il pubblico legga con diligenza tutti i testi della prima sala, e che poi, procedendo nella visita, si accontenti di qualche frase, di qualche riga, dei titoli, e infine abbandoni l'impresa. Solo il 65% dei visitatori legge il 60% dei testi, e di quanto viene letto si memorizza in media solo il 10%. È buona norma, quindi, evitare i peggiori ostacoli sul cammino dei visitatori:

· i periodi troppo lunghi e involuti, e l'abuso di proposizioni subordinate: un pensiero espresso con una sequenza di frasi brevi è più efficace e comprensibile;

· i preziosismi linguistici e le forme dotte;

· i termini tecnici non spiegati;

· l'abbondanza di gerundi e di participi presenti, che appesantiscono il testo;

· l'eccesso di avverbi e di forme avverbiali, che comunicano incertezza.

Sebbene nel campo della divulgazione esistano addirittura delle formule matematiche per la costruzione di frasi chiare e semplici, le modifiche da fare sui testi non riguardano solo la grammatica, ma anche e soprattutto la loro struttura. Si può cominciare semplificando i concetti di fondo con domande semplici e allo stesso tempo invogliare il visitatore a proseguire la lettura creando una sequenza del tipo "domanda-risposta". Il punto focale è che il visitatore medio deve leggere molto in pochissimo tempo; per questo, per alleggerire i testi, è essenziale usare frasi corte, grafici, disegni, persino colori diversi.

Per esempio, il Deutsches Museum di Monaco di Baviera, tra i più grandi musei di scienza e tecnologia al mondo (www.deutsches-museum.de), per risolvere il problema della semplificazione dei testi ha istituito un "ufficio delle didascalie", che trasforma i testi in didascalie corte e semplici. Per raggiungere questo obiettivo è stato deciso di suddividere i testi in due tipi di didascalie:

· le didascalie corte, che spiegano i princìpi in poche e semplici parole;

· le didascalie lunghe, con le informazioni più importanti e con le parole significative in grassetto.

Anche i testi dei cartellini che si riferiscono a oggetti specifici dovrebbero essere suddivisi in due gruppi:

· le didascalie destinate a un gruppo di oggetti (da posizionare all'inizio del gruppo stesso);

· le didascalie per il singolo oggetto (da inserire vicino all'oggetto, con la sua descrizione).6

I testi e le didascalie dovrebbero essere colorati in modo diverso: il rosso, il blu e il giallo, secondo gli esperti tedeschi, sono i colori che meglio si addicono a una maggiore differenziazione dei testi. Oltre ai colori, anche i caratteri di dimensioni differenti possono aiutare a definire una certa gerarchia nelle informazioni fornite: più è grande il carattere, più è importante il contenuto. Tuttavia è nel modo di strutturare le diverse parti del testo che risiede il successo di un pannello o di una vetrina. Il modo più efficace di fare le didascalie, infatti, ricorda molto la struttura di un articolo, con un titolo, un sottotitolo e il testo, che corrispondono a tre livelli di esposizione:

· con il livello A si fornisce l'informazione di base, composta da sole tre o quattro parole: un titolo, appunto; questo tipo di informazione, estremamente telegrafica, serve per i visitatori che non leggeranno fino in fondo il testo, come per esempio i bambini o le persone che posano distrattamente lo sguardo sulla bacheca durante il tragitto;

· il livello B, invece, contiene il corpo principale del materiale informativo, con le notizie più importanti: dovrebbe essere costituito da un paragrafo di 50-75 parole, in ogni caso sempre meno di 100; se l'argomento richiede più spazio, allora è necessario dividere il testo in due o più paragrafi, usando colori diversi o inserendo dei disegni e delle foto.

· il livello C, infine, contiene tutte quelle notizie che interessano solo agli addetti ai lavori o ai lettori più curiosi (statisticamente parlando, il 98% dei visitatori non lo leggerà): è consigliabile inserire questo livello lontano dagli altri testi, magari sotto il pannello delle spiegazioni, usando caratteri scuri e più piccoli.

È molto importante separare il livelli A, B e C, usando magari colori differenti: il visitatore, inconsciamente o meno, capirà il loro significato, e a ogni nuova bacheca saprà cosa leggere e cosa tralasciare, magari riservandosi di ritornare successivamente per approfondire la lettura.

Se esporre per comunicare, attuando la natura propria delle opere conservate, è il compito primario del museo, gli altri compiti, come conservare, catalogare e studiare, possono essere visti come prerequisiti del primo. Bisogna dunque privilegiare modalità di intervento che assicurino la "leggibilità" dell'opera in quanto segno, poiché senza questa leggibilità il processo di comunicazione si ferma subito o può essere radicalmente distorto. E allora che senso avrebbe lamentarsi che i musei non sono abbastanza frequentati?


Note

(1) Della ricca bibliografia sul ruolo e sull'uso sociale del museo ricordiamo un solo titolo, tra i primi e i più significativi per quanto riguarda l'Italia: Il museo come esperienza sociale. Atti del convegno di studio sotto l'alto patronato del Presidente della Repubblica. Roma, 4-5-6 dicembre 1971, Roma, De Luca, 1972.

(2) Leggere il museo. Proposte didattiche, a cura di E. Nardi, Formello (Roma), Edizioni SEAM, 2001, p. 43.

(3) M. L. Tomea Gavazzoli, Manuale di museologia, Milano, Etas, 2003, p. 112.

(4) Si veda in proposito: V. Ferorelli, Si scrive cultura, si legge tortura?, "IBC", IX, 2001, 1, pp. 38-41.

(5) M. Laclotte, Storie di musei. Il direttore del Louvre si racconta, Milano, Il Saggiatore, 2005, p. 115.

(6) A. Angela, Musei e mostre a misura d'uomo. Come comunicare attraverso gli oggetti, Roma, Armando Editore, 2008, p. 120.

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