Rivista "IBC" XVIII, 2010, 1

biblioteche e archivi / convegni e seminari, interventi, leggi e politiche

Come cambiano (o dovrebbero cambiare) i modi di organizzare la memoria nel mondo in bilico tra globale e locale?
Un archivio a forma di rete

Guido Melis
[docente di Storia dell'amministrazione pubblica all'Università 'La Sapienza' di Roma]

Pubblichiamo l'intervento pronunciato dall'autore, docente di Storia dell'amministrazione pubblica all'Università "La Sapienza" di Roma, come prolusione del workshop "Fare poli", nell'ambito della II Conferenza nazionale degli archivi, tenutasi a Bologna dal 19 al 21 novembre 2009.


Recentemente (da circa venti-trent'anni, per la verità, ma con crescente rilevanza pratica negli ultimi anni) gli studi di Richard Stewart e dei suoi allievi negli Stati Uniti e quelli in Italia di Sabino Cassese e della sua scuola hanno posto l'accento su quello che si può definire come "lo spazio giuridico globale".1 L'indirizzo di studi appena evocato muove dall'analisi attenta delle trasformazioni in atto nell'ambito dell'economia mondiale: registra i limiti crescenti, strutturali dei governi nazionali nel controllo delle rispettive economie, prende atto della dilatazione su scala planetaria dei mercati, studia la dislocazione delle imprese e delle produzioni, la dimensione plurinazionale ormai assunta dalla maggior parte delle grandi istituzioni economiche, analizza acutamente il progressivo trasferimento di decisive competenze dello Stato nazionale a vantaggio di dimensioni di governo sopranazionali e ultrastatali.

Ne deriva - ci avvertono questi studiosi - la perdita del centro, o di quelli che erano un tempo i centri dell'economia. Una moltiplicazione diffusa e incontrollata di organismi ultrastatali a carattere settoriale (secondo dati recenti sarebbero circa duemila), di organizzazioni non governative, di alleanze e organismi espressi su scala sopranazionale dalla civil society (secondo alcune stime sarebbero circa quarantaquattromila). Un inestricabile groviglio di entità interagenti fra loro e con le istituzioni statali, la cui missione varia anche sensibilmente: da funzioni meramente regolative, a compiti arbitrali (con spiccata coloritura giurisdizionale), a compiti programmatori. E i cui poteri possono essere più o meno cogenti, dotati di maggiore o minore intensità, ma tendono irresistibilmente ad affermarsi rispetto alla rete dei vecchi poteri, allocati negli enti statali e substatali.

Qual è la natura di questi nuovi poteri? Sono pubblici, parapubblici, delegati a esercitare funzioni pubbliche? O privati, formati da grandi interessi impegnati a dirimere gli incagli del libero mercato? O pubblici e privati insieme, anfibi, ambiguamente antropomorfi? Un diritto sovrastatale - composto di un originalissimo mix tra istituti e blocchi normativi di diversa (spesso opposta) provenienza nazionale, nutrito corposamente da quello che potremmo definire come il nuovo, vincente diritto degli affari e degli scambi - governa oggi quella che Cassese chiama "l'arena globale".2

Un sistema di regole - in genere non scritte in leggi ad hoc, ma consolidato via via in principi universalmente riconosciuti grazie all'opera di una giurisprudenza pratica, di fonte variegata - assicura il funzionamento dell'economia globale. I giudici (nei tanti tribunali e nelle corti che si formano nei vari settori e che tendono letteralmente a "dettar legge" su scala sovranazionale) sono i veri protagonisti di un diritto nuovo: un "diritto mite", come lo ha chiamato Gustavo Zagrebelsky, destinato forse a prevalere sulle forme troppo indurite, poco flessibili e autoritarie (nel senso che riconoscono autorità certe e universalmente legittimate) tipiche del diritto tradizionale degli stati. In ogni caso lo Stato - ed è questo il punto che qui mi interessa soprattutto evidenziare - "non è più il protagonista assoluto della scena giuridica".3

Non voglio diffondermi di più su questa fondamentale trasformazione che caratterizza e sempre più caratterizzerà la nostra epoca. Avverto, naturalmente, che tutto, in questo scenario, è ancora in gioco: e dunque non è detto che il vecchio non possa sopravvivere al nuovo, che non trovi con esso forme accettabili di compromesso (come del resto accade di norma nei grandi mutamenti storici), che persino non possa confermarsi come vincente e sopravvivere per un periodo di tempo apprezzabile. Ciò che qui si vuole indicare è una tendenza in atto, non uno stato di fatto. Ma è una tendenza che già produce le sue nuove regole e le istituzioni preposte alla loro applicazione. Non c'è ancora un ordine giuridico globale, come ci dicono bene i giuristi, ma è certo che ampie zone dell'ordinamento vivono oramai in questa nuova dimensione.

La trasformazione è così radicale e pervasiva da porre una serie di interrogativi anche per quanto concerne i processi di produzione, elaborazione e conservazione della memoria. Di quella singola, come di quella collettiva. Consideriamo infatti, per un attimo, le modalità attraverso le quali questo complesso intreccio di istituzioni (le istituzioni dell'economia globale) deposita ogni giorno, in atti più meno ufficiali, la traccia della sua attività quotidiana. Guardiamo alla natura di questa miriade di documenti (accordi tra privati o norme degli Stati, sentenze di corti sovranazionali o direttive governative, lodi arbitrali tra privati o atti di emanazione pubblica, semplici decisioni interne di grandi multinazionali od ordinanze del potere statale). Guardiamo al loro contenuto e all'estensione priva di confini che ne caratterizza l'applicazione. Interroghiamoci sul nesso tra questa documentazione e la sua origine e provenienza. Si profila ai nostri occhi una modalità di produzione del documento con queste caratteristiche:

· il documento non sempre ha un unico ente produttore (un unico autore) ma quasi sempre deriva dal concorso simultaneo (e sottolineo questo aggettivo) di più enti o soggetti, che dialogano tra di loro in tempo reale e producono l'atto secondo un processo multiplo e condiviso; difficile attribuirne la paternità a uno solo di essi: la maggior parte di questi documenti della globalizzazione (come anche potremmo chiamarli) è di natura plurima e contestuale, ha molti padri simultaneamente e si forma nell'inestricabile intreccio di più emittenti;

· gli autori del documento possono essere, e spesso sono, dislocati territorialmente in punti diversi, fisicamente anche molto distanti tra loro: il documento perde la sua radice nel contesto territoriale e si forma nell'etere, in uno spazio non identificabile, non più fisicamente determinabile;

· la sede in cui il documento viene concorsualmente elaborato, attraverso un'attività emendativa anche minuta, messa in opera contestualmente da parte di tutti i soggetti che vi sono implicati, è infatti sempre più spesso una sede informatica, della quale bisognerà intanto notare che, per definizione (almeno allo stato attuale delle tecnologie), è inadatta alla conservazione della memoria nei vari stadi dell'elaborazione (i "cancella", i "taglia e cuci" che ne segnano la progressiva, subitanea evoluzione verso la forma definitiva).

Il tessuto delle istituzioni del futuro sarà, per l'appunto, sempre più caratterizzato da forme simili di interazione, per di più non necessariamente nella forma dell'atto scritto (già dominano il campo le conferenze via Internet, magari tra paesi e continenti diversi). Le attività pubbliche (e quelle private incidenti sulla collettività) si svolgeranno (già si svolgono) nell'ambito di reti interattive, nelle quali nessuna istituzione sarà di per sé autonoma e dominante del proprio campo, perché i campi di ciascuna saranno continuamente intersecati dall'iniziativa delle altre. Questo è lo scenario del futuro, e a me sembra che questa grande trasformazione non possa riuscire senza effetti sull'organizzazione e sulla gestione della memoria.

Mi domando infatti: la crisi in atto della sovranità nazionale degli Stati, sempre più condizionati dall'erosione dei loro poteri tradizionali a vantaggio di organismi sopranazionali (il caso più facile da evocare è quello delle istituzioni europee), comporterà o no una revisione dei nostri tradizionali parametri di gestione della memoria? E specularmente: la progressiva ritirata degli Stati a vantaggio di forme federative di organizzazione dei poteri pubblici, con crescente protagonismo delle regioni e delle reti degli enti locali, si rifletterà o no sulle modalità organizzative di conservazione della memoria?

A me sembra che a entrambe queste domande si debba rispondere affermativamente. Mi sembra cioè che se cambia il riferimento istituzionale, se si modificano così radicalmente i modi di produzione della documentazione pubblica o di interesse pubblico, se mutano i tracciati attraverso i quali i documenti circolano e sortiscono i loro effetti, tutto ciò non possa non produrre conseguenze sul sistema specifico della conservazione, e dunque sullo stesso sistema degli archivi. Può darsi - lo dico un po' provocatoriamente, e me ne scuso - che l'età della globalizzazione richieda un altro modello organizzativo della memoria e (chissà?) forse anche un altro sistema degli archivi.

Cambia anche, e profondamente, il linguaggio delle istituzioni. Nella tradizione che abbiamo alle spalle, pur con precoci e non irrilevanti eccezioni, le istituzioni hanno parlato essenzialmente con i concetti e nelle forme del diritto pubblico. In paesi come il nostro, a tradizione francese, con quelli del diritto amministrativo. Non dico nulla di particolarmente inedito se affermo che la crisi del diritto amministrativo come diritto dello Stato è in atto da molti anni; che la frammentazione dei poteri pubblici è uno dei problemi cruciali, in Italia come altrove, degli ordinamenti contemporanei; che lo Stato, da ente unitario, monumentale, granitico, è andato progressivamente trasformandosi già nel corso del Novecento, sino a generare un complesso di figure ibride che in passato abbiamo classificato come amministrazioni parallele: gli enti pubblici nazionali tra età liberale e fascismo, poi le società per azioni miste (o partecipazioni statali), poi ancora - in un processo che ha visto prevalere sempre più il policentrismo sul vecchio centralismo - le forme nuove e nuovissime dei poteri indipendenti.

È interessante notare (anche dal nostro specifico punto di vista) che queste profonde trasformazioni strutturali non hanno prodotto, in particolare in Italia ma in genere nei paesi dell'Occidente, una riduzione fisica dello Stato, un suo arretramento rispetto alla società. Anzi, al contrario: i dipendenti pubblici sono passati da circa il 10% della forza lavoro a un quarto dell'intero esercito lavorativo, e la spesa pubblica si è accresciuta dappertutto in modo sensibile. Quello che è cambiato non è la presenza dello Stato, la sua corposa (alcuni dicono ingombrante) immanenza sulla società. Piuttosto le forme di quella presenza: di fronte ai compiti sempre più complessi della attività di governo, lo Stato sceglie sempre più frequentemente le forme agili e consensuali del diritto privato piuttosto che quelle rigide e unilaterali del diritto pubblico. Dunque conferenze di servizi, accordi (talvolta postulati in legge), tavoli di consultazione o di decisione tra soggetti sia pubblici che privati.

I poteri pubblici - ci ricorda ancora una volta Cassese - agiscono sempre di più con tecniche e metodi analoghi a quelli del mercato.4 Si afferma dunque, anche in questo senso, un modello amministrativo nuovo, che potremmo definire "reticolare". Vi concorrono, a pari condizione e con eguale legittimazione, soggetti pubblici, dotati di una specifica rappresentanza generale, e altri soggetti, privati, portatori di interessi sezionali a cui lo Stato evidentemente riconosce rappresentanza. Gli uni e gli altri concorrono a determinare politiche di settore, politiche territoriali, ma anche politiche generali. La forma leggera dell'intesa, del lodo, del patto, prevale su quella pesante della legge.

Sotto questo profilo la rilevanza pubblica dei soggetti privati è pari a quella dei loro interlocutori pubblici. Il concetto stesso di istituzione (concetto molto controverso oggi) ne viene problematizzato. Sinora istituzione pubblica è stata, per unanime definizione, lo Stato, gli enti cosiddetti minori, gli enti istituiti dallo Stato e dotati implicitamente di una loro specifica missione statale. Ciò in tutti i manuali di diritto pubblico del secolo scorso. Ma oggi, in presenza di simili profonde modifiche storiche, viene da pensare che una grande impresa, nazionale o ancor più multinazionale, che eserciti un ruolo di cogoverno su ampie porzioni del territorio, condividendo patti territoriali, programmazioni di lungo respiro, responsabilità generali, non è da considerarsi meno "istituzione" dei soggetti pubblici propriamente detti. Vengono cioè in rilievo organizzazioni di origine e natura privatistica che lo Stato dota di autorità pubblica; e altre che comunque concorrono in modo determinante alle decisioni collettive.

Ne deriva una messa in dubbio del sistema archivistico dello Stato così come lo abbiamo conosciuto in Italia: sistema glorioso, forte di un prestigio accumulato nel passato, ma corrispondente, al suo apparire e radicarsi, a un altro modello di Stato centralistico, e soprattutto a un diverso assetto dei rapporti tra autorità pubblica e privati. Se dovessi esprimere con una sola immagine quel che sta avvenendo nel tessuto delle istituzioni (non solo in Italia ma su scala sopranazionale) direi che stiamo passando da modelli di organizzazione del potere essenzialmente caratterizzati per gerarchie verticali ("piramidali": si dice sempre così dell'amministrazione italiana quando se ne vuole descrivere l'assetto primigenio perpetuatosi dall'Ottocento) a modelli di tipo orizzontale, o appunto reticolare.

Penso che questa trasformazione non sia scissa da quanto va accadendo più in generale alla nostra cultura, all'intero mondo delle nostre relazioni, su scala planetaria. Per dirla in una battuta, e quindi rozzamente (del che mi scuso in anticipo), la caduta del sistema a celle separate che caratterizzava sino a questo secolo le nostre culture nazionali (e che separava quella occidentale dalle altre nel mondo) produce inevitabilmente una circolazione innanzitutto culturale tendenzialmente sovversiva rispetto alle antiche gerarchie. A ciò concorre potentemente l'orizzontalità strutturale insita in Internet, il procedere non più per filiere verticali (dal generale al particolare, dal più al meno importante, dal centro alla periferia) ma per progressivi link e associazioni di concetti per così dire "liberi", senza schemi preordinati che obblighino la navigazione secondo percorsi autoritariamente fissati.

Il punto non è affatto secondario per il discorso che sto cercando di sviluppare. Negli anni scorsi ho seguito con molto interesse il tentativo di "Archivi del Novecento" (una rete di archivi non statali di grande rilevanza culturale) di dotarsi di un lemmario in base al quale poter navigare orizzontalmente gli archivi raccolti nella rete. Dunque parole-chiave (come siamo abituati tutti a fare tutti i giorni su Google), nessi, nomi e cognomi, date, eventi clou, soggettazioni. Abituati come siamo (io per primo) a consultare gli archivi a seconda della classificazione dei documenti per ente di produzione, ripercorrendo il tracciato istituzionale e gerarchico dell'amministrazione come via maestra da non tradire mai, la scoperta di questo nuovo modo, assai simile a quello di chi legga un grande volume aiutandosi con l'indice dei nomi e degli argomenti, può apparire (anche a me è apparso) alquanto sovversivo. Ma non viene forse, da questa e da altre simili esperienze, un suggerimento molto pertinente per quanto riguarda la nuova situazione della memoria nell'età delle reti e della globalizzazione? Non sarà questo il metodo più idoneo di consultazione (o almeno uno dei metodi), in un tempo in cui il documento sarà prodotto sempre più in modo plurimo e nell'ambito di reti sempre più complesse e reciprocamente interattive?

La struttura tradizionale degli archivi di Stato - uno per provincia, secondo il presupposto che le istituzioni si diramano dal centro in periferia in modo lineare e geometrico, e uno al centro, per la documentazione del Governo e latamente dello Stato - non corrisponde più agli assetti e al funzionamento concreto delle istituzioni. Non agli assetti, perché già la riforma del Titolo V della Costituzione ne ha fatto da tempo saltare il presupposto ideologico-normativo; e oggi gli sviluppi federalistici, per quanto confusi e contraddittori, rischiano di vanificarne il riferimento puntuale al territorio. Non al funzionamento, perché le politiche pubbliche, come si è detto, si dipanano secondo modalità e con il coinvolgimento di soggetti assai differenti da quelli presupposti da quel modello organizzativo. Crescono viceversa le reti locali, e in esse troviamo archivi e talvolta biblioteche insieme, in una felice sinergia e comunanza di intenti e di metodologie che dice molto sulla presunta separazione dei saperi disciplinari e delle professioni.

Bussano alla porta domande non più eludibili. Ne formulo una per tutte: chi censisce oggi, chi conserva, chi preserva i siti Internet? Chi si cura della memoria effimera (eppure decisiva per la storia dei nostri giorni) che si svolge quotidianamente, istantaneamente, sul web? Chi conserva i siti governativi nella loro evoluzione, registrandone sviluppi e cancellazioni? Chi i siti dei partiti, quelli istituzionali, quelli delle grandi organizzazioni e associazioni? Esiste, si sa, un benemerito sito statunitense che svolge questo prezioso ruolo su scala mondiale, ma non sarebbe opportuno che in Italia l'amministrazione archivistica, a questi scopi preposta, si ponesse il problema?

Ho lasciato per ultimo il tema forse più interessante di tutti. Perché nell'epoca della globalizzazione, per un quasi paradosso di quelli che spesso ci riserva il cambiamento storico, insieme alla dimensione planetaria cresce la rilevanza del locale, il protagonismo della comunità radicata sul territorio, il senso e il bisogno dell'identità. Non è una domanda da trascurare, né tanto meno da liquidare come il residuo nostalgico e conservatore di piccoli mondi antichi sul viale del tramonto. La rilevanza del locale è l'altra faccia, necessaria e ineliminabile, dell'avvento del globale. E nell'identità (nelle radici, come si usa dire) risiede un elemento di forza e di collante sociale e culturale senza il quale i processi della globalizzazione rischierebbero di abbattersi come devastanti ondate sulle società contemporanee, travolgendole. Identità, dunque, come ricerca del proprio specifico punto di vista per partecipare alla storia nuova del mondo. Identità come apertura, non mai chiusura conservativa, al nuovo che avanza. E dunque come integrazione, contaminazione reciproca, comprensione della diversità.

Le istituzioni culturali possono trovare in questo specifico terreno il senso della loro nuova missione. Non per esaltare le presunte glorie delle nostre spesso inesistenti e velleitarie piccole patrie, ma per portare in evidenza le radici della nostra grande storia nazionale (che si compone di molte storie locali) e rafforzare, con il senso del passato, le ragioni di una navigazione sicura nel mare aperto della società globalizzata. Bisogna dunque insistere sulle reti corte, accanto alle reti lunghe della globalizzazione. Potenziare l'alleanza, sul territorio, delle istituzioni che vi insistono e dei soggetti privati che possono essere attirati nel circuito. Censire la memoria locale sistematicamente, non sotto la forma dell'archivio dei cimeli, naturalmente, ma potenziando la tradizione in funzione della costruzione di identità moderne, nuove, adatte al mondo che cambia.

Ci vuole una bussola, in tutto questo. Un disegno nazionale unitario, confortato dall'alleanza dei poteri che rappresentano il territorio. Il centocinquantenario potrebbe (starei per dire: poteva) esserne l'occasione. Occorrono però mezzi, spesa oculata, adeguate risorse umane e professionali. Gli archivi senza archivisti non possono funzionare. Le biblioteche senza bibliotecari nemmeno. È un compito difficile insomma, che dovrebbe spettare innanzitutto alla politica, se la politica avesse la consapevolezza del proprio ruolo. Ma che in larga parte spetta anche alle istituzioni in rete nelle regioni, secondo modelli che del resto, qui in Emilia, sono già praticati, e con risultati che giudico virtuosi. Personalmente, qui a Bologna, ho avuto l'onore di partecipare al progetto pilota della "Città degli archivi" e di apprezzarne tutta la portata innovativa.

Una vera politica delle istituzioni culturali, dunque. Che guardi alle grandi trasformazioni in atto e si attrezzi, anche coi necessari mutamenti organizzativi, alle necessità che ne derivano. Che superi la dicotomia pubblico-privato, consapevole dell'esistenza ormai di reti che unificano e intersecano i due campi. Che non abbia timidezza nel mettere in discussione metodologie e linguaggi tradizionali quando la natura delle nuove fonti lo richieda. Che ragioni in termini di alleanza coi poteri locali sui territori, alternando le reti lunghe alle reti corte e potenziando il fronte della conservazione anche dal punto di vista decisivo della sua alimentazione finanziaria in tempi di finanza di crisi (qui non ne ho trattato). Che miri a formare una nuova generazione di professionisti delle fonti adatta a gestire il patrimonio della vecchia e della nuova documentazione.

Una politica che, infine, guardi all'uso sociale delle istituzioni culturali, e non le concepisca solo come sedi della ricerca (che pure è un uso essenziale, senza il quale queste istituzioni morirebbero) ma ne legittimi l'esistenza e i costi sociali attraverso opportune strategie di apertura al pubblico. Come si va facendo, quotidianamente, in tanti archivi italiani, pubblici e privati, a prezzo di sacrifici spesso eroici, grazie alla cultura, all'intelligenza, alla disponibilità e alla passione di tanti operatori. Senza i quali, nulla di quanto ho detto sarebbe possibile, tutto sarebbe vano.


Note

(1) S. Cassese, La crisi dello Stato, Roma-Bari, Laterza, 2001; Id., Lo spazio giuridico globale, Roma-Bari, Laterza, 2003.

(2) S. Cassese, Il diritto amministrativo globale: una introduzione, in S. Cassese, Oltre lo Stato, Roma-Bari, Laterza, 2006.

(3) S. Cassese, Il diritto globale. Giustizia e democrazia oltre lo Stato, Torino, Einaudi, 2009, p. 31.

(4) S. Cassese, La crisi dello Stato, cit., p. 98.

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