Rivista "IBC" XVIII, 2010, 1
musei e beni culturali / didattica, interventi
Nel 2007, questa rivista dava notizia di tre convegni che presentavano le ricerche condotte sugli archivi di alcuni istituti superiori dell'Emilia-Romagna. Nel 2008, un numero di "Annali di storia dell'educazione e delle istituzioni scolastiche" è stato dedicato al problema dei beni culturali della scuola. Due momenti importanti di riflessione su patrimoni ancora poco conosciuti e valorizzati, che, in molti casi, giacciono ignorati negli armadi, nelle cantine e nelle soffitte delle scuole e che rischiano la dispersione o l'abbandono in condizioni conservative precarie. Il problema della conservazione e valorizzazione delle raccolte delle scuole è questione di non facile soluzione: i tentativi di trovare sbocchi si scontrano con l'ambiguità delle competenze da attribuire, cioè di chi deve studiare, ordinare e conservare tali nuclei di oggetti.
Gli aspetti che concorrono a questa complessa situazione sono diversi. Tra questi, alcuni sono a tutti evidenti: in primo luogo la collocazione intermedia del funzionamento delle scuole tra competenze regionali, provinciali e statali, che spesso rende vischioso concordare progetti. Poi, l'assenza, nell'organico scolastico, di personale dedicato alla gestione, conservazione e valorizzazione delle raccolte storiche (agli effetti della sedimentazione nel tempo non può provvedere il personale amministrativo, che già affronta le gigantesche incombenze della burocrazia corrente). Non ultimo, il carattere transeunte di tutte le attività della scuola, che è l'altra faccia della mobilità di studenti, insegnanti e personale tecnico e amministrativo, e che rende difficilissima l'impostazione di lavori di lunga durata. Infine, va osservato che, salvo alcuni casi, raramente le scuole hanno considerato i materiali più antichi prodotti al loro interno come, a loro volta, possibili strumenti per la didattica.
Per quanto riguarda le biblioteche, la loro catalogazione è da sempre affidata alla buona volontà dei docenti che vi dedicano qualche ora, oppure, nei casi migliori, a insegnanti che sono annualmente utilizzati nel ruolo di bibliotecario (peraltro non definito nel profilo professionale dell'organico). Quando esiste un catalogo, solo in alcuni e rari casi esso è immesso nella rete nazionale e può essere consultabile on-line. Fatta eccezione per alcune situazioni (penso alle raccolte delle scuole professionali comunali "Aldini Valeriani" di Bologna, o a quelle dell'Istituto d'arte "Chierici" di Reggio Emilia), si registra in generale un'attenzione ancora minore intorno ai patrimoni storico-artistici conservati nel corso del tempo.
A monte del problema c'è tuttora un nodo concettuale da risolvere, che non si pone per altre raccolte, il cui status di insieme organico è con evidenza sancito dall'intenzione originaria di chi le ha formate e conservate. Se infatti, in alcuni casi, è possibile individuare nuclei antichi già in origine destinati a costituire un museo scolastico di modelli per la didattica artistica, gli insiemi di oggetti conservati sono costituiti da grandi quantità di materiali, frutto della pratica quotidiana, disomogenei dal punto di vista tecnico ed estetico. Oggi, come in passato, si pone dunque il problema della loro selezione, che non può basarsi sul solo criterio "anagrafico" (limitandosi a considerare quegli oggetti che, sopravvissuti, hanno raggiunto l'età canonica dei 50 anni), ma deve trovare un equilibrato compromesso tra conservazione e scarto anche per i materiali più recenti. Qualcosa di simile a quanto accade per gli archivi correnti una volta che si decida di versarli in archivi destinati alla conservazione e alla ricerca.
Nel caso dei materiali tecnici e artistici, la conservazione è sempre stata affidata alla buona volontà dei docenti, soprattutto di materie professionali e di laboratorio, in grado di riconoscerne il valore storico e documentario. Non c'è, infatti, alcuna direttiva ministeriale che fornisca indicazioni per l'istituzione di figure dedicate alla conservazione e all'utilizzo degli oggetti. Gli insegnanti, nel tempo, hanno selezionato quanto ritenuto di valore, spinti anche da quella comprensibile "gelosia" professionale (nonché orgoglio di mestiere) che si è rivelata la sola possibilità di sopravvivenza dei saperi della scuola. Di fatto, soprattutto nelle scuole d'arte, sono stati conservati i saggi degli anni finali del percorso, più raramente le prove realizzate nel corso degli studi. Un criterio sottoposto alla discrezione del gusto dei docenti, e quindi passibile di operare scarti non sempre meditati, soprattutto da quando (all'incirca a metà del Novecento) si sono fatti più rari quei momenti ufficiali di confronto nazionale o regionale (mostre e concorsi) che delegavano a giurie esterne la valutazione dei materiali realizzati dagli studenti e che servivano da parametro di giudizio per gli oggetti da sottrarre allo scarto.
Né l'età dei manufatti né il gusto personale possono dunque soccorrere da soli nella scelta di quanto conservare, come bene dimostra l'intervento scritto anni fa da Wanda Bergamini sull'esperienza didattica vissuta e promossa nel secondo dopoguerra da alcuni maestri (tra i quali Giorgio Pesci, Quinto Ghermandi, Otello Caparra, Vasco Bendini, Pirro Cuniberti) nell'Istituto statale d'arte di Bologna: in quell'articolo, la studiosa, allora insegnante presso la scuola, illustrava come i lavori degli allievi fossero importanti per comprendere l'humus culturale da cui muoveva l'istruzione artistica locale tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento.
Come le accademie, infatti, anche le scuole d'arte sono state il luogo di espressione didattica di artisti e artigiani di grande levatura, ma a differenza di quelle (la cui storia è da tutti riconosciuta nel contesto culturale italiano), gli istituti artistici medi hanno più di rado attirato l'attenzione intorno alle esperienze e ai materiali, agli strumenti e ai modelli a cui i docenti facevano riferimento. Si tratta di un vuoto nella ricerca, connesso a una diffusa idea di "gerarchie delle forme scolastiche", che ha avuto pesanti ricadute nella genericità di impianto della recente riforma dell'istruzione superiore: essa, infatti, mostra di tenere assai poco in considerazione il ruolo che le scuole artistiche e professionali hanno avuto nella formazione dell'identità nazionale.
Volendo limitarci all'Emilia-Romagna, non si può a tutt'oggi affermare con certezza quali scuole conservino patrimoni di significativa consistenza e di quali materiali essi siano composti. Soccorrono, per una prima valutazione, alcune ricerche confluite in progetti di catalogazione già avviati, come presso l'Istituto statale d'arte di Reggio Emilia, e quelli di Bologna e di Modena. Queste imprese pionieristiche offrono un interessante spaccato delle raccolte scolastiche, portando alla luce materiali anche unici. Da una parte, le raccolte delle scuole d'arte presentano nuclei di materiali omogenei: calchi e fotografie di oggetti collegati, per la loro destinazione a modelli, alle pubblicazioni illustrate presenti nelle biblioteche di istituto; modelli "standard", frutto di acquisizioni (gessi di note opere d'arte italiana, fotografie delle serie Alinari, Anderson eccetera). Nel caso emiliano-romagnolo, troviamo stampe di Poppi e di altri fotografi attivi lungo la via Emilia, o realizzate all'interno della scuola stessa; ma anche calchi rari, ricavati da dettagli architettonici di edifici del territorio.
D'altra parte, dagli anni Settanta dell'Ottocento fino agli anni Venti del secolo scorso, l'impulso a costituire raccolte di opere significative di oggetti di vario genere, adatti a fungere da esempi stilistici e tecnici per la pratica didattica, ha fatto confluire, presso le scuole, materiali provenienti da istituti più antichi (come a Reggio Emilia) o da lasciti, donazioni e depositi di istituzioni, pubbliche e private, e di privati cittadini (come è accaduto per la Scuola di arti e mestieri di Bologna). In alcuni casi, la necessità di ricorrere a modelli per la didattica trovava uno sbocco nel legame costruito tra scuola e musei locali, come a Faenza e a Bologna.
Il problema dell'inventario e del catalogo di questi oggetti, del loro recupero e della manutenzione, si affianca a quello di una destinazione che, dato il contesto, non può risolversi in una mera musealizzazione. In alcuni casi le scuole d'arte (e non solo) hanno scelto di allestire piccole "mostre" di questi oggetti nei pochi spazi disponibili (corridoi o aule-laboratorio), perseguendo un'idea di esposizione che privilegia materiali "pregiati" e che serve a consolidare l'identità storica dell'istituto agli occhi di chi vi accede. Ma non tutto può essere esposto, e quindi i materiali trovano asilo in depositi più o meno adeguati alla loro conservazione, spazi che, negli edifici scolastici, sono sottratti alle aule. È dunque importante formulare un'ipotesi diversa rispetto alle consuete pratiche museali, che implichi (come è stato proposto per gli archivi scolastici) un'utilizzazione didattica, certo sorvegliata dal punto di vista dell'uso, ma più aperta rispetto al contatto con gli oggetti di quanto non possa essere proposto in un museo.
La forma prevalente delle aule, concepite con un posto per la cattedra e le file di banchi allineati, è lo specchio di un modo di insegnare ancora pensato per l'ascolto di una lezione frontale. Lo notava con lucidità, già nel 1936, Carlo Ludovico Ragghianti.1 Nelle scuole artistiche, e in quelle tecniche e professionali, queste aule si contrappongono ai laboratori, dove si svolgono le lezioni a carattere manuale che implicano un rapporto meno rigido tra allievi e docenti. La lezione ex cathedra viene così a definire il confine tra le attività genericamente definite "pratiche" e quelle "culturali", considerate più nobili e impegnative (storia, italiano, storia dell'arte eccetera). Si è affinata così una didattica "complementare" che, per la sua natura di esperienza esterna, ha faticato a scalzare le abitudini di lavoro in aula e, quindi, gli stessi modelli di valutazione degli allievi da parte degli insegnanti. Per restare alla sola storia dell'arte, quella affrontata in aula col supporto del manuale è in genere percepita dagli studenti come cosa diversa da quella incontrata nei musei: il Giotto della Pinacoteca nazionale di Bologna difficilmente si identifica con il pittore che occupa una parte consistente delle lezioni sul Trecento italiano.
Tra ciò che si vede fuori e quanto si ascolta o guarda dentro le aule si produce perciò uno iato, dato dall'impossibilità di verificare in prima persona la consistenza materiale degli oggetti: un'esperienza che ne renderebbe più evidente l'identità storica e culturale. Se non si può toccare con mano, per ovvi motivi, la pala di Raffaello in Pinacoteca, le raccolte delle scuole rendono possibile verificare di persona la realtà fisica degli oggetti. Per quanto "minori", dal punto di vista di una didattica induttiva, questi oggetti si dimostrano efficaci per consolidare conoscenze e competenze degli allievi ed evitano di agganciare il discorso ad astrazioni di carattere estetico che sono il punto di non incontro tra le parole dell'insegnante e la sensibilità degli studenti. Ripensare la disposizione e l'utilizzazione dei materiali storici delle scuole significa anche riorganizzare gli spazi in cui si svolge il lavoro con gli studenti, "rompere le righe" dei banchi e attrezzarsi per una didattica che abbia come centro l'oggetto della ricerca e non le sole parole sull'oggetto. Certo, questa prospettiva richiede disponibilità di mezzi e di materiali e, quindi, un supporto economico che oggi non sta nelle possibilità degli istituti superiori né in quelle, assai esigue, delle soprintendenze.
Nelle scuole in cui è stato avviato un recupero dei patrimoni, gli allievi sono stati coinvolti nella catalogazione e sistemazione dei materiali, seguiti dai loro insegnanti ma anche da esperti esterni che hanno supervisionato e aggiustato le fasi del lavoro. Pretendere che uno studente medio sia in grado di catalogare con ottimi risultati materiali eterogenei è certo irrealistico, ma avviare anche solo alla consapevolezza delle elementari (ma non scontate) azioni che richiede la conoscenza di un oggetto e della sua storia (dalla rilevazione dei dati materiali alla ricerca sulle fonti che lo riguardano) è un salto di qualità rispetto alla didattica corrente. Ed è un approccio che restituisce peso all'osservazione, alla problematicità dell'interpretazione, alla domanda e comporta l'arricchimento delle competenze lessicali e linguistiche: gli studenti sono di fatto portati a circoscrivere l'analisi dell'opera a partire da una descrizione adeguata e verificata dal vivo.
In questa prospettiva, la conservazione delle raccolte delle scuole d'arte si costituisce in parallelo ai laboratori didattici e diviene parte integrante delle lezioni. Lungi dal divenire musei di oggetti di pregio, i materiali storici potrebbero dare luogo a forme di esposizione temporanea con cui costruire, a scuola, approfondimenti che passano attraverso l'esperienza diretta degli allievi. Come ammoniva lucidamente Federico Zeri, l'insegnamento della storia dell'arte "non insegna a leggere il testo figurativo: non insegna cioè a estrarre dall'opera d'arte gli innumerevoli connotati di valore storico che essa possiede (anche a livelli non eccelsi), quelli per cui un quadro, un mobile o una stampa popolare ci dicono spesso intorno a un'epoca molto più che l'elenco degli artisti, le date delle loro opere più famose".2
Note
(1) C. L. Ragghianti, Architetture scolastiche e loro significato, "Critica d'arte", 1936, pp. 299-300.
(2) F. Zeri, Storia dell'arte a pezzi, "Paragone", LX, gennaio 1989, 13 (467), pp. 3-6: 5.
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